Ascolti comparati: F. P. Tosti, “Penso”. Carlo Bergonzi vs. Joseph Schmidt

Penso alla prima volta in cui volgesti
Lo sguardo tuo soave insino a me,
Al dolce incanto, ai palpiti celesti
Che quell’istante tenero mi diè.

Ma tu… tu l’hai scordato,
Dici che un sogno fu,
Come in quel dì beato
Non sai guardarmi più!

Penso al sorriso che mirai primiero
Sul labbro tuo dolcissimo vagar,
Alle speranze, al sogno lusinghiero
Che mi seppe nell’animo destar!

Ma tu… tu l’hai scordato,
Dici che un sogno fu,
Come in quel dì beato
Non sai sorrider più!

(testo di Rocco Emanuele Pagliara)

 

Dopo il salotto tedesco della puntata precedente passiamo ora a quello italiano, il re indiscusso del quale è Francesco Paolo Tosti (1846-1916). Nelle sue romanze il sentimento, generalmente contrastato, spesso non ricambiato e comunque infelice, è protagonista assoluto e non costituisce certo un’eccezione “Penso”, un bolero in cui si dà voce a un amante (con o senza apostrofo: il testo è volutamente ambiguo e sfumato, e non poche primedonne, capeggiate da Medea Mei Figner, hanno affrontato questo pezzo) che amaramente constata l’affievolirsi della passione da parte della persona amata. Il brano, un Allegretto in mi minore che passa al modo maggiore per il “trio” (Meno mosso), presenta una scrittura marcatamente centrale (la nota più acuta è un sol diesis 3) con parecchie frasi che insistono, però, nella zona del secondo passaggio e, quel che più conta e interessa, indicazioni dinamiche, agogiche ed espressive praticamente a ogni battuta (in modo da rendere, di volta in volta, il tormento dell’innamorato e il rimpianto del bene perduto), indicazioni che non possono certo ridursi a ispirare un’esecuzione genericamente “sentimentale” o, peggio ancora, canzonettistica.

 

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Comparando le esecuzioni di Carlo Bergonzi e Joseph Schmidt si avverte con chiarezza la distanza che separa un’esecuzione corretta da una autenticamente ispirata. L’esempio è tanto più pregnante in quanto rammenta che non sempre una più sicura padronanza della lingua si traduce ipso facto in una più sottile pregnanza di accento e di fraseggio. Il cantante italiano pronuncia con maggiore chiarezza ma “spiana” le indicazioni di diminuendo su frasi come “quell’istante tenero mi diè”, che il collega, suddito dell’Impero asburgico, non solo rispetta alla perfezione, ma si prende il lusso di evidenziare con uno “stentando”, anche per valorizzare il testo che, proprio in quel punto, mette in rilievo la centralità del primo incontro e del contestuale colpo di fulmine. In questo modo Schmidt dimostra di avere compreso appieno l’indicazione di “sentito” che per ben due volte compare nella prima parte del brano. Giunto al “trio”, alle parole “dici che un sogno fu” Bergonzi trascura il crescendo previsto dall’autore e l’indicazione “con anima” sul seguente “come in quel dì beato”, pur sfoggiando assoluta saldezza, virtù oggi ignota o quasi, sul fa diesis 3, nota su cui per l’appunto cade il secondo passaggio della voce tenorile. Un controllo del fiato almeno altrettanto esemplare non impedisce peraltro a Schmidt di esibire analoga saldezza e di rispettare al contempo le indicazioni dinamiche ed espressive di cui sopra, servendosi di un timbro di per sé non certo malioso per veicolare in pari misura malinconia ed estasi. Alla successiva salita al sol diesis (“beAto”) Bergonzi è sempre sicuro e squillante, ma Schmidt non lo è di meno e il suono, a differenza di quello dell’italiano, non è semplice esibizione di potenza tenorile, bensì veicolo, ancora una volta, di estatico, ma non per questo svenevole o effeminato, languore. Allo stesso modo, quando al termine della seconda ripetizione del trio Schmidt sale al si naturale (Bergonzi si ferma al sol diesis previsto dallo spartito), questa nota non è per nulla vacua o gratuita, ma pone il sigillo della grandiosità (in una voce che, lo ripetiamo, non ha in natura alcunché di grandioso o di eroico) all’elegia di un amore incenerito dal tedio e dall’abitudine, come sembrano suggerire le ultime battute, con i loro suoni smorzati a regola d’arte che si perdono per così dire nella propria eco. Niente a che vedere con i rochi falsettini, che qualche tenore nostro contemporaneo tenta di spacciare per “pianissimi”. Peraltro mundus vult decipi… Tornando a Schmidt, è questa comprensione del significato e del valore della parola, al di là di qualche suono consonantico un poco duro e gutturale e al netto di un paio di vocali a mezza strada fra “u” e “o”, a costituire la carta vincente del piccolo (solo in senso fisico!) tenore austroungarico, ribadendone lo status di modello ed esempio di vocalismo non meno che di espressività. Modello ed esempio che i “grandi divi” moderni di scuola germanica (nonché italiana, occorre ribadirlo) si guardano bene, tanto per deficienze tecniche quanto per mancanza di gusto e stile (quelli veri, che nessuna pseudofilologia è interessata a coltivare, tanto meno a restaurare), dal seguire.

3 pensieri su “Ascolti comparati: F. P. Tosti, “Penso”. Carlo Bergonzi vs. Joseph Schmidt

  1. Esecuzioni deludenti.
    Stimo Schmidt buon vocalista e piu’ che buon interprete.
    Bergonzi, penso si sia da tempo capito, lo ritengo uno dei piu’
    grandi cantanti da me ascoltati, ma qui’ sono entrambi lontani
    della loro grandezza, uno per manifesta incapacita’ alla comunicazione in un simile repertorio, l’altro per sopraggiunte avvisaglie di declino vocale. Non posso che rimpiangere la meravigliosa resa del brano da parte del grande Carlo a Gallarate, durante un concerto solo solo quattro anni prima.
    Certamente si ascoltano due cantanti che onorano comunque,
    la loro professione.

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