Nel caldo d’estate che è finalmente arrivato a Berlino la Philharmonie ha ospitato due recite in forma di concerto dell’Attila verdiano. Sul podio l’esperto Pinchas Steinberg con coro ed orchestra della Deutsche Oper. Quest’Attila doveva segnare il debutto nel title role della star di plastica Erwin Schrott il quale, come prevedibile, ha rinunciato al suo impegno “a causa di una malattia” ed è stato sostituito dall’italiano Roberto Tagliavini.
I rallentamenti ed un generale appesantimento della retorica abbastanza semplice e franca del bellissimo preludio è stato un primo segno che la direzione di Steinberg avrebbe sofferto di parecchi problemi. In effetti, mentre il maestro è stato capace di mantenere alta la tensione con tempi efficaci in un’opera che drammaturgicamente non è dei più coerenti dei lavori verdiani, l’aggressività ed il volume esagerati dell’orchestra hanno obbligato i cantanti a spingere (ancora di più) nei loro ruoli le quali scrittura tocca a tratti il livello del massacrante, quasi barbarico. (E’ di fronte di una tale scrittura vocale, forse una delle più rozze del Verdi “di galera”, che sembrano assolutamente ridicole le valutazioni della critica tedesca di quest’opera e dell’esecuzione in questione quale trionfo del belcanto, il “belcanto” nelle Oltralpe essendo confuso con qualsiasi melodia a sapore mediterraneo in cui si canta senza trasmettere messaggi filosoficamente codificati.)
Se di fronte a tale massa sonora orchestrale e corale gli altri solisti principali reggono le loro parti con più o meno grande resistenza fisica, per il tenore Massimo Giordano il ruolo di Foresto rappresenta una difficoltà soccombente sin dal prologo. Già verso la fine di “Ella in poter del barbaro” la voce si rifugia o nel naso o va “indietro” (a seconda delle caratteristiche di ogni vocale) quando la scrittura si avvicina del registro acuto. Per il resto la voce sfoggia un tremolo sistematico e pare parecchio ridotto per volume e soprattutto per bellezza timbrico dopo un Don Carlo del 2009 in cui abbiamo avuto l’occasione di ascoltarlo. Spesso viene completamente sommerso dall’orchestra e per compensare l’assenza della potenza sonora ricorre ad un fraseggio sentimentalizzato. Malgrado la debolezza della prestazione dovuta sia all’inadeguatezza del suo strumento lirico alla pesantezza del ruolo che per la preparazione difettosa, il pubblico berlinese, contento di avere ottenuto la sua porzione quotidiana dello stereotipo “italienischer Tenor”, lo saluta con entusiasmo.
Dalibor Jenis nei panni di Ezio dimostra un’emissione rozza, un timbro grigio ed un accento che confonde il maestoso con l’abbaiato. La mezza voce ed il sotto voce invece sono confusi con un rantolare in gola. Rauco in basso, diventa più sonoro in zona centrale e dopo degli acuti abbastanza “indietro” diventa finalmente capace di emettere isolatamente un Si bem acuto molto facile per cui si pone anche la domanda se non è l’appesantimento e l’ingrossamento della voce in tutte le zone più frequentate che appesantisce, abbassa ed altera anche il vero baricentro della voce e fa passare per un baritono un tenore che in fondo non sa cantare.
Ottiene applausi fragorosi anche Lyudmila Monastyrska. Entra in scena, canta ed esce con disinvoltura. Si compiace nel dimostrare l’ampiezza del suo strumento in zona centro-acuta, mentre gli acuti estremi risultano sempre un poco sbiancati. Nel secondo e terzo atto l’abuso del canto perennemente forte si vendica e si avvicina sempre più dell’urlo. Nel medio-grave è opaca come prima, con la differenza che più si avvicina del passaggio inferiore più la voce diventa rauca. Nelle scale a eseguire con coloratura di forza la voce in questa zona si spezza cosi che le note del passaggio spariscano del tutto dalla gamma. Nella seconda aria tenta di cantare dolcemente, invece sfalsetta (anche se il falsetto risulta abbastanza sonoro) e gli attacchi diventano fissi. Resta comunque l’unica a rimanere udibile nel fragore che crea Steinberg negli ensembles.
Il merito di Roberto Tagliavini, apprezzatissimo dal pubblico, consiste forse piuttosto nel fatto di avere “salvato” le recite coll’aver sostituito una star che non esiste. Trionfare al posto e fare meglio di una star di cui gli eventi ed i trionfi esistono solo sulla carta è cosa facile. Anche se Tagliavini possiede una voce abbastanza ampia in zona centrale e centro-acuta, l’emissione sistematicamente ingolata non gli consente di espandersi completamente in sala. I gravi sono piuttosto vuoti e gli acuti, stretti, in conseguenza alla bassezza dell’emissione.
Ovazioni dopo molte scene e 12 minuti di applausi alla fine del concerto in una sala quasi piena per un Verdi minore. Pubblico contento e convinto di avere sentito delle “voci” ed un autentico melodramma italiano in cui “si canta” invece di immergersi in riflessioni teologiche e sociologiche. Si applaude il fatto che l’acuto sia fatto e che il cantante ce l’abbia fatta ad arrivare fino alla fine della recita, invece di sentire come l’acuto sia fatto e quale sia il vero valore espressivo della frase eseguita. Quando non si applaude “l’espressività” e il “concetto” di un cantante wagneriano che si trovano sempre oltre i confini della vocalità, sempre in qualche mondo ambiguo e disincarnato, si applaude il surrogato, malamente incarnato, della “voce verdiana”.
Interessante il soprano Mancini! (mi chiedo se piace al Mancini di questo sito!)
A Trieste domenica ho ascoltato una Anna Markarova, nel ruolo di Odabella, abbastanza piacevole finché i suoni non giungevano all’acuto o al grave, dove falliva più o meno sempre…