E’ passato più di mezzo secolo da quando, lasciando Milano, Wilhelm Furtwaengler scrisse agli orchestrali della Scala una lettera in cui li ringraziava per la loro eccellente prestazione in quel Ring immortale, che una registrazione effettuata in teatro ha consegnato alla storia. Una presa non sofisticata come le moderne o quella che la Scala -pare- attuerà in futuro per le trasmissioni radio ( delegando al tecnico del suono il compito di miscelare gli strumenti dell’orchestra e dell’orchestra col palco…! http://visionifuture.corriere.it/2013/05/15/la-musica-della-scala-diventa-multicanale/ ), ma perfettamente in grado di rendere la magia di quelle serate. Il genio dei geni diresse un Ring destinato a restare un unicum assoluto in Italia, alla testa dell’orchestra di Victor De Sabata, unico direttore italiano in grado di rivaleggiare in Wagner con i giganti della scuola storica tedesca. Subito dopo a Milano Wagner fu diretto da Karajan (Tannhauser) ed ancora Furtwaengler (Parsifal) e dallo stesso De Sabata ( Tristan ). Altro mondo, altra Scala e altra orchestra.
Sabato sera i milanesi hanno fatto bene, anche oltre le attese, sotto la guida sicura del maestro K.H. Steffens, che molti hanno sbagliato a considerare un mero rimpiazzo. Ne è uscita una prestazione onesta e professionale, ma nessuna eccellenza, niente di travolgente, semplicemente un buon Crepuscolo. Gli archi hanno mancato da un lato di brillantezza e di intensità nei grandiosi momenti solistici, come nel duetto Siegfried Brunhilde, o nel finale, ma anche nel tenere alta la tensione del dramma. I fiati hanno suonato forse meglio di altre volte, ma anche con imprecisioni sparse, soprattutto nel secondo e nel terzo atto. In generale, un’orchestra che, more solito, è apparsa priva di una vera e propria identità sonora, certamente rodata, ma cui manca sempre qualcosa. Il maestro Steffens è ha diretto con sicurezza, tenendo sempre nelle proprie mani il controllo della serata, che però è andata via alternando momenti di calma piatta, come nell’introduzione del duetto Brunhilde Waltraute o proprio il duetto tra i due amanti al prologo, e sprazzi molto belli, la Marcia funebre su tutti o l’intero finale. Del resto le prove del maestro designate Barenboim in questo ciclo non hanno brillato né per costanza di rendimento né per una speciale qualità esecutiva, dunque non se ne è sofferta l’assenza.
La produzione di Cassiers è l’altra faccia di questo Ring che ha convinto molto poco.
Quando il teatro è ridotto a illuminotecnica, in assenza di regia come pure, più in generale, di una concezione unificante o di una idea interpretativa, che regga e colleghi tra loro le giornate, non si va molto lontano. Il teatro di regia affidato a chi regista ha dimostrato di non essere al punto tale da non riuscire a dare soluzioni convincenti, magari anche dejà vùe, persino ai momenti più importanti, il funerale, il grandioso finale etc., diventa inutile ed insostenibile. Il dramma wagneriano immerge i suoi protagonisti in una natura che pervade la scena e la musica, il Reno, le rupi, la foresta, persino la reggia dei Ghibicunghi, ma viene ridotto da Cassier ad un fondale luminoso, a volte schermato da una parete frangisole, davanti alla quale viene collocata prima la piramide di prismi su cui siedono le Norne e i due amanti, quindi una gradinata, variamente composta, di blocchi opalescenti, che vanno e vengono tra il primo e l’ultimo atto. Il senso incombente della fine risolto col contrasto tra il buio ed i geometrici arredi luminos . Il tutto alternato a momenti di vuoto in cui il regista non sa cosa fare, come il viaggio sul Reno, a scena deserta con quattro mimi-spiriti danzanti in clamaglia nera che si agitano nel buio, o la marcia funebre. La natura romantica è riletta come il continuo moto nel fondale-schermo di immagini astratte e talora antropomorfe, fatte di luci irridescenti, colori e negativi fotografici, insomma, delle sequenze di screensavers abbaglianti che fiaccano il piacere di guardare lo spettacolo con bagliori alla lunga accecanti. I prismi opalescenti sono strutture da Star wars, impersonali e insignificanti, che si fanno osservare troppo dallo spettatore annoiato dal senso di vuoto e dall’assenza di regia sulla scena. Le canne accese che pendono al centro del proscenio una trovata suggestiva che però non basta. Il clima creato da Cassiers è l’opposto della natura o, comunque, del sentimento quasi panteistico su cui Wagner incardina la Tetralogia: è artificiale, del tutto sintetico. Anziché coinvolgere, respinge lo spettatore, nè la regia rende giustizia alla tetra vicenda che conduce alla catarsi finale. Quando la monumentale signora Theorin giunge al proscenio per cantare la prima sezione del suo grandioso finale, immobile, in un bellissimo look biondo da maggiorata tipo Anita Ekberg, si consuma il trionfo del passatismo all’interno del teatro di regia: quattro giornate fatte di poco o nulla si chiudono dimostrando che gli screensavers proiettati sullo sfondo non sono altro che la nostra futuribile ed ingenua rimasticazione della scena dipinta, la quinta fissa, che, una volta, i grandi prospettici riempivano della loro arte, a fare da sfondo al cantante fermo e solitario davanti al pubblico. Abbiamo girovagato nell’illusionismo dei lumen e dei watt, dei neon e dei tungsteni, per ritrovarci….al punto di partenza!?! Un tempo la scena dipinta era l’inganno più alto e sottile, la più abile delle mistificazioni visive che pittori ed architetti sapevano produrre, ne rivestivano anche le città in un teatro urbano in cui lo spettatore veniva coinvolto e disorientato. Oggi, invece, manchiamo proprio di quella forza di persuasione e rapimento, perchè prentediamo di fare teatro con i medesimi effetti che gratuitamente e senza pretesa il nostro pc ci regala ad ogni pausa di lavoro. Come si pensi di coinvolgere od emozionare il pubblico per cinque ore tramite iridescenze e giochi di luce che si incontrano dappertutto, nei led delle discoteche, nei monitors, persino sul cellulare e come questa cifra possa costiuire la mediazione moderna verso il mondo poetico di Wagner è qualcosa che i registi che stanno abusando ogni sera dell’impianto scaligero dovrebbero spiegarci. E’ l’idea che governa la scelta del mezzo di espressione o è questo a generare la prima?…
Il teatro, poi, non può coincidere con la realtà fotografica ma nemmeno con l’astrazione fine a se stessa, che non generi atmosfere o comunque spazi per l’azione, soprattutto se agiscono gli dei e semidei, per noi così rozzi e primordiali, di Wagner e del suo universo nordico. Lo stucchevole bassorilievo calato sulle ultime note del finale, una scultura troppo scolpita per essere simbolica e troppo mal scolpita per evocare davvero quella antica ( piuttosto un grandioso garbuglio di organi di marzapane ) finisce per far sorridere: dopo che sulla scena si è fatto di tutto per annientare l’arcaico mondo della Tetralogia, disintegrati tutti i riferimenti, si vuole rievocare di colpo l’antagonismo con la classicità ? A me è parso un non sense.
Insomma, ancora una volta la Scala più che celebrare l’Anello ed il suo compositore sembra sia servita da ribalta qualificante per un team registico provinciale, che peraltro non ha saputo cogliere la grande occasione che ha avuto per le mani.
Quanto al cast, le cose non sono andate meglio. Su tutti si è imposta vocalmente e scenicamente la signora Theorin, e non perché abbia fornito una prestazione indimenticabile, quanto perché è stata l’unica voce all’altezza del ruolo che incarnava. Le va dato atto, anche, di aver cercato, forse a due con il direttore, di minimizzare gli aspetti notoriamente grezzi del suo canto, e di aver cercato soluzioni più adeguate ad un teatro italiano. Certo, sugli acuti gridati di Brunhilde si è più disposti a transigere che sulla mancanza di legato e di sonorità in zona centro grave, problemi chiave della sua voce, in particolare nei duetti con Siegfried e Waltraute. Ha cercato di cantare piano in alcuni momenti, la seconda sezione del finale soprattutto, ma con il risultato di essere poco udibile perché senza appoggio e la bocca molto chiusa. C’era almeno il volume in zona centro acuta, il che le ha consentito di emergere sugli altri.
Il signor Ryan, Siegrfried, è imbarazzante da descrivere. Voce oscillante al centro, suoni chiocci da caratterista e tutti scoperti, niente acuti, stonature frequenti. Un vero disastro cui si doveva, per onestà, porre rimedio dopo la terza giornata passata e invece il sisastro è stato riproposto.
Watraut Meier come Waltraute è stata la più applaudita, immagino perché amatissima. Voce di volume ridotto, asciutta e senza armonici, risonanze adenoidee in tutta la gamma, non ha avuto modo, dato il ruolo e la pochezza delle esigenze registiche, di esibire alcunché di significativo.
Anna Samuil, creatura dell’Unter den Linden ed il cui eclettico quanto sbalorditivo repertorio vi invito a verificare, è stata una pessima Terza Norna ed un’altrettanto pessima Guthrune. Vocina leggera, male emessa, impossibilitata ad eseguire gli acuti ( i primi, beninteso!) senza sgallinare e sguaiare il suono, è stata la peggiore del cast assieme al signor Ryan. Non possiamo non domandarci come possa affrontare, arrivando la termine della rappreesentazione qualsiasi titolo del repertorio italiano.
Il signor Petrenko Hagen ha riscosso molto successo col suo Hagen truculento e fibroso, perché, assieme alla signora Theorin, ha fatto sentire un po’ di voce, sebbene di emissione per nulla raffinata e con il tallome di Achille nei pochi acuti che la parte prevede, mentre senza infamia e senza lode sono stati il Gunther del signor Grochowki ( che pare un tenore che canta da basso ) e l’Alberich del signor Kraenzle. Fisse e stonacchianti le tre figlie del Reno, voce indietro, ma di buon volume la Prima Norna della signora Nekrasova.
Da sottolineare la cntenuta affluenza di pubblico per questa prima ove si contavano circa 50 palchi vuoti a tre quarti della serata.
Riascoltiamoci l’ultracinquantenne Kirsten Flagstad alla Scala di Milano con Wilhelm Furtwaengler
qualcuno c’era ieri? petrenko ha avuto ancora successo? Sempre se sia riuscito a sentirlo senza apparecchio acustico
Ho avuto modo di ascoltare Petra Lang nel suo debutto in Brunhilde del Crepuscolo qualche mese fa a Berlino e ne ho avuto una discreta impressione…almeno come tonnellaggio vocale, superiore alla Theorin. Spero possa dare risultati accettabili anche in quel di Paris
Io ho visto le prove generali sabato scorso e ti dico che è stata la più applaudita dopo (o insieme a) Koenig. A me però è sembrato che sbandasse non poco in acuto e che fosse vuota in basso. Alcuni acuti, poi, erano corti e un po’ urlati…
Speriamo bene…mi sembra il tipico caso di una voce larga che ha un ottimo mezzo ma che non sempre lo usa correttamente, spoggiando, e ha difficoltà ed è molto lenta a far girare la voce in avanti. Però c’è da dire che almeno la sostanza c’è…e vista la crisi sul fronte voci wagneriane ben venga. Speriamo non si autodistrugga troppo presto