Rienzi, der Letzte der Tribunen, fu il primo vero successo di Wagner. Scritta in quasi tre anni – durante il soggiorno dell’autore a Parigi, dove visse dal ’39 al ’42 in condizioni di assoluta povertà, coltivando rabbia e rancore verso i compositori di maggior successo (Donizetti in primis, da lui ritenuto un analfabeta musicale), ma costretto a trascriverne i brani più famosi per guadagnarsi da vivere e dove oltre a portare a termine la sua terza opera lavorava a quel Fliegende Holländer che costituirà la svolta del suo stile compositivo – l’opera risente delle influenze del grand-opéra francese che, insieme all’opera romantica tedesca, costituisce la prima formazione e la radice profonda dell’epopea wagneriana: anche se l’autore si affretterà a negare ogni debito, costruendosi a posteriori un mito di originalità assoluta (quello che ancora certi “bidelli del Walhalla” pretendono di far credere). L’opera, ispirata ad un romanzo storico di successo, per tematiche, dimensioni e mezzi impiegati, si riallaccia ai lavori di Meyerbeer e di Halévy, anche se il linguaggio musicale è piegato ad uno stile più romantico (Weber e Mendelssohn) che “post rossiniano”. Rienzi è un lavoro sterminato: cinque atti densi di avvenimenti, uso spregiudicato delle masse orchestrali e corali, elementi decorativi portati al parossismo (la pantomima dell’atto II dura quasi 40 minuti), marce, preludi, cori e un notevole impegno vocale richiesto ai protagonisti, per un totale di oltre cinque ore di sola musica. Il libretto, scritto dallo stesso Wagner, narra la storia di Cola di Rienzo, il tribuno che nel XIV secolo tentò di restaurare, a Roma, le virtù dell’antica repubblica, ma che, travolto dagli intrighi del potere e tradito dal suo stesso popolo alla fine viene assassinato dallo folla furibonda. Naturalmente il quadro storico e politico si intreccia alle vicende private dei protagonisti (nel grand-opéra la storia non è mai semplice “ambientazione”, come nel melodramma italiano o in Rossini, ma diviene motore e causa dei drammi personali), in questo caso Irene, la sorella del Tribuno, è innamorata e ricambiata da Adriano, rampollo della nobile famiglia degli Orsini – in lotta coi Colonna per la supremazia sulla città – e, quindi dibattuto tra gli interessi della sua casata, in contrasto con tutto ciò che rappresenta Rienzi, e l’amore per la fanciulla. Tuttavia il libretto, anche se ricco di avvenimenti e digressioni, è ben strutturato e la storia scorre in modo omogeneo e con un buon piglio teatrale. La scrittura rivela un musicista ormai maturato – rispetto ai due lavori precedenti – consapevole dei propri mezzi e in grado di gestirli (pur nel gravoso impegno di un’opera di dimensioni smisurate com’è Rienzi). Wagner, dicevo, si ispira certamente al grand-opéra (come è naturale per un giovane musicista vissuto a Parigi tra gli anni ’30 e ’40 del secolo), anche se è necessario ridimensionare tale assunto: infatti se Rienzi nelle strutture formali ricorda le macchine teatrali di Meyerbeer e di Halévy, nella sostanza l’approccio cambia completamente. Wagner non “francesizza” la sua scrittura e non si abbandona a certe frivolezze tipiche del genere (canzoni, brindisi, divertissement), ma mantiene una costante tensione etica in un dramma a tinte fosche, privilegiando l’aspetto politico e la statura tragica del suo protagonista. Nella scrittura musicale convergono diverse suggestioni che solo in parte possono essere ricondotte al grand-opéra (lo stesso trattamento vocale si distanzia dalla tipica scrittura post rossiniana di Meyerbeer, a favore di un canto più scolpito e corposo senza troppe concessioni al virtuosismo più esteriore): l’opera romantica tedesca (Weber, Beethoven e Mendelssohn, ma anche Marschner, Loewe, Hummel) e Spontini che, dopo i fasti della grandeur napoleonica, proprio in Germania aveva concluso la sua carriera musicale facendo da trait d’union tra il neoclassicismo e il nascente romanticismo (Fernando Cortez, Olympie e Agnese di Hohenstaufen). Dopo aver cercato invano di proporre Rienzi all’Opéra, Wagner si trovò costretto a tornare in patria, nella tanto detestata provincia tedesca, e a Dresda, con la raccomandazione dello stesso Meyerbeer, l’opera finalmente va in scena il 20 ottobre 1842. Il trionfo sarà tale da assicurare all’autore il posto di Kapellmeister del teatro di corte, dando il via alla sua lunga carriera. Il cast comprendeva il tenore Josef Tichatschek (che sarà anche il primo Tannhäuser) nei panni del Tribuno e Wilhelmine Schröder-Devrient nel ruolo en travesti di Adriano. L’estrema lunghezza, più delle difficoltà vocali e strumentali, costituì subito un problema: era evidente che uno spettacolo di oltre sei ore (tanto durò la prima) non poteva entrare stabilmente nel repertorio, nonostante il successo riscontrato. Così, dopo le prime esecuzioni, fu chiesto a Wagner di operare qualche taglio, ma dopo le proteste degli interpreti, che pretendevano di cantare le proprie parti interamente, l’autore pensò di suddividerla in due parti: Rienzis Grösse (atto I e II) e Rienzis Fall (atto III, IV e V, introdotti da una nuova introduzione) andarono in scena nell’ottobre del ’43, ma le opere in due parti non funzionavano così l’autore preparò una nuova versione ridotta da rappresentarsi in una sola serata (priva di pantomima e balletto e con sostanziosi tagli). Difficile, tuttavia, ricostruire con certezza la versione originale: il materiale della prima esecuzione, infatti, andò distrutto nel 1945 durante il bombardamento di Dresda e il manoscritto – che fu donato da Winifred a Hitler in occasione del suo cinquantesimo compleanno nel 1939 – subì la medesima sorte durante la distruzione di Berlino, disperso, probabilmente, nel bunker sotto la Cancelleria del Reich. Sopravvivono due partiture successive alla prima (non complete) e la prima edizione a stampa (risalente al 1844 e preparata con la supervisione dell’autore), che però riporta molti tagli e riproduce la seconda versione riveduta da Wagner. Dal 1976 è disponibile una nuova edizione critica che ricostruisce la prima versione dell’opera con il maggior grado di certezza possibile: si basa su tutte le fonte esistenti (singole parti della prima rappresentazioni, partiture a stampa, riduzioni per canto e pianoforte, abbozzi e materiale preparatorio), tuttavia non si conosce con esattezza la versione definitiva dell’autore. Rienzi, nonostante il grande successo, non entrò mai stabilmente nel repertorio, anche se circolò, soprattutto in area germanica, per tutto il secolo XIX e anche oltre (pur con pesanti interventi), tanto che a Dresda nel 1908 raggiunse la duecentesima rappresentazione. Opera ambiziosa, certamente, e non sempre ispirata – tanto che l’unica pagina veramente riuscita è la splendida ouverture, che contiene uno degli spunti melodici più felici dell’intero catalogo dell’autore – ha in realtà un ruolo molto importante nella maturazione artistica di Wagner: non solo, infatti, è stato il suo primo vero successo (senza il quale, probabilmente, non avrebbe potuto realizzare i suoi progetti), ma essa costituisce la summa di un mondo musicale a cui l’autore, pur negandolo in seguito, resterò sempre legato e debitore (i denigrati Meyerbeer e Mendelssohn). Tuttavia Rienzi non è importante solo per la parabola strettamente musicale del compositore, ma anche per la formazione della sua estetica ideale: le tensioni sociali e gli scontri etici (a Parigi, mentre sbarcava il lunario arrangiando per organetti meccanici i maggiori successi di Donizetti, Wagner entrava in contatto con i circoli socialisti e con le idee di Proudhon che tanto lo influenzeranno nel progetto originario del Ring), la potenza del destino e la tragica solitudine dell’eroe, presenti in larga misura in Rienzi, si ritroveranno – pur declinati in forme più mature e filtrati nella filosofia di Schopenhauer – anche nei titoli maggiori: da Parsifal a Lohengrin, dai Meistersinger a Tannhäuser. Sino all’epopea nibelungica. Ma l’importanza non si ferma a Wagner: il dramma dell’uomo superiore, della guida che trascina il popolo e che soccombe tragicamente per esso e attraverso esso, segnerà la formazione di Adolf Hitler, il quale racconta come proprio la visione di Rienzi contribuì alla nascita del nazionalsocialismo (e aldilà della verità o meno dell’affermazione, probabilmente frutto di una ricostruzione a posteriori della propria biografia, è incontestabile il fatto che il Führer portò il manoscritto dell’opera sin nel bunker sotto le macerie del Reich millenario, in attesa della catastrofe finale.) Oggi l’opera è sempre più raramente messa in scena, e quando accade gli interventi sono tali e tanti dal ridurla a poco più d’una selezione. Spesso poi le già sparute rappresentazioni devono scontare le più bizzarre manomissioni registiche, tutte volte alla ridicolizzazione dell’opera o al suo totale travisamento. In questo senso trovo incomprensibile la frequente trasformazione del protagonista in una sorta di dittatorello megalomane che ora pare la parodia di Hitler ora quella di Mussolini (a seconda del contesto geografico in cui avviene lo scempio), riducendo la portata morale dell’idea wagneriana a farsa dai valori trasmutati e fittizi. Aldilà della riuscita o meno della rappresentazione (era pure suggestiva la recente versione berlinese con tanto di bunker, modellino della nuova capitale – con la cupola della Volkshalle disegnata da Speer – e Berghof sulle alpi salisburghesi) trovo che nella trasformazione di Rienzi in personaggio negativo si travisi completamente la musica di Wagner, che assume così toni falsi e subdoli, laddove l’autore, invece, intendeva comunicare tutt’altro messaggio. Ma il problema è sempre lo stesso: fino a dove è lecito, per un regista, intervenire sull’opera dell’altrui ingegno sovrapponendogli personali elucubrazioni prescindendo completamente dal libretto (che non è solo un pretesto – soprattutto in Wagner – per mettere note su un foglio, ma veicolo di idee e costruzione estetica-musicale ben definita)? Poche sono anche le edizioni discografiche: a parte le versioni di Zillig, Matacic, Krips e Scherchen che danno solo un’idea ridotta dell’opera (per la spregiudicatezza di tagli e manomissioni) restano tre incisioni. Sawallisch (dal vivo a Vienna nel 1983) e Hollreiser (in studio nel 1976) si rifanno alla seconda versione preparata da Wagner (anche se Hollreiser recupera alcuni brani risalenti alla prima versione), mentre Downes, sempre nel ’76, si rifà alla prima stesura (per quanto ricostruibile) e firma, con i complessi della BBC l’edizione più completa oggi disponibile (solo qualche ripresa nelle marce è stata tagliata e poco altro) per una durata complessiva di quattro ore e quaranta minuti di musica. Opera complessa, ambiziosa, per certi versi kitsch (ma compatta e omogenea come i capolavori della maturità), Rienzi – espunta dal “canone” voluto dall’autore, presenza imbarazzante per i tanti rimandi alla “musica del passato” piuttosto di quella “dell’avvenire” – merita, invece, di essere conosciuta e rivalutata, perché tassello fondamentale per comprendere pienamente Richard Wagner. Chiudo ricordando Gustav Mahler che definì l’opera “il più grande dramma musicale mai composto” e Franz Liszt che dedicò alla splendida ouverture una delle sue più belle parafrasi da concerto.
Gli ascolti
Wagner – Rienzi, der letzte der Tribunen
Ouverture – Franz Konwitschny (1951)
Atto I
Erstehe, hohe Roma, neu! – Erik Schmedes (1905), Jacques Urlus (1917), Franz Volker (1933)
Atto II
Rienzi! Auf! Schützt den Tribun! – Max Lorenz, Gustav Rödin, Robert von der Linde, Wilhelm Hiller (1941)
Rienzi! Gib mir meinen Vater! – Margarete Klose, Hilde Scheppan, Max Lorenz, Wilhelm Hiller, Gustav Rödin, Jaro Prohaska, Robert von der Linde (1941)
Atto III
Gerechter Gott, so ist’s entschieden schon!…In seiner Blüte bleicht mein Leben – Louise Kirkby-Lunn (1915), Sabine Kalter (1925), Ernestine Schumann-Heink (1908), Rosette Anday (1930), Margarete Klose (1937), Margarete Matzenauer (1907)
Atto V
Allmächt’ger Vater, blick herab! – Jacques Urlus (1915), Heinrich Knote (1929), Hermann Jadlowker (1914), Franz Volker (1930), Max Lorenz (1941)
Verläßt die Kirche mich – Max Lorenz, Margarete Klose, Hilde Scheppan (1941)
Bonus: Franz Liszt – Phantasiestück über Motive aus Rienzi
Complimenti per l’articolo, sebbene mi sarebbe piaciuto leggere un’analisi anche vocale dell’opera. Tra le influenze del grand-operà vi è, senza dubbio, il fatto che il ruolo di Adriano sia “en travestì” ed affidato ad un mezzo soprano.
Concordo con il giudizio di Duprez su quest’opera, ingiustamente fuori repertorio e sull’importanza che essa ha avuto nella maturazione artistica di Wagner.
Sottolineo e condivido in toto, poi, la giusta considerazione circa i libretti di Wagner che “non [sono] solo un pretesto […] per mettere note su un foglio, ma veicolo di idee e costruzione estetica-musicale ben definita”.
Tra le debolezze del Rienzi, secondo me, c’è il personaggio di Irene, quanto mai insulso ed inutile nell’economia dell’opera e di pochissimo rilievo anche dal punto di vista vocale. Davvero lontana dagli altri personaggi femminili di Wagner che, invece, avranno ben altro spessore vocale e psicologico ed un ruolo centrale nella poetica wagneriana.
L’analisi vocale dei singoli brani avrebbe dilatato troppo l’articolo, e comunque non presenta particolare interesse: basti dire che – a differenza di quanto si legge spesso – qui Wagner non adotto una scrittura vocale all’italiana (mutuata dal post rossinismo che ancora influenza il grand-opéra francese, almeno sino a Verdi) e neppure indulge nelle formule tipiche del genere (le solite canzoni, i soliti brindisi, i soliti couplets) ma si riallaccia ad una scrittura più compatta e “romantica” (Weber) ripulita da eccessi virtuosistici.
Certamente il personaggio en travesti deriva dall’ambiente musicale in cui Wagner scrive l’opera, anche se è trattato in maniera molto differente rispetto alla leggerezza tipica di un Urbain ad esempio.
Rienzi è opera estremamente compatta e omogenea…non di grande ispirazione (forse l’unico momento veramente meritevole è la sola ouverture e neppure tutta), ma molto affascinante.
Ps: quello che ho scritto sui libretti non è da circoscrivere solo a Wagner, credo che la musica scritta sia fortemente influenzata dalla vicenda narrata. Ecco perché trovo intellettualmente disonesto, da parte di certi registi, ricostruire una storia sulla musica esistente, perché se ne falsificano i contenuti.