Firenze: “Lo stupro di Lucrezia”. Buon compleanno Britten

Il Teatro Comunale di Firenze ed il Festival del Maggio Musicale Fiorentino si trovano in questi mesi ad un punto di svolta nella loro vita teatrale, che potrebbe compromettere la loro sopravvivenza nei prossimi anni.
Una crisi profonda, finanziaria e lavorativa, maturata nel corso di almeno un quarto di secolo ed esplosa solo ora, con i suoi devastanti strascichi di polemiche, commissariamenti, tagli, che hanno scarnificato la struttura interna, e lacrime, dopo anni in cui il teatro era diventato luogo politico, prima che culturale, anni in cui si è pensato bene di costruire una nuova mastodontica struttura, ancora rimasta incompiuta, ma inaugurata con tutti gli onori, invece di utilizzare gli stessi finanziamenti per fare del bene all’edificio esistente e mettere a riparo i danni accumulati dalle dissennate, distruttive, semplicemente folli e incompetenti gestioni passate.
Anche il pubblico ne ha risentito, disertando gli spettacoli, disaffezionandosi ad un Festival che sente meno più suo, ma ne comprende i gravissimi errori che lo hanno condotto sull’orlo del baratro.
Si favoleggia almeno una nuova stagione, si fanno i nomi di titoli come “Tosca” (ancora?) e “Parsifal”; quest’ultimo vedrebbe l’importante debutto del Maestro Zubin Mehta nel opera wagneriana, ma sono solo voci.
Intanto si guarda alla stagione in corso, e dopo un trascurabile “Don Carlo”, che assieme alla soporifera e inutile “Die Walkure” di Gennaio volevano rendere omaggio ai bicentenari verdani e wagneriani, si è passati ad un’altra celebrazione: il centenario della nascita del compositore inglese Benjamin Britten; e questa volta il teatro ha fatto centro!
Come è capitato lo scorso anno con il bellissimo dittico Bartok, anche nel 2013 vince a Firenze la piccola opera, ovvero la struggente “Lo stupro di Lucrezia” (The rape of Lucretia).
Nonostante nasca come opera da camera supportata da uno strumentale ridottissimo e affidato a solo dodici strumentisti, la sua musica, il testo magnifico di Ronald Duncan ispirato ad Ovidio, Shakespeare, Obey (ma anche Sachs, Du Ryer, Ponsard), le sfumature di uno stile che fa tesoro di Handel (le cantate, i recitativi), Mozart (“La clemenza di Tito”) e certi influssi wagneriani (il flusso continuo della musica, l’uso dei temi), il contrasto tra radici pagane ed un messaggio di altissima cristianità, la rendono moderna e di struggente potenza.

Bravissimo il direttore Jonathan Webb, che suona anche il pianoforte durante l’opera durante i recitativi, e contribuisce in massima parte alla riuscita dello spettacolo, grazie ad una direzione asciuttissima, meno allucinata di quella di Britten, ma più sinistra, molto sensuale, priva di trionfalismi.
Efficaci risultano gli interludi cantati dal Coro Maschile e dal Coro Femminile: lontani da essere solo commenti all’azione, si conformano come un duello etico e morale tra i due osservatori, un confronto tra uomo e donna, uno scontro esacerbato tra due facce della stessa medaglia.
Quelle note dell’arpa appena pizzicate, in piano, mentre l’orchestra le accompagna in un silenzio ovattato e carico di presagi dalla natura pessimista e introduce la scena dell’accampamento, nella quale viene bandito ogni intento grottesco e umoristico della musica, per lasciare il posto al tamburellare nervosissimo dei legni, dei violini, dei fiati; quegli archi così misteriosi durante il monologo di Collatinus; quella marcia interpretata con sottile, amarissima ironia con la quale interviene il Coro Maschile; quell’accompagnamento odoroso di sensualità dipinto dalle viole e dei violoncelli, mentre l’arpa vola leggerissima e che introduce sia le due serve che il personaggio di Lucretia, alla quale Webb regala un sottofondo voluttuoso, esaltazione della moglie si fedele, ma innamorata e dunque piena di brama per quegli ardori femminili che ha assaporato con Collatinus. L’orchestra freme, si scioglie nell’ostentazione femminile insita nella musica britteniana, così da contrastare mirabilmente con la spigolosità dei due cori ed il violento delirio orchestrale che accompagna la scena dello stupro, in un crescendo spasmodico che riempie d’ansia.
Felice il contrasto con le coloratissime evoluzioni della scena dei fiori, ma anche distensione catartica durante l’ingresso di Lucretia e la sua confessione: Webb la descrive attraverso un accompagnamento commosso, ma come catatonico, bloccato dal dolore, con gli archi ed il fagotto che a poco a poco superano il silenzio e aiutano Lucretia a descrivere il proprio disfacimento e la propria morte in un clima di commozione da oratorio sacro o tragedia greca.
Le voci nel finale si accavallano pietose: chiedono, si domandano, cercano di dipanare dubbi insoluti, fanno emergere le colpe politiche di Junius; ed i cori rispondono paragonando il sacrificio cristiano a quello di Lucretia, entrambi accomunati dall’innocenza violata e da una purificazione successiva: entrambi hanno prodotto qualcosa.

Dei cantanti si può ammirare la buona musicalità, l’ottima dizione che permette all’accento ed alle parole di vibrare incisivi, l’ottimo lavoro sulla recitazione ed il grande affiatamento, il che permette agli otto interpreti di coinvolgere il pubblico.
Si tratta, però, di voci piccole o mignon, dai timbri smunti e anonimi, con almeno tre eccezioni, a cui bastano due note del flauto o di pianoforte per essere coperte; capisco bene che per Britten non servano cannoni, ma voci ben proiettate si, che sappiano superare un organico di dodici elementi in un teatrino che è un quarto del Comunale.
Gordon Gietz, il Coro Maschile, è quello più penalizzato per quanto si sforzi a spingere e ingolare il suono, purtroppo si sente poco; tagliente e bianchiccia nell’emissione e nel timbro  Susannah Glanville nei panni del Coro Femminile; al limite con un canto da musica leggera gli interpreti di Junius, Philip Smith, e Collatinus, Thomas Tatzl; terribile poi la voce tutta spigoli, schegge e carta vetrata della Lucia di Laura Catrani.
Meglio invece la linea di canto di Julianne Young, Lucretia di voce chiara e poco a suo agio nei gravi, praticamente parlati, lontano comunque dal contralto prescritto, ma dal timbro attraversato da striature cupree e dolcissime.
Meglio anche il Tarquinius di Jacques Imbrailo, dal timbro suggestivo, ma di emissione fragile.
Molto bene Gabriella Sborgi che nel tenero ruolo di Bianca si ritaglia i momenti più poetici supportati da un timbro contraltile.

Splendido, nella sua marcata semplicità, l’allestimento di Daniele Abbado, nato a Genova nel 1999 e ripreso più volte con successo sia nei teatri dell’Emilia-Romagna, sia all’estero (Madrid).
Una scena divisa da un ponteggio di ferro che ricorda certe creazioni di Pizzi e Friedrich nella sua nudità: in alto i due cori, in basso la storia narrata da Duncan; davanti ad entrambi questi mondi, che dialogheranno tra loro, le proiezioni di Luca Scarzella, didascaliche, ma fedeli al dettato britteniano mostrando con crudezza nazioni in guerra, deportazioni, orrori bellici, fiamme e desolazione, pagine di breviari sfogliati da mani invisibili.
Le luci di Gianni Carluccio (autore anche delle scene e dei costumi), illuminano la scena dei colori ocra per l’universo maschile, azzurri per quello femminile, mescolandoli nei toni e nelle sfumature.
I gesti sono pochi, ma decisi e marcatissimi, da tragedia greca e non sempre le descrizioni dei cori corrispondono scenicamente a ciò che vediamo: al contrario Abbado preferisce creare un’atmosfera sospesa in questi istanti, bloccando i propri interpreti o facendoli soltanto sfiorare per liberare le tensioni emotive ed erotiche.
La scena dello stupro è animalesca: Tarquinius e Lucretia lottano come due creature in una gabbia virtuale; entrambi vogliono prevalere sull’altro, cercandosi, evitandosi, combattendo aspramente su questa piattaforma bianca, un tempo talamo nuziale, che al momento dell’atto, con la violenta vittoria della brutalità dell’uomo, verrà nascosta nel buio di un anfratto sotto il ponte metallico.
Lucretia nel finale prenderà, solitaria, il posto del coro, in alto, e si avvolgerà, al momento della morte, con una corda calata sopra di essa, rimanendo immobile come muto monito di fronte ai protagonisti sopravvissuti, mentre in basso i fiori sparsi dalle due serve per salutare il sole mattutino, saranno gli stessi che orneranno la sua tomba.

Dieci minuti di applausi calorosissimi tributati dal pubblico che riempiva solo in parte il piccolo Teatro Goldoni.

 

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