Prosegue la stagione felsinea: Clelia trionfa… e Gluck?

Il Comunale di Bologna celebra i duecentocinquanta anni dalla sua fondazione allestendo l’opera che fu composta per inaugurare la sala del Bibiena. Scelta non dissimile da quella operata quasi un decennio fa dalla Scala restaurata, e perfettamente coerente con l’idea, che oggi è un dogma, che vada scelto per prima cosa il titolo da proporre, e solo in seguito gli esecutori cui affidare il titolo stesso.
“Il trionfo di Clelia”, come quasi tutti i melodrammi composti nel diciottesimo secolo, ivi compresi quelli del Gluck non riformato, è opera pensata e scritta per cantanti ben precisi, che erano, nell’occasione specifica, alcuni dei migliori dell’epoca, su tutti l’evirato Giovanni Manzuoli, detto Succhianoccioli, nel ruolo protagonistico di fatto, se non di nome, di Orazio. L’opera, musicalmente non meno valida di mille altre composte nello stesso periodo e nel medesimo contesto produttivo, quello del teatro impresariale, ebbe alla prima rappresentazione un clamoroso successo, puntualmente replicato alle recite successive.
Giovedì 16, alla seconda rappresentazione (su sei previste) di questa ripresa moderna, e benché la recita fosse proposta in abbonamento, del teatro bolognese era piena per due terzi la sola platea, mentre si contava almeno una trentina di palchi deserti (i famosi “forni”) e la balconata, tradizionale “termometro” del gradimento di pubblico, ospitava una ventina scarsa di persone, molte delle quali giunte al botteghino meno di un’ora prima che si alzasse il sipario. Al di là delle discutibili doti manageriali che una simile situazione mette in luce (era indispensabile programmare sei recite di un titolo come questo? e soprattutto: non si poteva pensare a prezzi “di favore” ed offerte ad hoc, tali da incentivare i potenziali spettatori più riluttanti e perplessi?), è necessario interrogarsi sulle ragioni di questa risposta del pubblico, che eufemisticamente potremmo definire fredda. Risposta che trova del resto puntuale conferma nei parchi applausi che hanno punteggiato la serata e nella stiracchiata chiamata al proscenio conclusiva, mentre, al termine dell’ultima acrobatica aria di Orazio, non è mancata una timida contestazione, non sappiamo se rivolta al delirante allestimento o alla claudicante esecuzione musicale.
Per quest’ultima il “merito” va in massima parte a chi sta in buca: Giuseppe Sigismondi de Risio ha tratto dall’orchestra (per l’occasione in formazione ridotta, anche più che nella recente Norma) del Comunale (in primis fiati e ottoni) suoni di malcerta intonazione e spesso sfasati tra loro, mettendo regolarmente in difficoltà i solisti di canto e non riuscendo a differenziare, nel colore come nello stacco dei tempi, le arie patetiche da quelle eroiche, i recitativi accompagnati dai passi elegiaci e questi ultimi dalle arie di mezzo carattere. Il risultato è notevole, soprattutto se si considera che Sigismondi de Risio ha realizzato l’unica incisione discografica del titolo e dovrebbe pertanto avere, con il suddetto, una certa consuetudine. Sempre al direttore, verosimilmente di concerto con il regista, si devono i consistenti tagli (circa quarantacinque minuti complessivi) apportati alla partitura e che non di rado hanno interessato (come in un tristemente famoso “Giulio Cesare” haendeliano felsineo di una decina di anni fa) la seconda e la terza parte di un’aria col da capo, rendendo in questo modo difficilmente riconoscibile quella che è la struttura musicale portante del melodramma settecentesco. A conti fatti, sarebbe stato meglio tagliare del tutto arie così maldestramente sforbiciate.
Non di forbici, ma di ulteriori variazioni e consistenti inserimenti avrebbero dovuto beneficiare le parti solistiche, sempre per aderire al canone del melodramma metastasiano, che nell’ornamentazione retorica e in quello che è il suo equivalente musicale, il virtuosismo canoro, trova la strada maestra per dispiegare il ventaglio delle passioni umane, i cosiddetti “affetti”. Difficile però variare, fiorire o anche soltanto differenziare il carattere delle arie o delle singole frasi di recitativo, quando si disponga di voci educate alla scuola baroccara, prive del necessario sostegno e ignare dei rudimenti della respirazione professionale, che sfoggiano suoni morchiosi al centro (registro su cui tutte le parti in questione principalmente insistono) e che dai primi acuti risultano ora fisse, ora gridacchiate, sistematicamente ai limiti di una corretta intonazione e spesso al di là dei medesimi. Sarebbe inutile e tedioso scendere in dettagli: sufficit et abundat paragonare gli esempi proposti in appendice non con i pionieri o gli esponenti della Belcanto Renaissance, bensì con l’arte di cantanti non specializzati nel repertorio barocco, ma perfettamente allenati alla scuola del canto sul fiato, e di conseguenza capaci di legare e sfumare i suoni, esemplificando come meglio non si potrebbe l’arte del dire applicata a questo repertorio, che solo una malintesa smania di “riforma” a ogni costo potrebbe giudicare deteriore e privo di qualunque interesse musicale.
Poi ci sarebbe da dire della regia. Se ne avessimo scorto traccia. In scena abbiamo assistito a una parodia degli spettacoli allestiti nelle cantine “okkupate” o in qualche circolo dopolavoristico, che abbia scelto di evocare, per burla, i famosi happening cari ai Futuristi. Perché l’evocazione della romanità classica non può che passare attraverso l’idea, cara al teatro di regia, della sovrapposizione tra toga praetexta e olio di ricino. A questo deprimente quadro d’assieme si aggiungono trovate che non sfigurerebbero in una serata stile “Animal House” o in una più nostrana disputa fra matricole e fagioli, con proiezioni di fuochi d’artificio, che vorrebbero alludere a contestuali pirotecnie vocali, enormi pupazzi e maldestri esperimenti culinari. Il tutto col risibile intento di rendere più “appetitosa” e “digeribile” una drammaturgia avvertita come distante e incomprensibile per il pubblico moderno, laddove la vera, insormontabile difficoltà di approccio risiede in chi dovrebbe portare in scena questi titoli e non ha il rispetto e la curiosità intellettuale, prima ancora che le competenze, per farlo.

 

Il cast:

Clelia – Maria Grazia Schiavo
Orazio – Mary-Ellen Nesi
Larissa – Burçu Uyar
Tarquinio – Irini Karaianni
Porsenna – Vassilis Kavayas
Mannio – Daichi Fujiki

Direttore – Giuseppe Sigismondi De Risio
Regia e scene – Nigel Lowery
Costumi – Monica Benini
Luci – George Tellos

 

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13 pensieri su “Prosegue la stagione felsinea: Clelia trionfa… e Gluck?

  1. La consueta stroncatura. Lo capisco. Ma, una volta stabilito che nel panorama lirico mondiale, fra chiunque lavori nel mondo dell’opera, la Pratt è l’unico nome da salvare (ma quanto durerà? poco, immagino), qualche problemino bisognerà porselo. O la lirica è diventata qualcosa di diverso e incomprensibile che il normale appassionato d’opera non può più seguire. Amen. O l’opera è morta e sepolta. Ancora di più amen. Ma sarà proprio così?
    Marco Ninci

    • Il de profundis su questo Trionfo l’ha officiato il pubblico, l’imbarazzante NON sbigliettamento è la più efficace stroncatura per questo spettacolo e altri consimili (vogliamo parlare di come stanno andando le repliche fiorentine della Lucrezia britteniana in un teatrino da 300 posti…?). Ma vedo che si preferisce giocare al “tutto va bene madama la marchesa”, che nel caso specifico si declina “è colpa della Grisi” ovvero “la Grisi mente, l’opera scoppia di salute”. Buona continuazione.

    • Per la cronaca, leggendo in giro, su Forum, Blog, Facebook, saltano subito all’occhio alcune cose interessanti:

      1) L’opera è piaciuta poco al pubblico.
      2) Il pubblico ha riempito per metà le recite.
      3) Cast dal pubblico giudicato insalvabile. Qualche rara e timida voce si è levata per salvare la Schiavo, ma è tutto.
      4) L’allestimento (di un collaboratore del “genio” Jones, tra l’altro) non è piaciuto a nessuno.

      Le conclusioni sono naturali: non solo il pubblico ha stroncato, nel complesso, queste rappresentazioni, ma Tamburini non fa altro che ribadire e certificare questo plebiscito che ha decretato il “Tonfo” di Clelia a Bologna.
      La Pratt, citata a sproposito, nulla a che fare con questa “Clelia”.

        • Bisogna vedere però se il valore musicale della “Clelia” sia paragonabile alla “Rodelinda” (o ad un suo troncone) e viceversa! O più semplicemente farebbe probabilmente la stessa fine della “Clelia”. Pura curiosità da recuperare ogni 40 anni e da affidare ai giovani dell’accademia di turno.

          • Il problema cara Marianne è che se affidi queste opere ai “cadetti”, anziché a grandi virtuosi di canto, risulteranno invariabilmente noiose e sterili, indipendentemente dal loro valore intrinseco.
            Tanto per non essere passatisti immagina un Trionfo di Clelia allestito a Martina Franca diciamo nel 1985 con Lella Cuberli, Martine Dupuy, Mariella Devia e Carmen Gonzales. Forse non sarebbe comunque risultata un capolavoro, ma nessuno avrebbe trovato da ridire sull’opportunità della riscoperta.

      • Non sono del tutto d’accordo, nel senso che il paragone con Haendel neppure si pone: anche nelle convenzioni dell’opera seria, infatti, il trattamento musicale è rivoluzionario, originale, di qualità e invenzione sempre eccelsa, laddove il Gluck – che pure è grande compositore (almeno relativamente a parte del suo catalogo) – pare semplicemente riempire di note uno schema prefissato, senza troppi voli e senza troppe convinzioni che non siano quella di sfoggiare le virtù canore dei suoi interpreti. Questo “Trionfo di Clelia”, che conosco nell’incisione discografica (perfettamente sovrapponibile alle recite bolognesi, salvo che per i cospicui tagli), annoia e stanca nella sua sfilza di arie tripartite di cui si apprezza, al massimo, il buon artigianato e – qualora ci fosse stato – la bravura del cantante.
        Concordo invece sull’opportunità o meno di riscoprire questi titoli solo con un cast adeguato, che almeno sappia dare un senso (nell’eccellenza vocale) ad una musica che da sola non vola. Certo se affidata agli interpreti che citi (e a molti altri) nessuno si sarebbe domandato il “perché” della riesumazione… Il fatto è che le cosiddette opere minori (e i compositori minori) necessitano più di altri di esecuzioni impeccabili o quasi, altrimenti si perde il senso di operazioni siffatte. Rodelinda no, è un capolavoro a prescindere, la Clelia del Gluck non riformato, invece, non cammina solo con le sue gambe. Mi chiedo, comunque, alla luce delle valutazioni di quasi unanime critica allo spettacolo, dello scarso appeal commerciale, della non troppo velata questione sull’inopportunità di una tale riscoperta, che bilancio si faccia il teatro che se ne è assunto l’onere. Queste operazioni allontanano il pubblico (anche quello più “colto”) dalle ragioni della riproposta. E poi se si doveva celebrare il teatro (con la sua opera inaugurale) allora si DEVE creare l’evento…non una recita parrocchiale dagli orizzonti ridotti. Almeno “L’Europa riconosciuta” – oltre a vantare un maggior interesse musicale – si proponeva di celebrare in grande stile la riapertura della Scala e per questo era stata allestita.

  2. ieri per dovere (mai come in questo caso ne ho sentito il peso) di cronaca mi son recato a Bologna. L’amico Tamburini è stato fin troppo cauto e generoso nel giudizio, e se lo dico io che passo per “buonista” potete credermi.
    Spettacolo indecoroso, risibile ed irritante allo stesso tempo, direttore para-dilettantesco (nel seno che un dilettante avrebbe fatto meglio) concezione dell’opera settecentesca che nemmeno negli anni 50 all’epoca della Ribetti e di Ennio Gerelli, che invoco come dei filologi ante lietteram a ‘sto punto.
    Cast improponibile laddove ci vorrebbero grandissime virtuose.
    Che senso ha riproporre così l’opera di Gluck?
    Ce lo siamo chiesto in molti l’altra sera…

    • ..e soprattutto, perchè continuare con questa idea peregrina di riproporre un titolo completamente dimenticaso “solo” perchè è quello che ha inaugurato il teatro 250 anni prima? Un idea che aveva già dato risultati micragnosi alla scala 10 anni fa, perseverare è diabolico! senza contare che scegliere aprioristicamente il titolo e poi pensare agli interpreti è semplicemente demenziale.

  3. Ho assistito alla recita di ieri. A proposito del pubblico, ho visto in galleria un solo spettatore, sparito per un po’ e riapparso. Molti posti vuoti nei palchi e diversi in platea. Regia noiosa, inconsistente e incomprensibile. Si salva solo la scena della battaglia sul ponte. Sintomatico che il regista non si sia nemmeno curato di uscire sul palco alla fine.
    Per quanto riguarda l’orchestra, non ho compreso il motivo di tale decimazione degli effettivi, considerando poi che sappiamo esattamente che l’opera nel 1763 venne rappresentata con un organico molto numeroso. Il pubblico ha tributato modestissimi applausi durante la recita, particolarmente alla Schiavo e a Mary-Ellen Nesi. La Schiavo mostra i sintomi del morbo di Kermes, contorcendosi come una tarantolata nello snocciolare le colorature. Sgradevole il Porsenna di Kavayas in seria difficoltà in una parte tecnicamente molto esigente (per vrtuosismo ed estensione), sempre coperto dalla pur sparuta orchestra nel registro medio-grave, e dalla dizione indecente. In questo è in buona compagnia dell’interprete di Mannio, del quale taccio, che è meglio, come diceva il buon Quattrocchi.
    Sono d’accordo con Duprez, riallestire questo genere di opere concepite, come Europa riconosciuta, per intenti celebrativi spinti al massimo della spettacolarità reggono solo se ne viene riproposta la magnificenza visiva e vocale, altrimenti tutto crolla come un castello di carte. E sarebbe ora che i registi si prendessero la briga di leggere e comprendere il libretto, e capissero che l’opera del XVIII secolo è anzitutto lavoro teatrale di quel secolo, non canovaccio per qualsiasi assurdità o sega mentale intellettualoide con sottofondo musicale. La regia d’opera deve spiegare, esaltare e approfondire quel che il libretto (di Metastasio poi, non di un oscuro scribacchino a tempo perso) e la musica esprimono.

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