Al calar del sipario: Maria Stuarda al Maggio fiorentino.

Cala il sipario sull’attuale edizione del Maggio musicale, edizione che potrebbe, se le indiscrezioni che circolano non si riveleranno del tutte infondate, essere l’ultima per la prestigiosa manifestazione, avviata a un drastico ridimensionamento.

Maria Stuarda torna a Firenze a quarantasei anni di distanza dall’unica rappresentazione nella storia del Maggio, che nel 1967 vide fronteggiarsi Leyla Gencer e Shirley Verrett nel leggendario spettacolo di Giorgio de Lullo, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi, sul podio Francesco Molinari Pradelli, spettacolo che doveva rivelarsi una delle tappe fondamentali della Donizetti Renaissance. E davanti al coraggioso ripescaggio di un titolo di fatto dimenticato da un secolo abbondante alcuni grandissimi critici, quali Massimo Mila e Franco Abbiati, osservarono, pur lodando l’iniziativa, che il titolo non meritava siffatte cure, essendo costituito, con la sola eccezione dell’articolato finale, da musica tutto sommato dimenticabile.
Chissà che cosa avrebbero scritto le medesime penne se avessero potuto assistere alle due recite in forma di concerto proposte nei giorni scorsi dallo smantellando Comunale fiorentino. Per quanto eloquenti, le loro considerazioni non avrebbero potuto superare in brevità e incisività la chiosa del pubblico alla proposta della direzione artistica (anch’essa smantellanda) di corso Italia, atteso che, a quindici minuti dall’inizio della matinée domenicale, la sala si presentava così come si può vedere in foto. Quando le luci si sono spente la platea era piena per due terzi nel primo settore, per metà nel secondo, semivuota era la prima galleria e piena, ma ben lungi dal tutto esaurito, la seconda. Attesi i prezzi, inferiori a quelli delle opere proposte in forma scenica durante la stagione invernale (a loro volta tipicamente più bassi di quelli applicati agli spettacoli del Maggio), non crediamo si possa individuare nella pur diffusa crisi economica la sola, e neppure la principale, ragione dello scarso sbigliettamento. E si dava, appunto, la Stuarda, che è oggi, anche grazie allo storico spettacolo fiorentino sopra richiamato, un titolo di repertorio.
Stuarda è una delle opere che Mariella Devia ha più spesso affrontato nell’ultimo decennio, sia nei cosiddetti grandi teatri sia sui palcoscenici della provincia italiana, anzi è forse la più frequente del suo repertorio attuale (lascio ovviamente ai biografi della signora la gioia di smentirmi). Perché una proposta di un titolo tanto frequente avesse senso, e richiamo commerciale, nell’ambito di una manifestazione come il Maggio, sarebbero occorsi due elementi fondamentali: la presenza di una grande bacchetta e una seconda donna, come si diceva una volta, di cartello. Sul podio avevamo, invece, Alain Guingal, per il quale anche la taccia di battisolfa sarebbe un complimento immeritato, atteso che più che la solfa ha battuto la grancassa, coordinando con piglio sicuro, ma anche inesistente senso del dramma e totale indifferenza alle esigenze dei cantanti (protagonista esclusa, et pour cause), un’orchestra del Maggio dalla tenuta professionale e nulla più e un coro che, nella chiusa dell’intervento che introduce la grandiosa scena finale, si è guadagnato il convinto plauso del pubblico e ha in buona parte riscattato la prova non impeccabile offerta nel primo atto, segnatamente nel coro che introduce la sortita di Elisabetta. La quale Elisabetta era Laura Polverelli, ufficialmente mezzosoprano, in realtà soprano corto, ingolato e, quindi, di voce larvale, che ha letteralmente massacrato la parte della sussiegosa regina d’Inghilterra, farfugliando le agilità, ignorando che cosa sia il legato, emettendo autentiche grida al di sopra del fa acuto. In luogo di una sovrana impetuosa e proterva nel suo sarcasmo abbiamo avuto diritto a una creatura ordinaria e scomposta, parodia del grandioso personaggio evocato dalla partitura e da tante sue interpreti, non necessariamente dotate di voce naturaliter bella e ampia.
Con queste premesse alla Devia non restava che tentare di brillare di luce propria. Il che è avvenuto limitatamente ad alcuni momenti del finale, in particolare la preghiera “Deh tu d’un’umile preghiera il suono” e soprattutto “D’un cor che muore”, cantabili spianati resi (complici i tempi piuttosto mossi staccati da Guingal) con fiati di congrua lunghezza e sufficiente espansione vocale, specie quando le numerose, e non sempre musicalmente consone, puntature permettevano alla cantante di stanziarsi in zona centro-acuta (pur funestata da occasionali suoni fissi). La parte, come è noto, è piuttosto bassa di tessitura, il che si è avvertito soprattutto all’entrata (anche se, rispetto alla Norma bolognese, sono stati evitati affondi di dubbio gusto in prima ottava, optando piuttosto per suoni un poco opachi e ovattati). Le fioriture della cabaletta erano, poi, lungi dal possedere la fluidità e il mordente che sarebbero stati necessari. Molto parsimonioso e, si ha l’impressione, svogliatamente amministrato anche il gioco dei colori, con severi limiti all’espressività soprattutto al duetto della confessione, forse il punto musicalmente e drammaticamente più alto della partitura, ma anche allo scontro con Elisabetta e al duetto con Leicester. Conscia (ben più di buona parte del suo pubblico) delle attenuate possibilità di uno strumento vocale, che neppure in altre fasi della carriera si è distinto per soverchio fascino timbrico, la cantante gioca in difesa, reggendo fino alla fine, privando, però, al tempo stesso il personaggio di quelle suggestioni passionali e melanconiche che ne costituiscono buona parte del fascino. E non è certo un re sovracuto, maldestramente emesso in chiusa dell’opera, quello che può compensare un’omissione del genere. Malgrado il trionfo, anzi, la santificazione in vita della cantante, sono ben altri e profondamente diversi i ruoli in cui Mariella Devia ha realizzato qualcosa di veramente valido, per certi aspetti anche in senso assoluto, nel corso della sua carriera, e ve ne offriamo un piccolo saggio, tra i molti possibili, in chiusa a queste note.
I ruoli di secondo piano giocano, in un’opera così fortemente basata sullo scontro di due grandi personaggi, una parte se possibile ancor più limitata rispetto all’ordinario. Di buona voce, seppure brada, l’Anna di Diana Mian, mentre microbico, benché sforzato, risulta Vittorio Prato come Cecil. Più sonora, solo per virtù naturale, non certo per sapienza tecnica, la voce di Gianluca Buratto, greve nell’emissione e bolso nell’accento, davvero un modesto partner per il già menzionato grandioso duetto che apre il finale dell’opera. In una parte che Giorgio Gualerzi, nel programma di sala, liquida come ben poco ardua, salvo notarne subito dopo l’insistenza nella zona del sol acuto (come dire, quella che immediatamente segue il secondo passaggio di registro, ossia quella in cui i tenori privi di tecnica hanno la tendenza ad andare di strozza, uggiolare e belare alternativamente), Shalva Mukeria si conferma l’unico tenore attualmente in carriera in grado di affrontare i pallidi eroi del melodramma donizettiano e belliniano con voce non potente, ma sempre sonora, specie in acuto, capacità di smorzare i suoni senza che questi perdano la necessaria saldezza, buona tenuta di fiato, accento castigato ma non per questo poco rifinito (anzi), convincente tanto negli ampi cantabili di sapore patetico (duetto con Maria, tempo centrale del terzetto) quanto nell’irruenza delle cabalette (duetto con Talbo) e del finale dell’opera, senza che in nessun momento l’espressione confligga con l’eleganza o ne mortifichi le esigenze. Una prova che non basta a riscattare l’esito di un’esecuzione, nel complesso, fatalmente claudicante, ma che potrebbe offrire utili indicazioni a chi volesse programmare in Firenze, per il futuro, nuove escursioni nel repertorio del primo Ottocento. Augurandoci che vi sia ancora un teatro capace, in ogni senso, di accoglierle.

 

Delibes – Lakmé

Atto II

Ah! C’est de ta douleur…Où va la jeune IndoueMariella Devia (1985)

Donizetti – Maria Stuarda

Atto I

Se fida tantoShalva Mukeria e Gianluca Buratto (2013)

Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube

45 pensieri su “Al calar del sipario: Maria Stuarda al Maggio fiorentino.

  1. Veramente Mariella Devia ha concluso con un Mi bemolle e ha fatto il Re nel duetto col basso. Lo dico a orecchio per cui potrei sbagliarmi, controllerò col pianoforte e semmai farò ammenda. La sala si é riempita per due terzi ma la Devia si é data come se in sala non ci stesse più uno spillo. Stimolato dalla Grisi ho controllato l’edizione scaligera 2008 e confermo che é stata migliore questa. Tu Tamburini che sai tutto, avrai notato che i sopracuti erano migliori che nella Bolena e l’ho trovata meno algida del solito (mi viene il dubbio che studiare integralmente Norma le abbia fatto molto bene oppure era semplicemente in gran pomeriggio). Su Guingal non sono d’accordo. Lo trovo direttore aduso a collaborare con grandi artisti e ha fatto sembrare la Stuarda più bella e meno discontinua di quello che é. Migliore sicuramente del pallido direttore cicciottello di cui adesso mi sfugge il nome che diresse alla Scala (oh amnesia totale non mi é ancora venuto in mente…). Migliore anche Mukeria, anzi veramente bravo, forse la migliore prova fino ad oggi (la forma di concerto poi lo rende meno impacciato e nel frac nemmeno sfigurava). A Meli si vuole bene ma i suoi acuti così acquosi/sierosi che dovrebbero ricordare anche a chi mangia Panini con in mezzo la bistecca, le salse slegate o i risotti mal mantecati. La Polverelli effettivamente era l’anello debole della catena ma ha avuto il merito di farsi ancella della diva (anche il basso ha regalato due o tre suoni molto sfocati ma non era malvagio). Tuttavia meglio lei della Antonacci che, ad onta del suo cotè, rovinò una parte che già di per sé contribuisce a creare momenti di stanca nell’opera donizettiana. I complessi del Maggio mi stanno sulle scatole (per gli scioperi) però sono stati ancora una volta eccellenti. Successo al calor bianco per Mariella Devia, un po’ sottovalutato il tenore.-

  2. l’Olivia Stapp era una buonissima cantante ma, se mi consenti la metafora, dalle mutande in su, sotto era completamente depilata. A parte gli scherzi io l’ascoltai in Turandot alla Scala nel Macbeth a Venice e anche in qualcos’altro. Era comunque un succedaneo di drammatico e non aveva una fluidità non dico da fuoriclasse ma almeno da essere presa come esempio nel repertorio d’agilità. Volevo dirti che la registrazione postata é terribile. Il microfono sblatera molto e tra orchestra e voce non c’é spazialità. Eri in prima galleria? Se vuoi te ne metto a disposizione in privato un’altra dove il Mi bemolle (o Re) finale (Donzelli potrebbe toglierci la curiosità) risulta tutt’altro che duro e fisso e si stacca anche bene dal colpo di grancassa che Guingal (che non é carente di ormoni) evidenzia assai.-

    • Grazie ma non capisco a quale registrazione tu faccia riferimento, visto che tra gli ascolti non compare il finale, non ancora disponibile su Youtube. Tanto per essere chiaro, non sono io l’autore di quella registrazione: sarà stato verosimilmente qualche fan, persuaso di rendere un buon servizio alla cantante diffondendo in rete l’audio della recita di giovedì. Non sono convinto che sia così. Già che ci sono ribadisco l’invito ad ascoltare l’aria della Lakmé di Rouen, davvero impressionante per qualità di vocalizzazione e facilità in acuto.

    • ma noi pubblichiamo anche cose imperfette o scarse o oscene anche. Gli ascolti vogliono stimolare ascolti, discussioni, confronti etc……non tutti significano che il passato era meglio o perfetto. Nel caso della stapp si voleva far sentire l’audio del brano integrale, come non è stato eseguito a firenze, da una protagonista così così ma cmq meglio della serjan……

  3. serjan e stapp pari nella Lady. Almeno quella d Salzburg. Circa la Devia e’ splendida vocalmente pero’ interpretativamente s puo’ fare d piu’ anche cantando peggio. Due che la superano nell aria della Lakme’ le conosciamo no?

    • mariella devia in lakme è perfetta. Punto. Di valore assoluto, come la sutherland. E la voce è adeguata, lo stile, la dolcezza dell’emissione, il tipo di agilità, che è il suo. Preferire vuol dire fare l’arca di Noè, uno per tutti? Preferire vuol dire scegliere le piu grandi esecuzioni, e qui la devia sta col la sutherland, cantando con un ‘altra voce. Stop.non so poi di quale interpretazione tu parli…….meglio una lakme che 1000 norme bolenuzze sturde e pirati, dove, li si, non puo competere con callas e sutherland…..

    • A parte il fatto che la Callas, diversamente da Sutherland e Devia, ha cantato solo questa aria e mai cantando l’opera completa: Callas che in sovracuto usa falsetto? Questa è proprio una bomba.

      Nonna Giulia, secondo me potresti aprire la rubrica: “Le Bombe di Alberto” :) così una volta al giorno ci mettiamo un po’ a ridere ahahahaahahahahah

      Per inciso, alberto: un noto critico italiano (di cui ora non ricordo il nome) disse sentendo la Callas che non aveva sentito acuti così potenti dai tempi della Raisa.

  4. Nulla di nuovo…la solita Stuarda della Devia con i suoi pregi e i suoi difetti…Sicuramente meglio qui che in strani esperimenti tipo Norma. Vorrei vederla ributtarsi in Rossini o Mozart. Potrebbe ancora riservare delle ottime performances.

  5. ma se leggi bene Sardus mi pare implicito che non considero falsetti quelli della Callas e la mia considerazione era rivolta a chi attribuisce con molta disinvoltura a certe cantanti di sesso femminile l’uso del falsetto (vedi per es. la questione del Re bemolle della Serjan…che se fosse stato in falsetto non so come avrebbe potuto spezzarsi quando l’ha sentita la Brandt).-
    Poi se dai per scontato che sostengo sempre il contrario di quello che sostieni tu anche quando dico le stesse cose, se non é scarsa attenzione é forse una questione di origine nervosa o metabolica.-

    • Ciao Alberto,
      Hai ragione, si capisce benissimo che non
      consideri falsetti quelli della Callas, ovvio.
      Molti amici del Corriere ultimamente si sono
      domandati cosa si intenda per “falsetto”
      parlando di voci femminili.
      Siamo qui’ anche per chiarirci, no?
      Vedrai che i chiarimenti arriveranno.
      Pero’, qualdo la Giulia afferma che la vocalita’
      di Devia e’ perfetta per un ruolo come quello
      di Lakme’ ha ragione, pensaci bene.
      Tessitura, stile, orchestra non particolarmente
      densa…tutte cose che stanno benissimo
      ad una cantante come la Mariella, le mancano
      forse solo un colore un poco piu’ “esotico”
      e un’abbandono maggiore per essere perfetta.
      Comunque certamente superiore alla Pons
      postata da Sardus, e superiore anche alla
      Pons delle prime incisioni. Lakme Insomma,
      la canta da grande cantante, dai.
      E la Bolena, amico mio, e’ la Bolena.
      Quando la canta la Devia se ne sente sempre
      poco piu’ della meta’, e tieni presente che
      solitamente non le mettono vicino
      la Branzell o Kipnis…si sente poco comunque.
      E gli accenti, e la dizione, e il volume rimangono
      quelli di Lakme.
      E non si tratta di “fare le pulci”. Uno ascolta ed
      esprime cio’ che prova.

      • condivido tutto quello che scrivi, e soprattutto la questione sulla sua caratterizzazione che manca un po’ di esotismo, ma l’ho ben puntualizzato la Devia é eccellente in quest’aria soprattutto nel registro acuto. Circa la sua Bolena io l’apprezzo nella misura in cui non vado mai avanti a compartimenti stagni altrimenti non sarebbe mai dovuta esistere la Turandot di Joan Sutherland, la Salome di Montserrat Caballé l’Elvira della Callas e nemmeno James Bond!

    • Le parole lasciano sempre il tempo che trovano, ma “falsetto” è termine che io eviterei di usare a proposito del settore acuto femminile, che non può che essere di testa. Chiaramente qui con “falsetto” si intende un suono che perde di appoggio, pienezza, intensità. Ma allora, propongo di evitare l’uso di termini tecnici equivoci, nonché di evitare di parlare di registri e di passaggi, ma limitarsi a descrivere le caratteristiche empiriche del suono, se bello, brutto, debole o forte ecc…

  6. Io personalmente storco il naso su questa pruderia sulla voce femminile: basta essere chiari ed eventualmente usare un linguaggio tecnico.
    Alberto usa il termine falsetto come suono non appoggiato flebile e flautato, termine usato peraltro da Lauri Volpi per descrivere i piani in acuto della Caballé.
    Se invece usiamo un linguaggio specifico, sempre dal buon Garcia la voce femminile ha come quella maschile un registro di petto ed uno di falsetto-testa, falsetto nel medio e testa in acuto.

        • Attenzione a non cadere nell’errore del “misto”. Petto e falsetto percorrono la stessa estensione, sono due registri paralleli, sovrapposti, ed entrambi finiscono appunto attorno al do#4 (canonicamente la nota più estrema per un tenore). Quindi la medesima nota, putacaso un fa3, potrà essere o di petto, oppure di falsetto, ma tertium non datur.

          • Sai benissimo, Mancini, che su questo punto dissentiamo in toto.
            Per unione dei registri tu intendi quanto dici sopra; per unione dei registri io intendo che nella zona di passaggio un tenore (in questo caso) può unire il registro di petto con quello di falsetto, e avere la gamma dal passaggio in area mi3-fa3 in cui è preponderante il petto per salire appunto fino al do4-do#4 in cui c’è più falsetto ma sempre e comunque con un registro MISTO petto-falsetto, come riportato da me in passato basandomi sul Garcia e su quanto dice Blake sul passaggio e l’uso dei colori chiaro e scuro.

  7. mancini a cui andava il mio bravissimo ha correttamente evidenziato l opportunita’ d andare prudenti con il concetto d falsetto rapportato alle voci femminili. Io ne ricordo pochi nella storia del disco. Uno per tutti il do nell aria di aida del terzo atto eseguito da k ricciarelli o sempre lei (c ero) in signore scolta prima recita con domingo ripresa in tv d turandot

  8. si tutto sommato e cos. Pero ‘ in considerazione della rwlativa fissita’ e dell esiguo volume (c e anche un don carlo a roma che fa fede) gli esempi piu concreti d falsetto femminile sono quelli li

  9. Per Mancini: riporto il Garcia nella traduzione Mazzuccato:
    “Per i tenori, più che per i baritoni, é un mezzo felice e naturale l’unione del registro di petto a quello di falsetto.
    La tropp’ alta tessitura della musica che componesi oggidi pe’ tenori, non permette loro di poter esimersi dall’ impiego del
    falsetto. Pero l’ impiego di tal mezzo deve sempre essere determínalo dall’attitudme dell’organo a FONDERE INSIEME IL METALLO DE’ DUE REGISTRI; altrimenti, per quanto bene si renda insensibile il passaggio dell’un registro all’altro, la disparitá de’ suoni urta l’orecchio ed annienta l’unitá d’effetto; sembrerebbe né più né meno d’ascoltare due diversi individui cantare alternativamente in una stessa frase.”

    • Giustamente Garçia biasima l’usanza di scrivere parti via via sempre più acute per le voci… fu una delle cause principali della decadenza del canto, lo scrisse anche Lamperti. Sui registri, mi pare che Garçia non usi mai il termine “misto”.

Lascia un commento