Teatro alla Scala: La nomina del cappellàn, preludio

Alla Marchesa Paola Cangiasa,
vuna di primm damazz de Lombardia,
gh’era mort don Gliceri, el pret de casa,
in grazia d’ona peripneumonia
che la gh’ha faa quistà in del sforaggiass
a mennagh sul mezz dì la Lilla a spass…….

 

 

Sulla Scala erano da poco calate le ombre del Macbeth, quando Rai 3 ha trasmesso la notizia della cancellazione della recita del 7 aprile per sciopero, finalizzato al dibattito, da parte delle maestranze, sulla qualità scadente degli spettacoli ed alla presenza “a mezzo servizio” di Lissner. Il tonfo del titolo verdiano, infatti, seguiva a ruota i guai tecnici e le polemiche generatesi in occasione della prima di Cuore di Cane ed il flop dell’Olandese Volante. Il giorno 8, poi, la stessa fonte ha comunicato la piena sottoscrizione della prossima stagione da parte del c.d.a. scaligero e l’annuncio che il nome del futuro sovrintendente verrà reso noto entro luglio. A corredo la notizia più interessante, ossia l’esito di uno studio commissionato alla Bocconi per quantificare “l’indotto Scala” sull’economia locale, con un positivo delta per ciascun euro di finanziamento ricevuto dal teatro, a ricordarci, con grande scelta di tempo, che il business lirico ha una sua valenza. Del fattore qualità musicale o “culturale” espressa dalla Scala ( e la “cultura” è ciò che ufficialmente giustifica, muove e genera l’impegno economico pubblico in queste istituzioni e che è ancora la maggior fonte di entrate ) nemmeno una parola…e non è un caso che sia così. Cosa sia ed in quale stato versi la cosiddetta cultura “alta” in ogni angolo del pianeta, lo abbiamo già discusso abbondantemente un anno fa ( http://www.corgrisi.com/2012/05/stagione-scaligera-2012-2013-questioni-di-cultura )
Tutto questo a far da sfondo alla questione importante della sostituzione di Lissner e del suo gruppo di lavoro, implicitamente anche quella dei modi e dei tempi in cui questa avrà luogo. La politica non pare molto interessata alla faccenda, immagino non sapendo che pesci pigliare dato che i politici poco capiscono di teatro,  un acca di lirica. Il consiglio di amministrazione, poi, è composto da persone competenti più in fatto di finanza ed economia che da personalità del mondo musicale o della cultura teatrale in generale.
Gli adepti a questa o a quella parrocchietta ( alcune anche smaccatamente colorate politicamente, more italico ) non a caso si sono riattivati in questi giorni sui media, assicurando che il loro candidato possieda alte qualità dirigenziali, ma, soprattutto, suonando i pifferi per questa o quella bacchetta, che potrebbe sostituire il maestro Barenboim alla direzione musicale.
Leggendoli si ha da un lato la sensazione che il nodo della gestione del grande teatro stia tutta nel soldo, dall’altro che le preferenze per questo o quel nome manifestate da chierici e valletti, che orbitano attorno al teatro siano espressione di questo o quel clan politico-commerciale. Non traspare una sola parola di riflessione su cosa stia accadendo alla Scala, e più in generale alla lirica: lo stato ( scadente ) dell’arte, quali programmi seguire; un qualche riferimento alle problematiche artistiche, tecniche etc di un grande teatro d’opera oggi, men che meno qualche disamina sulle ragioni dei costosi flop seriali della gestione Lissner ( un“ènfilade a la française”! ).
Si parla come se ci attendesse chissà quale futuro musicale, come se vi fossero davvero opzioni, vere e alternative solide; come se le nomine proposte fossero in grado di portare facilmente l’upgrade qualitativo necessario ( e di cui si parla pochissimo ) per mettere mano ad un problema che, al contrario, è complesso, forse anche senza soluzione.
Dal canto suo la politica,  la cui incapacità nel fare è tutta da vedere in questi giorni, si trincera dietro l’abusata formula dei concorsi che, all’italiana, garantiscono una facciata pulita dietro la quale i gruppi, le congregazioni e le conventicole amicali e politiche la fanno da padrone sino ai limiti dell’illegalità. Un bel concorso dove un curriculum è, poi, una cronologia di teatri dove esercitata l’attività professionale e non si entra mai nel merito ( quello in Italia non conta mai! ) delle reali competenze in fatto di amministrazione e di opera, oltre che dei risultati ( o dei danni) conseguiti.
Manca una presa d’atto d’atto chiara di ciò che non funziona, di ciò che può essere considerato una risorsa da tutelare e capitalizzare, come pure una disamina degli sprechi evidenti, che in Scala hanno avuto luogo in questi anni, come delle ragioni della sua crisi, su cui il sistema dei palliativi da anni messi in campo nella lirica non riesce più ad avere efficacia.
E siccome i problemi scaligeri stigmatizzino, sul piano artistico, quelli dell’intero genere musicale, fatto altrettanto taciuto ma di cui è imprescindibile una presa di coscienza da parte di chi gestisce il gioco delle scelte, forse sarebbe il caso di mettere da parte quel “complesso del provinciale” che ci ha portato alla scelta di Lissner e di Barenboim, pensando che all’estero tutto sia migliore, perché quello che abbiamo constatato a Milano, invece, è stata la difficoltà di applicare all’Italia, nell’espressione del suo massimo teatro, quelle che sono le linee guida ispiratrici delle stagioni delle grandi “Case d’opera” mondiali.
Lissner, a mio modo di vedere le cose (dalla parte del pubblico), ha fatto esattamente tutto quello che i sovrintendenti-direttori artistici come lui fanno e sanno fare sul piano artistico, senza essere stato al di sopra o al di sotto dello standard, che caratterizza i grandi teatri di tutto il mondo. Ha, però, speso i nostri denari in una serie di new productions fallimentari inammissibili all’estero, percependo un lautissimo emolumento che ora, lavorando a Milano solo a mezzo servizio, ha di fatto ulteriormente incrementato, col benestare del c.d.a ed in assoluto spregio,  oltre che dell’onestà, della contingente, grave situazione economica.
Ha oggettivamente portato a Milano molte delle superstar della bacchetta, del canto e della regia, tentando di conseguire lo scopo di rompere l’isolamento culturale in cui la gestione Muti aveva precipitato la Scala. Mancavano i nomi, e molti nomi ha chiamato. Ha modificato strada facendo alcune cose sul piano delle scelte dei titoli, abbandonando parte degli originari ambiziosi progetti culturali ( ma anche culturaloidi ) indigesti al grande pubblico, per favorire, seppure in modo ripetitivo e limitato, l’apertura verso il “repertorio”. Si è cimentato, insomma, con le velleità sue come di tutta la categoria di sovrintendenti extralusso da grande teatro internazionale cui appartiene, misurando, al cospetto del pubblico italiano, forze e debolezze dell’apparato ideologico e dei modi di portare avanti il teatro lirico delle attuali direzioni artistiche à la pàge.
Le loro competenze in fatto di opera, nel bene o nel male, sono le stesse, si chiamino Lissner, Pereira, Catona, Mortier, Gelb…E non è un caso che i loro teatri abbiano perso le loro antiche specificità, quell’insieme di caratteri che li rendeva-ciascuno- unici.. Oggi sembrano dei discount di lusso, dove si vende un prodotto standardizzato che deve andar bene ad ogni pubblico,e le coproduzioni al vertice della lirica li fanno assomigliare ancora di più. E’ il remunerato International Style dello star system lirico, con i suoi big più belli che bravi, di glamour, più velleitari che capaci, pubblicizzati, che corrono di qua e di là, ad esibirsi in megaproduzioni clamorose di cui si fa fatica a mantenere il ricordo per più di un giorno. Alla Scala, ultimamente, qualche finale da stadio trasforma l’acqua fresca in “evento”, a ricordare che l’Italia, il paese dell’opera per autonomasia, resiste all’adeguamento forzato al sistema. La “logica del nome” nella terra di  Sant’ Ambrogio e, più in generale, di Totò alla lunga non regge se non si riesce a fare musica, a cantare e ad andare in scena mantenendo alto il livello. Un livello superiore nella produzione che è sempre stato la prerogativa del teatro alla Scala e che non si riesce più a mantenere, mentre il pubblico si lamenta, non applaude e talora reagisce. La sola cosa sorprendente è che in direzione…si sorprendano: tutto è scontato, già scritto prima che la stagione cominci, ma era scritto ancora prima che Lissner arrivasse, perché l’atteggiamento degli italiani verso la lirica non è quello dei paesi stranieri. Il sistema ha cambiato i teatri ma non è riuscito a cambiare in tutto e per tutto il pubblico, ed in quella mancata coincidenza di vedute tra le parti opposte rispetto alla buca si concretizzano i problemi.
Chi è preposto alle scelte sul futuro di questa grande istituzione dovrà, credo, avere ben chiaro se continuare con la medesima filosofia aziendale, i cui frutti, buoni e cattivi, abbiamo visto maturare in queste ultime stagioni, attingendo a personaggi appartenenti al giro dei grandi teatri o a teatri ad esso connessi, oppure rivolgersi ( se esiste ) a qualche personaggio coraggioso e competente in grado di tentare vie almeno in parte alternative a quelle del grande business artistico oggi predominante e di cui la gestione Lissner è rappresentativa. Se possibile ribadisco, date le dinamiche mercantili in atto ed il presente stato dell’arte lirica. La partita, però, è chiarissimo che no si gioca sui titoli concorsuali, sul potere delle majors, sugli esotismi, sulla fascinazione dei nomi ma sul piano delle COMPETENZE, del saper fare, del capirne di opera, dell’avere le idee chiare su ciò che si è, dove si vuole andare e come andarci.
Torneremo qui nei prossimi giorni per esporvi il nostro modo di vedere le cose, ma intanto leggiamoci un po’ del buon vecchio Carlo Porta, maestro non solo di lingua milanese, ma di psicologia umana.

http://www.milanesiabella.it/carloporta_lanominadelcappellan.htm

15 pensieri su “Teatro alla Scala: La nomina del cappellàn, preludio

  1. Quello che giustamente Giulia denuncia nel suo articolo ha un nome preciso: il capitalismo maturo, altrimenti detto globalizzazione. Il risultato di tutto ciò è il pensiero unico. Tutto si fa nello stesso modo, a New York come a Tokio, a Roma come a Milano, a Berlino, a Londra. E questo non solo nel campo della musica e del teatro musicale, ma in tutti i campi. Dovunque si scrive lo stesso romanzo. E’ impossibile distinguere un romanzo scritto in Giappone da uno scritto negli Stati Uniti; se non forse per i nomi dei personaggi. E nemmeno sempre. Ciò che varia è naturalmente il livello dello scrittore, perché per fortuna la scrittura non è ancora in mano ai robot (ci si arriverà senz’altro). Ma l’origine geografica e culturale dell’opera non ha più molto valore. Dovunque si scrive la stessa musica. Per venire al mio ambito di interessi, dovunque si fa la stessa ricerca. Si scrive in inglese, per venire più letti. E tuttavia nessuno mi leverà dalla testa che una persona realmente dotata di talento non potrà mai esprimerlo se non nella sua lingua madre, perché solo così sarà in grado di ridare le sfumature di cui è capace. Il suo scritto sarà letto da un maggior numero di persone; ma ciò che sarà letto sarà incommensurabilente più povero di quello che avrebbe potuto essere. E la cosa significativa è che ciò colpisce i talentuosi, non i mediocri. In questi ultimi il contenuto infatti è quello che è, esprimibile in qualunque modo. In chi ha talento invece il contenuto è capace di sprigionare da sé infinite vibrazioni; ma per fare questo ha bisogno della sua forma originale. Così è per la musica e il teatro. La circolazione indiscriminata e selvaggia e senza freni di capitali e merci ha avuto l’effetto di ridurre tutto a merce; e le merci, si sa, sono tutte uguali, sono misurate con il denaro e non con l’uso che se ne può fare. I teatri d’opera sono merce; vi si propina la stessa lussuosa minestra, senza che i sapori rimandino a qualcosa di distinguibile. Il secondo dopoguerra ha iniziato questo processo. Un processo che non è stato instantaneo, che si è affermato a poco a poco; ma che, con l’andare del tempo, ha finito con il travolgere tutto. L’Italia da questo punto di vista è stato ed è uno dei paesi più favoriti. Rimangono in Italia alcune sacche di resistenza. Per esempio, nell’economia; economisti critici come Bagnai, Cesaratto, Brancaccio, De Cecco sono grandi nomi, che si oppongono alla deriva reazionaria di quelli che un tempo furono i partiti di sinistra. Non c’è nulla di simile in Germania, paese che, in preda a spaventevoli rigurgiti leghisti, sperimenta una decadenza culturale ormai senza freni, forse la peggiore e più desolante dell’intera Europa. Nella musica, chi sa. Rimane il fatto che la cosa più bella che ho ascoltato in questi uiltimi mesi è stata “Napoli Milionaria” di Nino Rota, a Lucca e a Livorno. Un’opera veramente interessante, anche se certo non il sublime capolavoro di cui alcuni hanno favoleggiato. E che ha goduto di una bellissima esecuzione, guidata da uno splendido direttore d’orchestra, Matteo Beltrami, con una messa in scena tanto vivace quanto rispettosa di Sparvoli. Cantanti eccellenti, professionisti modesti e straordinari insieme. Una boccata d’aria. Comunque, si tratta di fatti isolati, che non intaccano la problematica generale; che è storica e politica.
    Marco Ninci

  2. Grazie, caro Donzelli. Di questo accordo dovrei forse preoccuparmi; mi fa invece un grande piacere. Per ritornare a quanto si diceva. Qualsiasi articolo di un qualunque critico musicale di oggi, sulla carta stampata o sul web, non soffrirebbe affatto da una eventuale traduzione in inglese. Proviamo invece a immaginare tradotto un qualsiasi scritto tratto dai “Casi della musica” di Fedele D’Amico o da “Mille e una sera all’opera e al concerto” di Giorgio Vigolo; ne uscirà un mostro. Qualcosa vorrà pur dire. Vorrà dire che in quella prosa c’è un’attitudine creativa che è figlia della resistenza a qualsiasi tentativo di appiattimento.
    Marco Ninci

  3. dal mio punto di vista e per la mia esperienza professionale ( e sei tu il primo che me lo ha scritto anche troppe volte) un italiano semplica, chiaro e poco farcito di avverbi ed aggettivi giova a chi legga e soprattutto alle tesi di chi scriva. Quanto alla ricerca ed allo studio da tempo ed in ogni campo anche quelli che non sono miei, se non per hobby, il motto sembra essere “VORREI DIR MA NON OSO”, tanto per utilizzare con profitto il librettese. Quando mai troveremo qualche studioso che affronti che so Cicerone filosofo, piuttosto che la produzione di Meyerbeer. Ho letto e lo commenterò presto un libro informatissimo sino alla bizantina minuzia sulla vita e carriera di una famosa cantante. Dalla marea di notizie non una conclusione. Insomma compilazione pura…..
    chiudo con lo sfogo

  4. D’accordo con i commenti, abbiamo banchizzato e monetizzato tutto, e quando la perversione monetaria del profitto, intacca l’arte e la sua fruizione, è la fine della cultura e dello sviluppo spirituale della società.
    Il mondo mondialista ormai alle porte è il trionfo di tali logiche…..dove andremo a finire……tempi di nuove barbarie con diceva Ortega

  5. dall alto della mia grande esperienza e del mio straordinario buon senso e nell ottica d creare una discontinuita’ rispetto all omegeneizzazione giustamente criticata da Ninci consiglierei d analizzare quanto prodotto a venezia dalla direzione artistica d serge segalini passando per ortombina fino alle sovraintendenze d vianello e chiarot. La Fenice e’ un po’ decentrata e fuori dai giri ma a livello d allestimenti e produttivita’ mi pare ancora espressione del genio e operosita’ italiana

    • forse più che accontentare me, che conto niente c’è da accontentare le esigenze di meyerbeer e della sua scrittura vocale in un titolo che vedeva schierati la stessa sera Pasta, Pisaroni, Sontag, Donzelli

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