Siamo ormai alle soglie del festivaliero mese di agosto e la ripresa del Guillaume Tell che fra poche settimane si terrà in quel di Pesaro offre lo spunto a noi del Corriere della Grisi, fervidi ammiratori del compositore pesarese e dei leggendari cantori che con la propria voce ne eternarono il genio, per riflettere sulla vocalità di Arnold Melchtal, proponendovi a partire da domenica un video ogni giorno in cui ripassare la tradizione esecutiva del ruolo come documentata da oltre un secolo di incisioni, sin dai vetusti 78 giri acustici.
Tra le parti che Rossini compose per la voce di tenore nel genere serio, tutte uscite di repertorio nel corso dell’Ottocento per la desuetudine delle voci maschili al canto d’agilità, questa è infatti l’unica – proprio in ragione del venir meno in essa dello stile riccamente fiorito che fino ad allora aveva caratterizzato la scrittura vocale rossiniana – ad essere sopravvissuta pur molto tagliata fino all’avvento dei primi dischi e cilindri, su cui furono immortalate le voci degli ultimi tenori di forza specialisti del grand-opéra, eredi della tradizione che partiva da Nourrit e Duprez. Per di più l’incunabolo del disco riesce a documentarci l’esecuzione della parte in modo sufficientemente completo, non mancando antiche e interessantissime incisioni, oltreché dell’aria e della cabaletta, anche del duetto con Guglielmo, del duetto d’amore e del terzetto, ossia tutti i momenti salienti in cui Arnold è chiamato a cantare. Le caratteristiche che accomunano gli antichi interpreti del ruolo sono la facilità, la potenza e lo squillo argentino in particolare del settore acuto, la scansione netta della parola, l’accentazione decisa, eroica, oltre alla generale frequentazione del medesimo repertorio, quello più pesante e drammatico: non certo voci leggere, quindi.
Come ben noto l’opera è passata alla storia anche per il mito del “do di petto”, il potente acuto lanciato dal tenore Duprez che tanto entusiasmò il pubblico parigino, e che avrebbe rivoluzionato per sempre lo stile e la tecnica (?) del canto, superando le effeminatezze degli antichi tenori di grazia ed in particolare i vezzi dell’infelice collega Nourrit, primo interprete del ruolo, che invece emetteva gli acuti in un mai ben identificato “falsettone”. Duprez insomma avrebbe trasformato una parte originariamente pensata per le tinte astratte, sfumate e malinconiche di un tenore leggero, in un eroico antesignano del Trovatore.
La voce di Nourrit era effettivamente quella del tipico contraltino, come testimoniano soprattutto le tessiture acutissime delle parti per lui approntate da Rossini. Per l’impressionante insistenza nella quinta estrema della voce maschile (fa3-do4) potrebbero quasi essere state scritte per la voce di un vero e proprio musico contraltista, cui l’estetica rossiniana erede di quella barocca aveva sempre affidato il ruolo del giovane eroe amoroso. I registri espressivi su cui si muove il personaggio sono infatti quello patetico ed amoroso e quello eroico. Pensiamo poi che la classe vocale dell’antico ”haute-contre”, cui Nourrit apparteneva, leggeva le note proprio nella chiave di contralto, e che nella prima ripresa italiana dell’opera si pensò inizialmente di ricorrere, per la parte di Arnold, a Rosmunda Pisaroni. Se osserviamo la scrittura a tratti acutissima del duetto con Matilde (“Doux aveau!”), risultano molto evidenti le somiglianze con i duetti tra soprano e contralto en travesti delle precedenti opere serie rossiniane, il tenore cantando ora una terza esatta sotto il soprano (quindi da vero e proprio contralto), ora una terza sopra, ma all’ottava inferiore. Affrontare una pagina simile a piena voce, quindi – data la tessitura – strillando spasmodicamente, significa tradirne la delicata cifra espressiva e stilistica, e sicuramente compromettere la resistenza dell’organo vocale per il prosieguo della recita. La parte comunque dovette risultare ai limiti delle possibilità fisiche dello stesso Nourrit, che già dopo le prime recite iniziò a tagliare la cabaletta dell’ultimo atto con la sua terrificante sequela di do acuti. Il che ci dimostra almeno due cose: che l’acuto non poteva essere sempre risolto con emissione leggera e sfumata, soprattutto nei passi di carattere eroico e concitato in cui si deve svettare su considerevoli masse corali ed orchestrali (altrimenti non si spiegherebbe la necessità del taglio); che Nourrit era sì contraltino, ma non vociuzza ultraleggera cui sostenere ripetutamente note così acute potesse costare poco. Al contrario, le parti tendenzialmente più centrali che altri compositori scrissero per lo stesso cantante, come il rivoltoso Masaniello o il giudeo Eleazar, ci dimostrano come la voce, adusa al repertorio tragico, non difettasse affatto di ampiezza e sonorità nel medium. Ricordiamo poi che il cantante in un’occasione rivestì i panni dell’Otello rossiniano, parte scritta per il Nozzari, ed in un’altra volle essere addirittura protagonista del Don Giovanni. Come cantasse il Guglielmo Tell possiamo immaginarlo considerando le sue doti di fine e vario fraseggiatore, capace di esplicitare ora l’aspetto patetico, ora quello epico del personaggio. Professore di déclamation lyrique al Conservatorio di Parigi, il suo canto ricercava come da tradizione francese la cura per la perfetta pronuncia, l’eleganza del fraseggio, la varietà di accenti, le sfumature, i contrasti (“dove non ci sono sfumature non c’è musica”). Parimenti importante poi nei teatri francesi era la recitazione. Una cronaca della prima, nell’agosto del ’29, ci descrive la performance del tenore come particolarmente toccante soprattutto nel momento in cui Arnold apprende della morte del padre, nel corso del terzetto del secondo atto.
Un’ultima nota sulla questione sempre mal compresa degli acuti in “falsettone”. Le cronache dell’epoca effettivamente descrivono la voce di Nourrit come eunucoide allorquando si spingeva verso le estreme note acute, tanto da ricordare il colore dei castrati. Il che secondo il mio parere non significa che il cantante utilizzasse una emissione differente dall’unica possibile e corretta, ma che semplicemente il passaggio alla corda acuta, in un‘epoca in cui si cantava prevalentemente chiaro e aperto, dichiarava una naturale e soggettiva ambiguità timbrica tipica delle voci maschili più acute. D’altro canto, il modo di produrre correttamente gli acuti è solo uno e non può che essere uno. L’acuto di petto, peraltro, se davvero di petto, è solo un grido sguaiato, fibroso, forzato, che nessun cantante professionale si sognerebbe di tentare, da secoli essendo consolidato lo studio del passaggio dal registro centrale a quello acuto, tradizionalmente detto di “falsetto”. L’unione dei registri era uno degli aspetti in cui eccelleva la scuola di Manuel Garçia, che di Nourrit figlio fu il maestro. L’innovazione introdotta da Duprez doveva essere quindi di tipo stilistico più che tecnico. Gli antichi tenori sapevano risparmiarsi la voce utilizzando il pieno volume solo quando necessario, altrove ricorrendo ad alleggerimenti di emissione che potevano anche sconfinare con il puro falsetto, quasi spoggiato. Si trattava di trucchi, furbizie del mestiere. Specie in area francese poi era diffuso, come documentato anche da alcuni dischi di antichi tenori di grazia, il gusto per queste tinte sfumate. Duprez cantando tutto a piena voce non inventò nessuna nuova tecnica (prova ne sia il suo stesso trattato di canto, che riporta ancora la classificazione antica dei registri), ma inaugurò solo una nuova moda per il canto stentoreo, sempre e solo “di forza”. Il che probabilmente ne determinò anche il precoce declino vocale.
Concordo pienamente con il ritenere un’innovazione semplicemente stilistica e non propriamente tecnica l’introduzione degli a cuti con voce piena e consonanza di testa. Gli acuti di un Duprez, così come quelli dei tenori verdiani del secondo Ottocento, formatisi con maestri di antica tradizione erano sicuramente squillanti, timbrati, di emissione facile, quindi scorrevoli e penetranti. Si potevano conquistare, ieri come oggi, con l’espediente tecnico del “secondo passaggio”: semplicemente alleggerendo i suoni centrali e arrotondando la vocale (e non certo con colpi di diaframma, respirazioni addominali, chiappe strette, affondi, mandibole abbassate rigidamente, ecc.) e con particolare cura della respirazione che dev’essere rigorosamente intercostale-diaframmatica, l’unica in grado di creare le condizioni di massima decontrazione della regione laringea, presupposto essenziale per cantare a “gola aperta” senza sforzo e per conservare in salute il proprio strumento. È l’unico metodo per riuscire a produrre acuti decorosi e mantenere la capacità di governarli nella dinamica. Certo, ragionando da maestro di canto, non è sempre detto che a tutte le laringi tenorili sia concesso di arrivare agli acuti pieni intensificando il “falsettone”, cioè partendo da quel tipo di suono e immettendo, attraverso la ricerca di un maggior sostegno o appoggio diaframmatico, una dose di registro di petto fino al punto tale da considerare il suono acuto ottenuto completamente pieno. Forse così procedevano i tenori di cui sopra che probabilmente iniziavano a sviluppare la tecnica vocale partendo con organi già ben elasticizzati dall’esercizio praticato fin dall’ infanzia nei cori ecclesiastici. Oggi, nella maggior parte dei casi, bisogna procedere, per la conquista degli acuti in registro di petto, partendo dai suoni centrali emessi con quest’ultimo registro, leggeri leggeri, e procedendo pian piano con il mantenimento della stessa qualità di suono, scurendolo un po’, verso gli acuti con vocalizzi mirati, la cui esecuzione per velocità, intensità, ecc. va controllata volta per volta, sulla base di ciò che lì per lì l’orecchio clinico e l’intuito vocale del maestro suggerisce. Ma anche procedendo in questo modo si ottengono risultati apprezzabili contrariamente alle tecniche dell’affondo più o meno sclerotizzate e considerate da alcuni panacea di tutti i mali vocali… I bellocci tenori odierni si vadano a sentire i Lauri Volpi, i Fleta, i Pertile… e si chiedano come facevano a cantare come Dio comanda…
Ma il punto è che, se avviene il cambio di registro, che non è un cambio di risonanza ma è un cambio di corda, un diverso modo
che le corde hanno di vibrare – e questo avviene in tutti i cantanti del mondo, esclusi i canzonettari, che come si dice in gergo, non “girano” la voce -, allora è sbagliato parlare di acuti “di petto”. Il petto è il registro centrale, l’acuto nell’uomo è sempre un falsetto più o meno rinforzato, al grado zero di intensità è proprio falsetto, il rinforzo operato con l’appoggio poi lo rende pieno, praticamente uguale al petto. Ma non è petto, se è petto allora non ha senso parlare di passaggio. Ci sono voci tenorili in cui questo fatto è particolarmente evidente, recentemente pensiamo a contraltini come Merritt o Matteuzzi. Purtroppo oggi si è persa coscienza di cosa sia davvero il registro che per secoli è stato chiamato “falsetto” e si crede che sia falsettino spoggiato o chissà quale astruseria, e questo dà luogo a stravaganti speculazioni sull’emissione degli antichi, che invece non potevano che cantare nell’unico modo possibile.
Sarà come dici tu! O forse basta mettersi d’accordo sull’uso delle parole. Comunque la complessa questione dei registri io l’ho compresa nei termini che seguono, ma vorrei mantenere il beneficio del dubbio su quanto scrivo, non avendo la presunzione di avere in tasca la verità… può essere che sbagli! Che il fenomeno dei registri sia legato ad un cambio di corda, ossia ad un fenomeno di natura laringea e non risonanziale ce lo dice la foniatria, ovvero lo si è scoperto con l’invenzione del laringoscopio ad opera del Garcia. Chi per ragioni storiche o culturali non disponeva di queste conoscenze scientifiche, come il Mancini e il Tosi, e altri maestri di canto e cantanti che apprendevano e insegnavano la tecnica con metodo empirico, sulla base di che cosa potevano pensare il fenomeno dei registri? Evidentemente affidandosi a fenomeni di natura risonanziale, di timbratura del suono e solo in parte al parametro dell’altezza tonale. Il Mancini, mi pare, usa la parola “corda” ma penso alludesse più ad una diversità di colore e intensità tra i due registri principali da lui, così come per il Tosi, considerati il falsetto (debole e povero di vibrazioni) e il registro di petto (intenso e ricco di colore). Perché ponendosi il problema dell’unione dei due registri entrambi si pongono l’obiettivo di uniformare nella timbratura l’intera tastiera vocale? Questo significa (ora non ho il tempo di citare i passi dei due testi): alleggerimento del registro di petto e rinforzo del falsetto nel settore acuto (quello di sua giurisdizione, ma questo è solo un aspetto del falsetto, che invece lo qualificano soprattutto per la debolezza e inconsistenza del suono). Il rinforzo passa attraverso un innesto del registro di petto anche nei suoni acuti, deboli se emessi in falsetto puro. Certo, loro avevano in mete più che altro la voce dei ragazzini castrati, ma qui si complica la questione … Comunque seguendo questa logica personalmente quando uso l’espressione “registro di petto” alludo all’emissione della voce (maschile!) in tutta la sua estensione con il colore virile, tipico appunto della voce maschile, stante la marcata differenza di timbratura tra falsetto e petto (meno marcata nella voce femminile). Si potrebbe discutere sull’uso della parola “petto”, in quanto, come giustamente dici tu, rimanderebbe al fenomeno risonanziale collocabile nella regione del torace, mentre io lo intendo più collegato all’aspetto della timbratura del suono, tantoché uso l’espressione per gli acuti pieni “registro di petto con consonanza di testa”, alludendo anche alle sensazioni vibratorie allocate nella scatola cranica dopo il famoso “giro del fiato”. Cioè: penso il fenomeno dei registri non richiamandomi al fattore dell’altezza tonale, bensì principalmente al fattore dell’intensità o, meglio, della timbratura del suono. Cambio registro, cambio colore, come accade con i registri di un organo a canne. Questo perché il fenomeno risonanziale lo posso constatare in entrambi i registi principali, in quanto posso sviluppare la voce su due ottave o più con entrambi i registri (vedi il caso dei controtenori) e sperimentare nel settore tonale basso risonanze nel petto, in quello medio nella maschera, in quello acuto in testa. Certo, la perfetta sovrapponibilità dei due registri, ragionando in termini di estensione tonale, non è perfetta, stante le estremità dell’intera tastiera vocale appannaggio di un solo dei due (acuti estremi solo in falsetto, note gravi solo di petto). Ragioniamo in termini foniatricistici: se un tenore fa una “messa di voce” su una nota acuta attacca pp il suono in “falsetto puro” lo rinforza abilmente passando al “falsettone” o “registro misto”, ossia riesce ad attivare gradualmente (se tale attivazione fosse brusca come nella voce incolta vi sarebbe il cosiddetto break vocale) i muscoli tiroaritenoidei, la cui attività è pressoché nulla nel registro di falsetto, fino al punto tale da inspessire le corde e farle produrre un suono ricco di vibrazioni (appunto in registro di petto, se per petto intendo “colore pieno e virile”; ed ecco l’innesto cui alludevo sopra) per poi fare l’incontrario nel ritornare al pp.
Caro Gianbattista in questo afoso pomeriggio di fine luglio a che cosa ci mettiamo a pensare…! La passione per la tecnica vocale è una malattia dalla quale non ci si riesce a curare… Un caro saluto
Emiliano
Il fenomeno dei registri è effettivamente complesso se si cerca di spiegarlo a parole, diventa davvero chiaro solo con l’esempio, una volta che lo si è sperimentato concretamente sulla propria voce. In ogni caso il succo del discorso è che non è pensabile che i tenori antichi non sapessero emettere gli acuti in voce. Il canto è uno e non può che essere uno.
Però che qualcosa cambi nella tecnica d’emissione è indubbio (lo dice lo stesso Rossini, non apprezzando l’ut de poitrine emesso da Duprez). Non è questione di univocità del canto, ma di evoluzione tecnica. Il fatto che i cantanti antichi non sapessero emettere gli acuti di petto non deriva da impossibilità tecnica, ma da mancata conoscenza di una tecnica siffatta (per tante ragioni, in primis una diversa necessità espressiva). Anche Aristotele ignorava le leggi di gravità, eppure esistevano anche per lui e la scienza è una…
Bisogna vedere quanto c’è di vero e quanto invece è pura leggenda in questi aneddoti che sono stati tramandati su Rossini… In ogni caso non so cosa sia un acuto di petto, non sento tenori né oggi né ieri salire agli acuti senza passare di registro, forse Di Stefano, ma sono brutti suoni. Non capisco quale “evoluzione tecnica” sarebbe mai stata possibile, dal momento che conosco un solo modo giusto di fare gli acuti. Le parole di Rossini, se vere (ma dubito che si permettesse di esprimere opinioni così irrispettose verso un cantante che assicurava un tale successo alla sua opera), dimostrano solo che… non gli piacevano gli acuti di Duprez, come a me possono non piacere quelli di Kaufmann. Non provano affatto che ci sia stata una nuova scoperta tecnica. Lo stesso Duprez ha scritto un trattato in cui ripete gli stessi concetti tecnici dei manuali più antichi.
Gli acuti di petto non sono semplicemente gli acuti in falsettone. Mi viene da pensare che il passaggio di registro a cui alludi tu non sia altro che quel cambiamento, percepibile sia internamente a livello vibrazionale che esternamente a livello acustico, che avviene nel suono quanto passando agli acuti viene girato in testa in modo corretto, senza perdere il colore del registro di petto. Si può ottenere, mi ripeto, non pompando i centri come fa Kaufmann, bloccando faringe e intubando eccessivamente il suono. Facendo così si irrigidisce tutta la muscolatura laringea e si impedisce alla voce di galleggiare sul fiato. Il risultato sta in acuti pesanti, pressati e col tempo sempre più stimbrati (vedi Cura e di qui a poco, se non già ora, Kaufmann e compagnia bella…), ben altra cosa dalle lamine taglienti alla Lauri Volpi, anche il quale, ricordando gli insegnamenti del Cotogni, suo maestro, asseverava di non baritoneggiare nei centri. Bisogna diminuire il suono senza cadere nel falsetto, questa la difficoltà…e allora sta su alto in maschera, lucente, scorrevole; e potenziare la muscolatura respiratoria con esercizi senza l’uso della voce (“chi sa ben respirare sa ben cantare”) come faceva la mia compianta maestra di canto, allieva per anni della Toti Dal Monte. Se può essere fuorviante la dicitura “acuti di petto” la si può benissimo sostituire con “acuti in registro pieno o modale e consonanza di testa”.
Conosco bene questa tassonomia dei registri che proponi, l’ha inventata un noto foniatra che di canto naturalmente non capisce nulla, i suoi campioni di studio essendo le gole di “cantanti” che meglio sarebbe se non avessero mai aperto bocca. Sono a mio giudizio un mucchio di sciocchezze contraddittorie ed incomprensibili che denotano solo una totale mancanza di coscienza e padronanza pratica sulla materia, e che non hanno mai aiutato nessuno a cantare. Io mi rifaccio allo schema del Garçia che secondo la mia esperienza, nella realtà del canto e non nelle speculazioni pseudoscientifiche dei medici, è l’unica davvero chiara ed esatta. Di consonanze (??), registri modali (??? una parola più semplice non potevano trovarla?) e via discorrendo preferisco non sentir parlare. Questi hanno scoperto l’acqua calda (senza peraltro capire davvero come si fa a cantare) e per darsi un tono da luminari le danno nomi complicati, come se non bastassero quelli tradizionali ed intuitivi in uso da secoli presso le scuole di canto classiche.
Piuttosto, non hai qualche gustoso aneddoto da raccontarci sulla grandissima Toti?
Sono d’accordo con Duprez. Gli antichi tenori (per gli evirati bisognerebbe fare delle precisazioni maggiori e, per la questione dei registri, ragionare focalizzando l’attenzione sulle analogie con la voce femminile, ma il discorso si fa lungo…) probabilmente emettevano acuti con il “falsettone” o “registro misto”, il quale se emesso sul fiato corre ed è intenso. Può essere benissimo che siano anche stati capaci di emetterli con registro pieno, ma per conto loro (quando uno studia canto prova sempre di tutto) e non facendo musica, dato che il gusto dell’epoca non lo richiedeva. Il Duprez con il suo “grido da cappone sgozzato” non avrebbe destato le riprovazioni di Rossini: qualcosa di nuovo in quel do ci dev’essere stato…! E che cosa? Una volontaria intensificazione del suono ricercando l’energia con un semplice maggior appoggio/sostegno o sotto il semplice impulso a volerlo emettere così. Risultato: un innesto di registro pieno più cospicuo, quindi un colore più virile. Essenziale, però, l’accorgimento tecnico dell’alleggerimento dei suoni centrali di cui parlavo nel primo commento e dell’arrotondamento della vocale; mantenendo poi la respirazione della scuola antica, che comprendeva pure una componente sterno-toracica (la famosa “sostenutezza di petto”) e non passando come fecero alcuni in seguito ad una respirazione puramente addominale…
Devo convenire in parte su quanto dici. La foniatria non è certo la panacea di tutti i mali vocali odierni, anzi forse ne crea di nuovi. Nell’apprendimento del canto le spiegazioni meccanicistico-fisiologiche servono ben poco (avendo dato lezioni di tecnica vocale per anni l’ho constatato di persona…). L’apprendimento della tecnica passa, come è sempre stato, attraverso la ricerca delle giuste sensazioni, attraverso un processo imitativo istintivo, intuito vocale, ecc. Ma sai, oggi va di moda la foniatria artistica ed è facile subirne le contaminazioni terminologiche. Evitiamo pure la dicitura “registro modale” e anche, se ti disturba, “acuti di petto”, che mi sembra più tradizionale, se non altro non l’ha coniata l’illustre foniatra a cui ti riferisci. Permettimi, però, di usare quest’ultima ancora per un po’. Io, come scrissi, con “petto” focalizzo l’attenzione solo sul “colore” della voce, quello virile mantenuto anche negli acuti, colore ben diverso da quello del falsetto. Acuto di petto = acuto “pieno”, ossia uniforme nella timbratura in relazione al settore medio basso della tastiera vocale. Questa uniformità, che non è solo di colore ma anche di fluidità del suono, non si può certo riscontrare in una voce incolta, la quale se mi emette gli acuti di petto non potrà che tirare il collo e produrre suoni sguaiati, e allora dovrò farglieli emettere in falsetto, il quale con l’esercizio comunque si rinforza e diventa vibrante, ma mai ricco di armonici come in registro pieno. Ed è salutare e didatticamente corretto far scoprire all’allievo anche il registro di falsetto, se non altro perché si abitui all’idea che anche il settore acuto deve riuscire facile all’emissione, come fin dall’inizio degli studi tendenzialmente avviene con il falsetto in quel settore tonale (poi bisogna vedere sempre caso per caso…). Quindi il problema sta nel riuscire ad estende anche nel settore acuto il “registro di petto”. Come? Sperando che il falsetto prima o poi miracolosamente si trasformi in “registro pieno”? Questo è possibile solo ad alcune laringi tenorili particolarmente dotate e forse proprio quelle dei tenori antichi che le elasticizzavano e allenavano fin da bambini cantando nei cori ecclesiastici. Tu potresti dirmi che la distinzione che io faccio tra acuto in “falsettone” e “acuto di petto” non esiste o, meglio, che quello che intendo io per “acuto di petto” non è altro che l’acuto in “falsettone” in “testa” e che quindi gli antichi prima del Duprez emettevano gli acuti così come i buoni tenori del secondo Ottocento e del Novecento. Forse sarà anche una tesi sostenibile?! Ma come la mettiamo con il cambio di stile, con l’avvento della sensibilità romantica? C’è stato qualcosa di nuovo oppure no nella prassi esecutiva? Comunque il discorso sui registri, come impostato sopra, io lo faccio solo per le voci maschili, mentre per le voci femminili ragiono in termini un po’ diversi, per ragioni che sarebbe troppo lungo qui spiegare.
La Toti, infatti, che si prendeva cura prevalentemente di voci femminili, non parlava mai né di registro di petto né di falsetto. La mia maestra che la frequentò dal 1950/51 fino a dopo il debutto – 1954 – ossia fino al 1956, quindi per sei anni circa non la sentì mai usare questi termini. E qui sui motivi si potrebbe ragionare a lungo, tantoché sulla scuola della Toti ci sto pure scrivendo un libercolo. Per quanto riguarda gli acuti lei invitava le allieve semplicemente a tenere leggero il fiato in zona centrale per agevolare il classico “giro dietro l’ugola”, considerando di capitale importanza il sostegno del fiato da ottenere con continui esercizi muti di diaframma, ecc. Mi chiedi qualche aneddoto? Uno me ne vien in mente. Sempre rimanendo in tema di “giro del fiato”. Un giorno a lezione, così mi raccontava la mia maestra, la Toti si alzò dal pianoforte, le andò vicino e le intimò di aprire la bocca, poi le cacciò il dito indice dentro fin dietro l’ugola, quasi a farla vomitare, e le disse “qui devi sentire che gira il fiato e adesso se ti viene da vomitare vomita pure!”… Queste primedonne…! Facevano teatro anche fuori dalle scene…!
Nel mare magnum di You Tube negli ultimi anni stanno comparendo molte registrazione di Gianna D’Angelo, altra allieva della Toti e di cui mi parlava molto la mia maestra (dormivano assieme nella stessa cameretta a Pieve di Soligo nei pressi di Villa Toti), mi piacerebbe che qualcuno di voi “grisini” (o “grisiani”?), con la competenza che vi contraddistingue, ci scrivesse su un articolo. Secondo me si tratta di un’artista, sebbene non dotata di voce lussureggiante, che andrebbe scoperta e valorizzata per l’eccellente tecnica e forse non solo. Un esempio di assoluta padronanza dei propri mezzi da cui dovrebbero imparare molte superdive contemporanee… Io lancio l’idea poi vedete voi…
Sulla questione del “do di petto” ti consiglio di leggere un interessante studio di Marco Beghelli (“il do di petto, dissacrazione di un mito”), se cerchi forse lo trovi anche su Internet in pdf. Io quel che avevo da dire l’ho già detto. Aggiungo solo che “falsettone” è una parola inventata dai critici moderni per rendere un po’ meno imbarazzante la parola “falsetto” che ricorre sui trattati antichi, dove appunto mai si trova il termine “falsettone”. Ribadisco comunque che esiste un “falsetto” incolto, quello noto a tutti secondo la sua accezione volgare, in cui appunto la voce si presenta fioca, debole, femminea, priva di armonici. Ma questa, appunto, non è voce. Il falsetto cui si riferiscono gli antichi trattati è ben altra cosa, non è ammissibile pensare che la prassi delle voci maschili all’epoca fosse di risolvere gli acuti con questi suoni dilettanteschi. Dove starebbe altrimenti la straordinarietà delle note acutissime di tenori come Rubini, note che qualsiasi dilettante sarebbe in grado di emettere con estrema facilità usando la voce spoggiata, senza nessun bisogno di conquistare con lo studio una gamma acuta bella e omogenea?
Che la Toti non parlasse mai dei registri non è un fatto negativo: meglio non dire nulla piuttosto che insegnare cose assurde come spesso si fa oggi. Tra l’altro la Dal Monte possedeva una rara omogeneità. Senz’altro ottimo il consiglio di alleggerire i centri. Quel che racconti sul dito in bocca all’allieva invece mi lascia non poco perplesso. Vorrei chiederti, per “esercizi muti di diaframma” intendi esercizi di respirazione? Oppure vocalizzi a bocca chiusa?
Mancini perdonami, come definiresti i do4 eseguiti in questo brano?
http://www.youtube.com/watch?v=bqUmbc8vSwU
o in quest’altro?
http://www.youtube.com/watch?v=jgLcYQpJb3E
Prima di ogni considerazione tecnica, innanzitutto sono due schifezze (sai che io sono per l’abolizione di tutta la “musica” che fa uso di microfoni e cose simili). Comunque quelli di Albano sono effettivamente di petto, è normale nella musica leggera salire senza passare, trattandosi poi di una voce piccola riesce a sopportare lo sforzo (per una voce pesante sarebbe molto più difficile). In ogni caso puoi sentire che l’intonazione sui do, come naturale, è pessima.
Sull’altro ho più dubbi, è un suono talmente contraffatto da effetti microfonici artificiali che pare ectoplasmatico, non ha nulla di naturale. Potrebbe essere quel verso da scimmia che, per darsi un tono, i poppettari chiamano “belting”, ma è roba al di fuori delle mie competenze e dei miei interessi. In ogni caso tutto ciò non ha niente a che vedere con l’Arte. Vade retro.
Di Beghelli è molto bello e illuminante anche lo scritto sul famigerato DO (di petto) della Pira.
ne aveva scritto celletti a suo tempo…..
Grazie per la segnalazione di questo saggio di Beghelli, davvero molto interessante e condivisibile. Mi sorprende che lo stesso autore abbia scritto un libro come il recente “Ermafrodite Armoniche”, che mi è sembrato sostenere tesi assai discutibili.
ehehehe!! 😀
……hehehe…..celletti ha scritto di tenori e do di petto, ma non di mezzosprani!!!!!
Link dello scritto di Beghelli: http://www.muspe.unibo.it/fileadmin/user_upload/news/Archivio_del_Canto/Beghelli_DO_di_petto_01.pdf
Capisco quello che vuoi dire! Mi permetto solo di fare le seguenti considerazioni premettendo che non essendo uno storico della vocalità non ho compiuto studi approfonditi sulla questione e come scrissi vorrei mantenere il beneficio del dubbio su quanto ipotizzo. I problemi con cui mi sono confrontato, almeno per quanto concerne l’attività di insegnate privato di tecnica vocale, sono di altra natura rispetto a quella filologico – erudita. Pertanto faccio tesoro dell’invito ad informarmi meglio leggendo lo scritto da te consigliatomi. E sarà pure un mito da sfatare il “do di petto”…! Mi permetto solo di fare le seguenti considerazioni per amore della discussione e senza avere la presunzione di dire verità indiscutibili.
Che il falsetto incolto fosse musicalmente inutilizzabile è ovvio, ma esiste anche un falsetto non incolto, appunto il “falsettone” o “falsetto rinforzato” o “registro misto”, chiamalo come vuoi. Esiste oppure no? Temo però che gli antichi, almeno leggendo i trattati del Tosi e del Mancini (ma dovrei andare a rileggerli con più attenzione) per falsetto alludessero proprio al falsetto incolto, altrimenti non si porrebbero il problema dell’unione dei due registri (petto e falsetto). Se c’è il problema allora vuol dire che c’è disunione: sicché come devo intendere questa disunione se non come differenza tra il suono femmineo, flebile e privo di armonici del falsetto incolto e la pienezza del registro di petto? Il problema appunto sta nel risultato del superamento della disunione: il settore acuto, di giurisdizione del falsetto, quanto acquista del vigore del registro di petto da non percepirlo più come altra cosa? Il falsettone appunto potrebbe essere un rinforzo del falsetto incolto al punto tale da confondere le idee, e questo nei tenori contraltini non è poi cosa tanto infrequente, ossia per ambiguità di colore non si riesce a distinguere bene se l’acuto, emesso morbido e facile, sia di petto. Sul fatto che non sia una cosa tanto fuori dal seminato esprimersi dicendo “acuti di petto” cito il Mancini il quale scrive: «Le voci ordinariamente [sia prima che dopo questo passo specifica che ciò vale per tutte le voci incolte in generale] si dividono in due registri, che chimansi, l’uno di petto, l’altro di testa, ossia falsetto. Ho detto ordinariamente, perché si dà anche qualche raro esempio, che qualcheduno riceve dalla natura il singolarissimo dono di poter eseguire tutto colla voce di petto». Tutto cosa? Tutta l’estensione con un solo registro, quindi anche il settore acuto. Fenomeno che ribadisce trattando del problema dell’unione dei due registri, risolvibile con lo studio, ove scrive: «La natura non è in tutti eguale, quindi è che la separazione di questi due registri trovasi in una persona minore, maggiore in un’altra; e rare volte addiviene, che sieno uniti ambidue i registri di petto in una sola persona». Qui addirittura usa il plurale “registri di petto” quasi volesse intendere i settori tonali medio-basso e alto. Si tratta di un “singolarissimo dono”, egli scrive, quindi di un fatto positivo, ché l’allievo in tal caso non è costretto a penare tanto per superare il dualismo tra i due registri, come chi questo dono non ce l’ha. Il che però non significa che queste voci non necessitassero di educazione, in quanto questi “acuti di petto” in una voce incolta non abbiano tutti i crismi del suono sul fiato. Magari necessitavano di essere alleggeriti, ammorbiditi, prodotti appunto in falsettone. Che la parola sia stata coniata in seguito non mi dice un gran che… Se il fine del superamento del dualismo in questione è l’ottenimento dell’omogeneità timbrica su tutta la tastiera vocale, allora il problema è capire fino a che grado si ricercava tale omogeneità per la voce tenorile. Se il grado desiderato era massimo già ai tempi del Mancini (e può anche essere, rimettendo però in discussione che l’avvento della sensibilità Romantica abbia determinato un qualche cambiamento nell’estetica dei suoni acuti) allora il “do di petto” del Duprez è un mito. Se invece non fosse così a quale alternativa dovremmo pensare…?
Per quanto concerne la Toti non ho mai considerato un fatto negativo che non parlasse dei registri, la sua visione della tecnica vocale si basava su pochi, semplici ed essenziali principi, come è giusto che sia, a petto del proliferare di innumerevoli metodologie di educazione vocale, a volte cervellotiche e di dubbia utilità, cui assistiamo negli ultimi anni. Mentre l’aneddoto del dito la mia maestra me lo ha raccontato più volte e non ho motivo di dubitare della verità del suo racconto. Pure io sono sempre rimasto perplesso sull’utilità di quel dito cacciato in gola: non è certo invitando l’allievo a mettere la voce da una parte piuttosto che da un’altra che quella ci va (ovvio!), sarebbe una grossolana manovra meccanicistica, controproducente perché creerebbe tensioni inutili e nocive… Ma sai, queste dive facevano teatro e non erano necessariamente grandi didatte, sicché, così mi diceva la mia maestra, o intuivi quello che la Toti voleva comunicare o lei stessa ti invitava a fare altro…Nonostante tutto dalla sua scuola sono uscite valide artiste. Mentre con “esercizi di diaframma muti” (mi sono espresso male) intendevo semplicemente i soliti esercizi respiratori per il rinforzo di tutta la muscolatura respiratoria fatti in sede separata rispetto al momento del vocalizzo. Mentre per quanto riguarda i vocalizzi a bocca chiusa la Toti li utilizzava per far conquistare o sistemare tutto il settore acuto e sovracuto nella voce femminile (per la voce maschile non posso garantire, penso di sì per i tenori, io non li utilizzo però moltissimo per le voci maschili, al contrario sistematicamente per le voci femminili…). Il suono a bocca chiusa la Toti lo chiamava “muito” e lo faceva fare con la bocca aperta (quindi dorso della lingua morbidamente appoggiato sul palato molle) e gli zigomi sollevati per i sopracuti. In questo modo li conquistò la mi maestra (che non li aveva per natura) così come la Gianna D’Angelo e la stessa Toti (che non si può dire avesse una voce estesissima per natura) sotto la guida della Marchisio la quale la faceva “diventare matta per i sopracuti”… così confidava alle sue allieve. Spero di aver soddisfatto la tua curiosità, caro Gianbattista. Ringraziandoti per lo stimolante e per me costruttivo confronto ti saluto. Spero inoltre che questa amabile discussione venga letta e possa essere di aiuto, anche se infinitesimale, per la tanto auspicata rinascita del belcanto, che, stando a quello che voi grisiani scrivete in questo sito, tarda a venire…
P.S. Mi aspettavo una risposta, magari anche negativa, sull’invito che vi rivolgo a scrive un articolo sulla D’Angelo.
Scusa, ma… non ho capito… erano suoni a bocca chiusa o a bocca aperta? Peraltro non mi pare possibile fare i sopracuti senza aprire la bocca.
Naturalmente erano a bocca aperta…anzi splancata con gli zigomi alzati (ti invito a vedere i video della D’angelo e a osservare l’apertura della bocca negli acuti), ma se il dorso della lingua appoggia sul palato molle il suono è comunque “muto” pur mantendo la bocca aperta…(non so se mi spiego…). Se un’allieva ha difficoltà nel settore acuto e sovracuto (ma anche se non ce l’ha) è l’unico modo perché possa esercitare quei suoni senza massacrare le corde vocali. Poi col tempo e l’esercizio ti viene quasi spontaneamente di abbassare il dorso della lingua e “spiegare” il suono, che magari inizialmente torna indietro, ma pian piano rimae “su” alto, senza che, espressione della Toti, “il fiato si appiccichi al mento”…
Beh, se la bocca è aperta allora… non sono vocalizzi a bocca chiusa. 😀
Peraltro, ripeto, sarebbe impossibile fare i sopracuti senza aprire, anzi spalancare come ben dici, la bocca.
Il saggio te l’ho spedito per posta elettronica, prova a guardare.
Scusa…potresi darmi indicazioni più precise su come reperie lo studio di Beghelli? Grazie
Ricevuto
Grazie millle! Hai ragione: erroneamente avevo scritto “suono a bocca chiusa”. Comunque ora ci siamo intesi…! Grazie di nuovo.
Saluti
Leggo con estremo interesse tutta la discussione e noto come anni e anni (si potrebbe dire anche un secolo) di didattica vocale stampata abbiano non poco mischiato le carte.
Sono d’accordo con te, Emiliano, che la foniatria possa essere un supporto (quindi un complemento) allo studio del canto ma questo parte imprescindibilmente dalla pratica e dalle “immagini” come dici tu: un cantante o studente pensa ad una immagine di suono, non di certo a come le corde si adducono e come il palato molle si muove!
In una intervista reperibile sul Tubo, La Sutherland e la Horne discorrevano di questo e la Horne sottolineava l’importanza della “memoria muscolare” e la cara Sutherland, con il suo splendido British humour, sottolineava che a lei interessava cantare e sentire il suono piuttosto che pensare a laringe, glottide, palato.
Relativamente ai registri, in accordo con Mancini del Corriere, penso esistano il “registro di petto”, “registro di falsetto” e “registro di testa” in pieno accordo con il Garcia. Trovo molto interessante quel che dici relativamente al fatto che gli autori come Tosi e Mancini (quello vero stavolta!) non avendo perizia anatomica definissero i registri come risonanze e che ai dati di fatto sono solo dei cambi meccanici della vibrazione delle corde e della posizione della laringe e al massimo consonanze che prediligono certi risuonatori ma alla fine, tutti i risuonatori vengono coinvolti in tutti i registri.
Differentemente dal Mancini del Corriere, credo come te che i registri si possano unire, e per le voci maschili il registro di petto e quello di falsetto è assolutamente da unire in passaggio (cosa che peraltro diceva e consigliava vivamente il Garcia dicendo che “il falsetto unitoal registro di petto rappresenta per i tenori […] una risorsa felice e naturale). Questo da luogo a questo “registro misto” la cui massima espressione è rappresentata dalle messe di voce sul passaggio ossia sul mi3-fa3-fa#3, quando attaccando in mezzavoce, ossia in falsetto, piano piano si mischia il registro di petto col falsetto per poi aprire dare appunto un suono che più si sale, più è “mischiato”. Questa chiaramente la mia personale, confutabile e non incrollabile opinione 😀
ma anch’io penso si possano, anzi si debbano unire! e penso che sia sempre stato fatto, prima e dopo di Duprez!
Caro Sardus Orpheus, relativamente all’uso delle immagini e al ruolo della foniatria nel contesto della didattica vocale farei le seguenti considerazioni. Così tanto per approfondire…
Se, da un lato, concederei ai cultori della foniatria intelligenti l’avvedutezza di non nutrire l’illusione di controllare la muscolatura direttamente sulla base delle conoscenze anatomico-funzionali, dall’altro lato, nutro notevoli perplessità sull’utilità pratica di queste conoscenze anche se interpretate nei termini che seguono.
“Idealisticamente” mi verrebbe da pensare che la comprensione foniatricistica dell’atto vocale è reale nella misura in cui è un contenuto di pensiero. Il sapere elaborato dalla scienza foniatrica è una costruzione mentale al pari di ogni teoria scientifica. Pertanto, per fare un esempio, l’intellezione del comportamento delle corde vocali in riferimento al fenomeno dei registri, nell’atto del suo “pensamento” si accompagna inevitabilmente ad un’immagine mentale. Questa non va confusa con il concetto, ossia con il puro e semplice universale, di cui appunto si intellige il significato, equivoco in cui cadde l’empirista Hume. Orbene, dal punto di vista della didattica vocale possiamo chiederci: queste immagini mentali risultano più o meno funzionali di quelle della didattica tradizionale (entrambe sullo stesso piano in quanto semplici contenuti mentali) per indurre indirettamente gli aggiustamento desiderati nell’apparato fonetico? Io ho qualche perplessità che lo siano di più… Anzi forse sono quasi controproducenti in quanto estremamente settoriali e la focalizzazione dell’attenzione su una precisa parte del corpo piuttosto che su di un’altra, “immaginando” come questa funzioni, fa perdere il senso olistico del gesto vocale, ben evocato invece dalle fumose e fantasiose immagini tradizionali. La fonazione, sebbene analizzata dalla prospettiva scientifica risulti una funzione estremamente complessa, nell’esperienza dev’essere la cosa più semplice e spontanea che si possa immaginare. E così dev’essere anche per il processo di apprendimento della tecnica vocale. La comprensione di questo sublime fenomeno è più intuitiva che analitica, necessita quasi di un approccio più mistico e che intellettualistico. Il pensiero va messo quasi da parte e lasciare che il corpo e l’anima parlino da sé… Forse questo, a mio sommesso parere, significa fare arte!
Nel mondo odierno della didattica bisogna semplificare, semplificare, semplificare …! L’approccio analitico della scienza ha certo una sua ragion d’essere nello studio del fenomeno vocale ed espandere la coscienza di un allievo anche in quella direzione, se intelligente, non guasta, ma non è strettamente necessario se al primo posto vengono posti i risultati concreti. Questi si ottengono pensando la fonazione sulla base di pochi e basilari principi…quelli della tradizione belcantistica classica italiana. Un buon maestro così come un buon allievo, perché il loro incontro si riveli fecondo, devono entrambi disporre di fantasia, intuito vocale, capacità introspettiva ed empatica, orecchio clinico, passione per la musica…! Poi tutto il resto, ossia la cultura, la curiosità, la passione per la ricerca e la lettura è un di più, che se c’è ben venga, è segno di intelligenza e non mette a rischio di fraintende le conoscenze scientifiche di cui disponiamo, ma non necessario per impostare correttamente una voce…
Un caro saluto a tutti
Non posso che essere d’accordo: avendo le conoscenze anatomiche sarà veramente raro che una persona si costruisca un tecnica pensando e.g. ora adduco di più le corde, ora abbasso la cartilagine crico-aritnoidea, ora contraggo il muscolo crico-tiroideo… E’ impossibile! Peraltro, vorrei ricordare che Garcia padre faceva ripetere certe frasi tante e tante volte ai propri figli nell’ottica di trovare un certo colore ossia una certa esperienza sonora! Quindi concordo pienamente ed io personalmente credo nel canto come in una arte artigianale di grande studio ed esercizio (nei limiti della resistenza umana ovviamente! Massimo 30 minuti di studio alla volta per 4 volte al giorno come consigliava la buona Pauline Viardot!).
La Sutherland riassumeva così la tecnica in una sua intervista:
– respirare, appoggiare, proiettare;
– pensare alla gioia e alla felicità quando si emette (non quindi un sorriso ebete ma una gioia interna!);
– pensare di proiettare il suono sul palato duro;
Questi i precetti di Joan 😀
Se posso, da studente quale mi ritengo, io mi immagino la voce come un fiume dorato che che entra dentro un foro e ne esce propagandosi come un’onda (è più semplice pensarlo che non spiegarlo XD ). Un’immagine che per me funziona e mi da un certo benessere sonoro e mi consente di proiettare bene, a quanto voci esterne mi dicono!
Caro Sardus Orpheus, grazie per il contributo, vorrei soltanto farti notare che mi pare che la mezzavoce ed il falsetto non siano la stessa cosa, poiche’ non comportano lo stesso interessamento delle corde vocali.
Correggo la frase:
“Questo da luogo a questo “registro misto” la cui massima espressione è rappresentata dalle messe di voce sul passaggio ossia sul mi3-fa3-fa#3, quando attaccando in PIANO, ossia in falsetto, piano piano si mischia il registro di petto col falsetto per poi aprire dare appunto un suono che più cresce, più è “mischiato” “.
Per me la mezzavoce è leggermente più forte del piano, quando il registro di falsetto (inteso come registro vocale del Garcia) si mischia con il registro di petto.
Se hai qualche testimonianza di cantanti in merito, pubblicala pure 😀
Ovviamente registro di falsetto poggiato e avanti, non senza apoggio che è più simile alla voce flebile del falsetto modernamente inteso!