Sorella Radio: Trovatore dal Theater an der Wien.

La prestigiosa manifestazione delle Wiener Festwochen, animata, come ogni festival che si rispetti, dall’ambizione e dalla curiosità di proporre titoli desueti o comunque poco frequentati, ha visto nei giorni scorsi il debutto di una produzione, ovviamente nuova fiammante, di Trovatore (coproduce la Staatsoper di Berlino, quindi un futuro approdo italiano è, se non scontato, almeno plausibile). Negli anni scorsi erano stati allestiti Rigoletto e Traviata. Titoli che un normale teatro della provincia tedesca propone di solito nell’arco di un trimestre (scarso). Alle nostre latitudini, dimostra un’ambizione comparabile la kermesse ravennate, che peraltro ha prodotto, nello scorso autunno, i tre titoli suddetti e si appresta a bissare quest’anno con Macbeth, Otello e Falstaff (viva la fantasia, ma soprattutto la fiducia nella positiva risposta da parte del pubblico).

Fantasia, fiducia e tenacia non fanno certo difetto ai responsabili della manifestazione viennese, dato che anche questo titolo, come i due precedenti, è stato affidato alla direzione musicale di Omer Meir Wellber. Il giovane direttore, emergente finora più in forza delle dichiarazioni di alcuni addetti ai lavori, che non per gli esiti delle sue controverse apparizioni ambrosiane, ha optato per tempi generalmente lenti, o meglio slentati, consoni, almeno sulla carta, a una cupa e solenne tragedia. Il problema è che i tempi lenti richiedono, da un lato, una perfetta coordinazione tra buca e palco, dall’altro, solisti capaci non solo di reggerli, ma di legittimarne l’impiego, in grado cioè di sfoggiare ampiezza vocale, raffinata espressività e insomma tutto quello che del tempo lento, solenne e paludato costituisce il corrispettivo nella dimensione del canto. Il che, nel caso specifico, non si è verificato, vuoi per la limitata esperienza del direttore (benché apprendista di celebrate bacchette), vuoi per l’inconsistenza della compagnia radunata per l’occasione. Al di là dei problemi di coordinazione (che regolarmente affiorano in sede di concertato) e del costante affanno dimostrato dagli esecutori, quello che meraviglia, in un direttore da alcuni additato come sensibile interprete della temperie ottocentesca, è l’assoluta indifferenza espressiva (anzi, inespressiva) con la quale si succedono le varie scene, i ritmi e i colori da opera di mezzo carattere applicati alle grandi scene d’assieme come gli interventi dei soldati e degli zingari e il finale secondo, gli interventi orchestrali in cui si apprezza solo un suono genericamente pulito e mai l’atmosfera notturna, ora languida ora sulfurea, che caratterizza la partitura, l’accompagnamento sistematicamente rigido e meccanico fino alla parodia involontaria (esemplare in questo senso il “D’amor sull’ali rosee” e tutto il quadro conclusivo). Una direzione, quando va bene, di routine, quando va male (il che capita più spesso), decisamente al di sotto delle richieste della musica.

I cantanti si adeguano mirabilmente (si fa per dire) al disegno, o meglio al non disegno, proposto dal podio. Sono tutte voci modeste per natura e più ancora per insufficiente dimestichezza con gli strumenti del canto professionale. Gli stessi che mirabilmente utilizzano, nel cantabile del primo duetto, il Manrico di Leo Slezak e l’Azucena di Hermine Kittel, solo due tra i molti divi che abbiano affrontato il titolo sulle scene viennesi. Tanto per fare un po’ di passatismo. I divi di oggi, espressione dello star system e per sistema proposti dal circuito dei cosiddetti grandi teatri, non riescono a reggere l’ampiezza delle grandi frasi verdiane (esempio preclaro il nominale mezzosoprano Marina Prudenskaya al racconto di Azucena, in cui frasi cruciali come “Il figlio mio” risultano spezzate, e quindi indebolite, da aleatorie riprese di fiato), non sfoggiano in acuto suoni facili o penetranti, ma di volta in volta strillano (Carmen Giannattasio su qualunque nota superiore al sol4, e nel “Miserere” non vengono risparmiate, all’esecutrice prima ancora che all’ascoltatore, le puntature di tradizione), emettono suoni da “animal farm” (il “Balen del suo sorriso” di Artur Rucinski è debitore di tutti i maggiori esponenti della scuola del muggito, al netto della dote naturale, nel caso specifico più adatta a un Belcore da saggio di conservatorio che non al torvo nobiluomo iberico) o emettono gémissement (il protagonista, già deficitario Calaf in una recente produzione bolognese, conferma serie difficoltà nell’emissione di suoni vocalici in qualche modo riconducibili all’alveo della lingua italiana, e questo al netto di un’intonazione, che sarebbe eufemistico definire periclitante).

Tutti gli esecutori sopra menzionati (alcuni dei quali applicati sistematicamente a repertori anche più onerosi e magari in procinto di debuttare ruoli che sono, ben più di quelli del Trovatore, autentiche pietre miliari del melodramma) avrebbero avuto bisogno di ricevere dal golfo mistico non generiche indicazioni di tempo (che peraltro non riescono ad onorare), ma consigli su come gestire il (poco) fiato a disposizione e sulle interpolazioni e, più ancora, sui tagli da apportare alle rispettive parti. Più che di una promessa del podio, peraltro in fieri ormai da un lustro o quasi, avrebbero avuto bisogno di un buon “praticone” d’altri tempi o almeno di un maestro ripassatore ferrato nella sua arte. Ma sarebbe stato chiedere troppo, ce ne rendiamo conto.

Del pari eccessivo e sconsiderato sarebbe stato pretendere da un festival, che si picca di fare Arte, un allestimento che non evochi numerosi film tratti da Alice nel paese delle meraviglie, come se il Medioevo spagnolo ripensato dall’Ottocento avesse di per se stesso qualcosa che spartire con il tè del Cappellaio Matto o le smanie della Regina di Cuori. La nostra è certo pura paranoia, ma forse, prima di accampare la pretesa di fare Arte, sarebbe giusto e onesto riscoprire un poco di fantasia e onesta curiosità nei confronti del passato, o come si dice oggi con termine alla moda, della nostra eredità culturale. Per quel poco, pochissimo che è nelle nostre possibilità, abbiamo intenzione di continuare a farlo, magari proprio con riferimento al Trovatore, titolo già più volte affrontato, non solo nell’ambito della Verdi Edission. Ci auguriamo, ovviamente, di poter sfoggiare, nell’occasione, fantasia e inventiva non inferiori a quelle delle più prestigiose (e meglio sponsorizzate) manifestazioni del settore.

 

Gli ascolti

Verdi – Il Trovatore

Atto II

Mal reggendo all’aspro assaltoLeo Slezak e Hermine Kittel (1909)

Atto IV

Madre, non dormi?…Ai nostri monti…Ha quest’infame…Prima che d’altri vivereYonghoon Lee, Marina Prudenskaya, Carmen Giannattasio, Artur Rucinski – dir. Omer Meir Wellber (2013)

9 pensieri su “Sorella Radio: Trovatore dal Theater an der Wien.

  1. Questa produzione andrà in scena il prossimo novembre alla Staatsoper di Berlino. Direttore Barenboim, solisti Domingo (Conte) Antonenko (Manrico) Prudenskaja (Azucena) e…rullo di tamburi… Anna Netrebko come Leonora. Cast, semplicemente, da delirio!

    • bello! bellissimo, un cast simile è un capolavoro!!! lo devo sentire, difficile per me muovermi in novembre, ma una roba del genere è un evento epocale! ci devo riuscire! quando mai mi ricapiterà una vaccata simile!!!

      • Con un cast del genere bisognerebbe andare a Berlino anche a….remi, per calarli ovviamente su quelle sacre capocce :
        El Domingo di Luna, flebo-baritonante di riporto, lo strascèe Antonenko, l’ancheggiante Netrebkotta, la scontata imprudente Prudenskaja, e il mixer tritatutto BarenBOUM !
        Dai ragazzi, consoliamoci, anche noi avremo le nostre piaghe, ma almeno questa non è in cartello a Milano !

      • Domingo è un caso psichiatrico, che ben corrisponde alla patologia del Regietheater. Il cerchio si chiude: ormai i “cantanti” si sono così impersonati nella bruttura che trasuda a iosa dalle paturnie dei registi (che si guardano bene di contestare, anche quando avrebbero la “celebrità” per farlo) da diventare essi stessi soggetti clinici.

  2. Grazie Tamburini per questo estratto sonoro! Aïe, Yonghoon Lee (l’allievo più riuscito di un certo insegnante «tenor teacher» newyorkese)… sembra di imitare il giovane Shicoff quando faceva lui stesso un’ omaggio corelliano.

  3. Ho letto – a proposito dell’allestimento – che il regista (ovviamente “geniale”) dopo aver premesso di non aver capito la trama dell’opera, ha pensato bene di girarla in burletta, come se fosse una farsa oscena. Allo stesso modo il direttore ha voluto chiarire come neppure lui capisca la trama di Trovatore. Il tutto accettato senza alcuna rimostranza da parte di pubblico, critica e addetti ai lavori: questa cosa è gravissima. Come si fa a dirigere con cognizione di causa un’opera di cui non si riesce a capire la trama? A parte che nutro serie perplessità circa le capacità intellettive di regista e direttore – per non capire la trama di Trovatore bisogna essere semplicemente rintronati o interdetti – mi chiedo dove si andrà a finire: ormai l’opera è vista come un circo per poter inscenare (su musica preesistente) ogni masturbazione mentale e ogni paranoia possibile. Ma a nessuno viene il sospetto che la musica sia stata scritta in funzione di un certo testo e certe situazioni? Possibile che nessuno comprenda come mutare queste situazioni sino a stravolgerle compromette il senso della musica cantata e suonata? Possibile che il pubblico di gonzi e lobotomizzati non si decida una buona volta a ribellarsi e cacciare coi forconi questi sedicenti geni? Una roba del genere non dovrebbe neppure andare in scena, dovrebbero organizzare boicottaggi e azioni di disturbo… Sì, ormai l’unica speranza è la guerriglia a teatro.

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