Siegfried-Melchior-List-Bodanzky-37
Dopo sette anni di pausa, Wagner decise di andare a trovare il suo Siegfried lasciato a riposare e riflettere sotto al tiglio nella foresta di Neidhole, dimora del gigante/drago Fafner.
In quel settembre del 1864 Wagner era sopravvissuto al disastroso fiasco parigino del “Tannhauser” e stava per mettere in scena il “Tristan”; doveva ancora meditare, assimilare, ripensare ai temi ed al suo adorato Siegfried, solo e osservatore attivo della natura.
Riprese a comporre partendo dalla Natura appunto, da quella foresta che dialoga con il suo eroe, il quale cerca in essa le risposte alle sue infantili indagini.
La vibrazione degli archi che preme sul Mi Maggiore apre il monologo di Siegfried “Dass der mein Vater nicht ist, Che costui non sia mio padre, come me ne sento lieto!” e annuncia il tema del Mormorio della foresta, quel fruscio liquido che in piano e pianissimo e mutando di tonalità imita una natura formicolante e silenziosa, fatta di esseri invisibili o fiabeschi, ma vivacissimi e colti nel loro movimento.
Mentre discaccia il pensiero innaturale di essere progenie del grottesco nibelungo Mime, ovviamente accompagnato dal Tema dei Nibelunghi, per contrasto, ascoltiamo, fuso con il mormorio, il Tema dei Walsidi, ovvero Siegmund e Sieglinde, sulle parole “Aber – wie sah meine Mutter wohl aus?, Ma – come mai sarà stato l’aspetto di mia madre?”, un riflesso affettuoso, rallentato, tenerissimo di quello ascoltato nella giornata precedente al quale si associa, nel tentativo di descrivere il volto materno il tema del Desiderio d’amore; rappresenta il tentativo di Siegfried di voler provare il legame sconosciuto e inesperto con la propria madre, che egli descrive bella come una cerbiatta risvegliando nell’orchestra il Tema della Natura incrociato con quello languidissimo di Freia.
I legni evocano allora il canto degli uccelli della selva, interrompendo i pensieri di Siegfried ed iniziando a coinvolgerlo in un dialogo giocoso e ingenuo: pare che Wagner arrivasse a questo effetto così ricco di atmosfera solo dopo lo studio dal vivo del cinguettio che si sente nei boschi.
Dopo il simpatico episodio dello zufolo stonato che imita il canto dell’uccello del bosco, Siegfried impugna il suo corno d’argento suonando in fortissimo il Tema di Siegfried, il Tema del Custode della spada, mentre la tua bassa e contrabbassa ci avvertono che Fafner è stato svegliato evocando il contorto Tema del Drago.
Lo scontro tra l’eroe ed il drago è una lotta, oltre che visiva, puramente musicale: se Fafner combatte opponendo il proprio tema distorto e con un suono sempre più rinforzato dai timpani, Siegfried ribatte con maggiore fantasia attraverso il proprio Tema e quello del Custode della Spada che incalzano attraverso gli ottoni e gli archi prendendo il sopravvento, incalzando sul nemico e decretandone la disfatta sottolineata dal motivo dell’Annientamento.
Tutto il dialogo successivo sarà l’angoscioso accavallarsi di questi temi, arricchiti dal riverbero della Maledizione, di Notung, dei Giganti ed infine sui temi di Siegfried resi però in chiave negativa, quasi gemella del tema di Fafner.
Il canto di Siegfried in questa scena insiste tra le note Do e Sol, premendo spesso nel registro centrale; se l’inizio del suo monologo ed il duetto con il gigante hanno una struttura ritmata e declamatoria, tutto il resto si attesta su un cantabile cordiale e delicato che prevede ampie frasi legate sposarsi con i fraseggi orchestrali, ed una densità di suono che sappia alternare i volumi sonori, forcelle che amplifichino o rallentino certi effetti della natura, pianissimi e fortissimi che sappiano differenziare i temi e gli episodi più spianati con quelli più attivi.
Troviamo Max Lorenz a Bayreuth nel 1936 diretto dal direttore e regista Hans Tietjen: impressiona questo canto robusto, virile, dotato di timbro gagliardo, eppure mansueto alla sensibilità dell’interprete.
Lorenz, intelligentemente, trae la forza espressiva dai segni che Wagner ha lasciato in orchestra, aggiungendo un buon uso del legato e dei piani, intensi e flautati; aggiungiamo anche una dizione nitida che rende perfettamente calibrato il cantabile e la declamazione. E’ un giovane Siegmund che canta alla natura come se si trattasse di Sieglinde, con tutta la leggiadria malinconica del padre, ma con la leggerezza del figlio. Tietjen lo accompagna assecondandolo anche nell’interpretazione, eppure risulta forse troppo serioso, nonostante l’indubbia poesia di fondo. Manca purtroppo la scena con Fafner.
L’anno successivo, al Met, andò in scena un “Siegfried” che univa Lauritz Melchior ed il Fafner di Emmanuel List sostenuti dalla Bacchetta di Arthur Bodanszky.
Melchior è un classico: voce dal colore bruno e marziale; emissione marmorea per solidità, ma capace di piegarsi e sfumarsi con facilità; non arriva alla complessità di Lorenz, e condivide solo parzialmente la bellezza timbrica del collega; eppure Melchior riesce meglio nel delineare la natura ardente e spontanea di Siegfried: basti ascoltare i suoni legati, leggeri, a fior di labbro che caratterizzano la descrizione della madre, oppure lo squillo, leggermente vibrato, dei Fa e dei Sol. Nitida anche la dizione che gli permette di dare un tocco di spensieratezza al fraseggio.
Emmanuel List interpreta un Fafner di glaciale protervia, dal timbro scuro e screziato, eppure accorato nel duetto che precede la morte, emesso benissimo ed a suo agio nella declamazione,.
Bodanzky ha due problemi: l’orchestra mediocre, pochissimo duttile che volentieri cala di intonazione ed un gesto un po’ pesante e sbrigativo; ma professionale nonostante tutto per la musicalità ed il sostegno delle voci.
Cosa dire di Wolfgang Windgassen? Il modello di riferimento è chiaramente Lorenz con il quale condivide la bellezza timbrica, solo di colore più chiaro, la scansione della parola, il gusto mai sopra le righe o effettistico, la forza dell’emissione e dell’intonazione entrambe sorvegliatissime.
Probabilmente è il Siegfried più intimamente struggente del ‘900, tale è l’impressione che si ha ascoltandolo all’unisono con il mormorio della foresta disegnato nell’orchestra, in cui per un attimo l’eroe non è più un ragazzino insostenibile, ma una creatura che scopre per la prima volta la solitudine e la mancanza di legami, che desidera ciò che non conosce con semplicità e commozione.
Nero e profondissimo l’abisso vocale di Kurt Boehme, un Fafner rozzo negli accenti.
Solti risponde a tale interpretazione coccolando il suo protagonista con la morbida, dorata perfezione del fraseggio orchestrale, esaltando l’evocazione di una natura benevola, solo sfiorata dalla marcia dei giganti in cui si trasforma l’episodio di Fafner.
Il Siegfried di Jess Thomas pecca nell’emissione ingolata e non compatta nell’intonazione; però il timbro è gradevole, leggermente baritonale, l’interprete insiste, forse anche troppo, sul languore e sulla malinconia.
Un po’ troppo a senso unico a parer mio e senza quella complessità ascoltata altrove; si sente che l’idea è certamente di creare un Siegfried meno capriccioso, eppure l’operazione convince per metà.
Il timbro accattivante di Karl Ridderbusch, uniti all’ottima emissione, ad un controllo del fiato ammirevole e ad un fraseggio volitivo e rabbioso, permettono al basso di imporsi sul collega e di delineare una scena di morte inedita, poiché intonata a mezza voce.
Il clima preteso da Herbert von Karajan è certamente fiabesco, ricchissimo di riflessi, teso ai preziosismi sonori che raccolgono il suono per sussurrarlo; eppure questo clima non impedisce al direttore di sfruttare l’atmosfera ombratile della foresta, come se fosse una minaccia dormiente al pari di Fafner.
Marianne Brandt
Frau Brandt, grazie per gli ascolti: Solti e Karajan già li conscevo, gli altri no. Splendido in particolare quello della coppia Melchior-List. Complimenti anche per non essere caduta nel turpiloquio ed essersi limitata a definire “mediocre” l’orchestra del MET…