I problemi che affliggono il canto e la direzione d’orchestra nella lirica di oggi a Milano sono emersi in modo evidentissimo: i silenzi glaciali dopo le arie, gli applausi fiacchi o di buona educazione parlano più dei bu e dei fischi, ed il repertorio ha puntualmente denudato il re. La Scala anche in questo riflette in pieno le dinamiche interne al mondo dell’opera che ha portato, nemmeno poi tanto lentamente, all’estinzione dei cantanti. Aver cristallizzato l’adagio “ non ci sono più cantanti, che vuoi fare? ”, senza aver mai fatto niente di niente, nemmeno porsi la domanda “ ma perché non ce ne sono più?” ci ha portato a questo punto, ossia ad obbligare il pubblico a predisporsi, bocca aperta ed imbuto nel becco, ad ingoiare ogni cosa con rassegnazione. La questione più spinosa sta proprio qui, perché mentre alla politica degli allestimenti inadeguati si potrebbe metter rimedio parziale scegliendo con maggior attenzione sia il nuovo che le riprese di ciò che è ancora valido, i cantanti del passato….non possono risorgere. Schiacciamo il tasto del reset.
Ci sono varie e concomitanti ragioni per spiegare il declino del canto, ma non credo sia il caso, data la molteplicità delle considerazioni emerse in questi anni sul nostro Corriere, di spendersi in un’analisi che sarebbe per forza di cose incompleta.
Diciamo che i modi del canto cosiddetto “di scuola”, o di tradizione, si sono progressivamente estinti coll’andare del secolo scorso, a partire dalla corda di basso, quindi da quella di baritono, poi il mezzosoprano, il tenore sino ad arrivare oggi ad intaccare quella sopranile. La belcanto renaissance, in realtà, fu un breve ma magico periodo all’interno di un ‘inflazione già completata del canto wagneriano prima e di quello verdiano più o meno negli anni della comparsa dei grandi belcantisti americani degli anni ’80. Oggi, piaccia o no questa enunciazione che troverà presto un’anamnesi più strutturata e sistematica in altra sede, siamo di fronte ad un orizzonte popolato essenzialmente da “grandi vecchi”, cioè cantanti in declino più che completato, e da una popolazione di giovani epigoni, molti dei quali imitatori più o meno caricaturali, generati della copiatura discografica (quando non della parodia evidente) di questo o quel grande del passato recente. Questi sono tutti accomunati dall’esser privi dei corretti fondamenti tecnici per potersi garantire una carriera solida e duratura anche solo tra le file di quelli che un tempo si chiamavano “i solidi professionisti” ( dichiarazione della Devia…). Professionisti che, una volta, popolavano le seconde file, ossia i secondi cast dei grandi teatri come i cartelloni dei teatri di provincia, territorio sano della buona routine, che consentiva ai giovani di farsi le ossa ed eventualmente di evolvere verso le sedi di vertice. Un meccanismo più o meno imperfetto inceppatosi ad un certo punto, grosso modo nello stesso momento in cui il managment artistico dalle mani di pochi e selezionati personaggi che la sapevano lunga in fatto di talenti vocali è trapassato in quelle di “mercanti” veri e propri che alle bistecche, alle spazzole, alle scatolette ed alle enciclopedie hanno affiancato i cantanti lirici. Col crescere del cotè intellettuale ed intellettualoide dell’opera lirica è di pari passo cresciuta l’importanza dell’immagine e del talento attoriale a tutto discapito delle capacità canore per lo sviluppo abnorme delle componenti registiche e sceniche dell’opera. Del resto, l’arte del canto resta per forza di cose incompresa e messa da parte quando chi sceglie, il manager e poi il d.a., non possiedono la dote fondamentale che occorre per distinguere un bravo da un cattivo cantante: l’orecchio, che dovrebbe essere considerata una dote equivalente alla voce e fondamento per lo svolgimento di una carriera da casting manager o d.a.
Nel giro di 20-30 anni si è creato un vuoto culturale così profondo nell’ambiente che questa antica arte di origine barocca è ormai prossima all’estinzione, vuoi per ragioni tecniche ma anche e soprattutto perché si sono estinte, ad ogni livello, la capacità di ascolto, la sensibilità per il suono correttamente emesso e per il fraseggio. Questa, considerato troppo a lungo un non-problema, è invece la questione centrale e non solo per il pubblico che sta in sala ma anche per chi opera la scelte delle voci, ad ogni grado, dalla fase dei concorsi a quello della formazione di un cast, e prima ancora dei didatti. Ci sono fior di maestri celeberrimi che scrivono cose del tutto condivisibili ed in linea con la tradizione del passato, che poi all’atto di proporre modelli vocali e di corregger gli allievi dimostrano di possedere una competenza tutta letteraria e di essere incapaci di sentire. Ci sono fior musicologi e di storici della vocalità in grado di scrivere cose esatte e veritiere in fatto di storia del canto ( e alludo qui non tanto a quelli italiani ma a recenti letture da noi compiute di autori di lingua tedesca sulla storia del canto wagneriano ) che non appena approdano all’analisi del canto degli anni ‘70-‘90 del secolo scorso si producono in affermazioni inverosimili e gravissime avvallando i peggiori tra i peggiori cantanti di quegli anni, non so se per piaggeria o per sordità manifesta.
Tale perdita di “sensibilità sonora” tocca poi i cantanti, che ormai dimostrano, più che di non sapere cantare, di ricercare lucidamente un tipo di suono esattamente contrario al buon canto ( penso alle voci artificiosamente scurite, a quelle accentuatamente ingolate o a quelle dominate dal senso dello sforzo etc..) che era quello della voce gergalmente definita “libera” dal corpo, che dà a chi sente l’idea di extracorporeità esattamente come a chi la emette. Dominano ideologie circa “il colore scuro”, la “potenza”, la “grandezza” della voce che si trasformano, in forza dei modelli offerti dal disco l’apprendimento del canto in un percorso di alterazione del proprio mezzo naturale per renderlo simile alla voce del proprio idolo, fenomeno da sempre stigmatizzato dai grandi maestri del passato che insistevano sulla necessita di cantare con la propria voce senza tentare di artefala. Si sono affermate, così, delle vere e proprie scuole di malcanto, palestre di latrati, fucine ove le gole e i talenti finiscono poi bruciati o compromessi, luoghi in cui si allevano ipocondriaci allievi afflitti anche da patologie professionali causate dalla cattiva impostazione, che licenziano allievi che avranno un futuro professionale sin tanto che la “dote” consentirà loro di aprir bocca per arsi udire, senza però mai divenire dei cantanti veri e propri. La tradizione aveva messo a punto un sapere tecnico unitario, perfezionato empiricamente quando la foniatria ancora non esisteva e che consentiva ai cantanti di cantare senza fatica e di durare a lungo, sviluppando la duttilità, l’estensione, le capacità acrobatiche della voce in modo fisiologico e non lesivo degli organi del corpo. Oggi il canto è diventato astratto macchinismo, una fisiologia cervellotica che insegna agli allievi a pensare a laringi e faringi, a “sentire” le parti di una gola che non si deve mai sentire ( Joan Sutherland ) né si deve far sentire a chi ascolta, perché anche un non udente può blaterare all’allievo in termini fisici anziché …sonori. Parlare di canto è parlare di suono, di qualità sonora. E non c’è suono senza orecchio che recepisce, l’uno presuppone l’altro ( e non certo un medico fonoiatra, che cura, ma che non è un didatta né un melomane ).
L’indifferenza per la componente vocale, quando non un vero e proprio gusto per il malcanto ( penso prima all’antica questione, mal posta e malintesa, dello Sprechgesang con le sue devastanti conseguenze sul canto wagneriano, sino all’attuale moda “baroccara” per le voci fisse, asfittiche, volutamente divise in due tronchi diversi, passando per certe mode estetizzanti della fine del secolo scorso come il delmonachismo o il corellismo tenorili ) hanno fatto perdere la capacità di associare alle voci anche il rispettivo repertorio di elezione. Ormai tutti cantano tutto, in una generale anarchia vocale dove i modi esecutivi si confondono su e giù per i secoli da un compositore all’altro, mentre i caratteri dei personaggi, dal tragico al comico, finiscono per confluire in qualcosa di indistinto che non è nemmeno più una genericità dell‘accento, quanto, piuttosto, una perdita di significato e di identità di ciò che si esegue. Del resto la trasformazione della cultura in mercato dell’arte, in business, ha fatto spazio ai commercianti a discapito delle figure del direttore artistico o dell’agente, che coltivava l’evoluzione di un talento. Il commercio ha regole monetarie, innesca rapporti di potere tra cantante e manager, tra manager e d.a., mette in gioco il fattore economico in modo prepotente, ed in surroga valori quali la popolarità, magari anche fuori dall’opera, oppure l’immagine di un cantante, il “nome” come sintesi della proiezione di molteplici valori, oggi come oggi sempre più extravocali e sempre più commerciali, di banale gradimento esteriore per le masse impreparate ( ricordiamoci che oggi la “cultura” mantenuta dalla pubblica finanza mira ai numeri, ossia ai turisti, non certo alle nicchie dei competenti esperti ). L’artista è un prodotto, e come tale viene smerciato, secondo un doppio binario, quello della gioielleria ( lo star system ) e del discount ( tutto il resto ).
Il talentuoso d.a. che intravedeva in un cantante l’interprete ideale per un suo progetto musicale, oppure l’agente che riconosceva un grande talento vocale e se lo prendeva anche se “brutto”, o “grasso”, sono spariti, sostituiti da competenti esperti di look, di glamour, oppure da collezionisti di reparti vocali commerciabili che hanno parchi voci occupati da pedine. Con loro è sparita poi anche quella figura chiave e fondamentale nella preparazione del cantante lirico che era il maestro preparatore, il pianista cosiddetto “ripassatore” che insegnava non solo il solfeggio ma che era in grado di correggere e suggerire con competenza tecnica, stilistica oltre che di voci, soluzioni espressive, modi di risolvere i passaggi più impervi, mantenendo viva la conoscenza della tradizione dei grandi esecutori precedenti. Costoro operavano in una fase decisiva nel privato dei loro studi ma anche e soprattutto in teatro, mentre si provava uno spettacolo, ed avevano competenze così solide ed un professionismo tale da rappresentare dei filtri veri e propri a tutela della qualità esecutiva finale. Oggi la sensazione è che tutta questa fase manchi, che i giovani poi concludano lo studio di una parte col solfeggio, a ridosso delle recite ( e noi come Corriere potremmo indicare un caso clamoroso di celebrità che a ridosso delle prove in Scala domandava agli amici di facebook una copia pdf dello spartito dell’opera che andava a provare e che dichiarava di non conoscere ancora e che noi abbiamo provveduto ad inviare… ).
E’ chiaro che oggi, senza glamour o certe capacità comunicative, soprattutto essere dotati di appeal video sul pubblico, senza una caratteristica specificamente riconoscibile, come una certa riconoscibilità timbrica ( non importa se vera o artefatta ), o un certo volume, o una certa specifica abilità (che è altra cosa dall’essere un cantante completo che sa manovrare la voce con saldezza ed in modo ortodosso in ogni registro), o la costruzione di un cotè intellettuale (vero o falso poco importa ) non si viene presi in considerazione. Tutto ha da essere “fenomenico”, ossia occorre avere un qualcosa che colpisca con evidenza, anche e soprattutto fuori dall’arte del canto: la voce maschia di Kaufmann (che unita all’appeal fisico fa di lui una top star); la voce grande della Rodvanovsky; l’eleganza salottiera di Florez ( più volte mi sono chiesta quanto sarebbe piaciuto se fosse stato grasso…); la scoppiettante ed intelligente positività della Di Donato; l’entusiasmo filologico della Bartoli; il timbro gigliesco di Alvarez..etc. Queste star hanno qualcosa che deve arrivare al pubblico prima ed in misura maggiore del canto, come se questo non esistesse, o non contasse, o non fosse recepibile, perché in realtà questo viene depositato su di loro negli uffici dei teatri e dei managers, ove le carriere si costruiscono, ed in sala, ove trovano la loro prestabilita verifica. Non si parla di canto nelle recensioni, se non in modo marginale, mai analitico, perché di canto non si parla da anni, sui media e negli uffici. C’è un regista che spesso mette l’ultima parola sul cantante che si deve scegliere, oggi più che mai anche oltre i direttori d’orchestra.
L’espressione “servire l’autore” indicava un atteggiamento preciso verso lo spartito, che doveva essere “eseguito” secondo gli intenti dell’autore, interpretato in accordo con gli intenti dell’autore e con i margini di libertà che questo attribuiva all’interprete. Rappresentare, restituire, interpretare erano le componenti del cantare secondo tradizione. Una tradizione conosciuta in tutti suoi retaggi e significati anche arcaici. Oggi sul testo viene calata una sovrastruttura indipendente e solo modernizzante da parte di chi ha le redini di una produzione, che spesso nulla ha a che fare con l’opera originaria e/o da parte di chi ignora l’opera, registi ma anche direttori d’orchestra. Il cantante, in parte per i limiti professionali dei cantanti di oggi, in parte per questa nuova modalità di andare in scena, restano schiacciati e svuotati del loro ruolo di esecutori ed interpreti VOCALI. Interpretano, se possono, recitando col corpo, quel corpo che le regole del ben cantare presuppongono fermo e piuttosto rigido per poter governare la pneumatica del fiato e che oggi sistematicamente vengono attaccate dai registi, mentre questi non possono più interpretare con la voce, anche volendo. Il recitar cantando è sparito, annientato dalla diffusa incapacità di fraseggiare ed internamente compensato dal recitare col corpo ed oggi, nel regno dell’HD, anche con il viso, alla ricerca di emozioni e fascinazioni espressive figlie del mondo del cinema e non della musica lirica. Si è cambiato il linguaggio dell’opera, che per forza di cose non è più opera ma…..feticcio. E non è la Grisi che si inventa questo stato dell’arte: esso è sancito dal pubblico, che non è più in grado di riconoscere il bravo cantante in virtù dei soli meriti vocali. Se c’è suono, ci vuole un orecchio che ascolti. Oggi i cantanti, ridotti ad automi dal teatro di regia spinto oltre i limiti dell’adeguatezza al genere, non possono essere uditi se cantano. Devono urlare, strillare, parlare, recitare, fare cabaret, di tutto, ma non possono “cantare” nel senso tradizionale del recitar cantando perché il pubblico non li può udire. Potrei trovare esempi estremi ed imbarazzanti del presente, di indifferenza ad orrori evidenti come pure, all’opposto, a buone prove vocali che non hanno suscitato le reazioni adeguate al canto. E questo è il segno peggiore dell’estraneità che abbiamo nei confronti della lirica. Ad ogni modo il business si inceppa anche laddove si è accettato il guasto organico del cantar male ed alludo al problema dei forfait, che minano l’effettiva messa in scena delle produzioni così come progettate. Le stars oggi praticano unitamente al canto la cancellazione, per dribblare impegni non onorabili o per rallentare la pressione generata da un ritmo che non possono fisicamente sostenere. Le malattie reali sono assai più rare di quelle inventate. I forfait non si sono avuti solo a Milano, ma anche in tutti gli altri teatri del mondo ( basta legger le polemiche viennesi ), solo che qui la tolleranza è apparsa un po’ troppo alta ( e questo vale anche per le bacchette ). Le lamentele del pubblico hanno trovato eco proprio in questi giorni in cui si sta decidendo il futuro del tempio milanese nella denuncia autorevole di Antonio Pappano ( uno dei pochi interessato alla lirica ed al canto ad onta delle scelte poi operate in sede di registrazione ), che ha apertamente parlato della difficoltà di progettare gli eventi a causa di questo costume che tocca soprattutto i giovani, causa la loro scarsa preparazione, e la polemica è rimbalzata in un blog ove è stata poi discussa da pubblico ma soprattutto da cantanti e direttori d’orchestra (http://www.artsjournal.com/slippeddisc/2013/03/antonio-pappano-young-singers-are-cancelling-on-us-more-than-ever.html e http://www.artsjournal.com/slippeddisc/2013/03/only-on-slipped-disc-the-mets-conductor-responds-to-antonio-pappanos-singer-outburst.html). Si è sviluppato finalmente un dibattito molto accesso ed affollato di partecipanti dove, mentre le opinioni sulle cause del degrado del canto attuale non sono state affatto concordi, nessuno ha discusso l’assunto di base, ossia che non ci sia più una cultura del canto e che l’opera stia morendo per assenza di esecutori. La limpida analisi postata da Dolora Zajich, in scia a Pappano, sul modo in cui i giovani studiano e vengono istradati alla professione è assolutamente inconfutabile ed è arrivata a pochi giorni di distanza dalla denuncia di un suo grande collega, R. Blake, sui meccanismi che si instaurano nei grandi concorsi di canto ove si perdono le voci più interessanti, a causa delle posizioni ideologiche in fatto di canto dei casting managers dei teatri e delle modalità didattiche odierne sintetizzate nella formula “factory teaching” (http://www.rockwellblake.com/blog/2013/02/02/barcelona-and-friends/).
Mentre la quasi totalità dei siti web o dei forums operistici è pervasa da una forte volontà di adeguamento a questo sistema distorto ed alle sue icone sostenute e sponsorizzate in forza di categorie metavocali e metartistiche che vanno a coagularsi nel concetto, vago ed indefinito, di “personalità artistica”, di colpo sono i professionisti della lirica che dissipano il fumo delle chiacchiere aprendo un dibattito che tocca il nucleo più profondo del malfunzionamento del sistema.
Tutto ciò può continuare ad essere ignorato e taciuto nella scelta delle guide future al teatro alla Scala, o forse chi deve operare la scelta di tutto ciò non ne capisce nulla o ignora un fenomeno che è di rilevanza massima per un teatro lirico?
In sintesi, il sistema ha agito nel settore che per primo è andato in crisi con varie forme di doping, dall’arte registica alla pubblicità, ai microfoni, alla strumentalizzazione della filologia, per tappare le falle di un canto sempre più scadente, senza iniziare per tempo a domandarsi come porvi rimedio. Perduta la sensibilità verso il suono correttamente impostato si è persa di fatto la possibilità di cantare e di produrre cantanti, perché la sala non è più la palestra sonora ove si capisce ciò che si deve fare, si matura un senso del suono, si capisce cosa siano la risonanza, la proiezione etc.. Al canto è stata negata, da un certo momento in poi, lo statuto individuale di arte, mentre alla tecnica di canto è stata tolta la centralità di posizione nella costruzione di un cantante come in nessun altra espressione artistica si è dato, pittura, architettura, arti applicate etc. Le responsabilità in questo sono molto precise, tutte saldamente fondate in una visione ideologica e deviata dell’opera lirica, che si è voluto intenzionalmente trasformare in altro da sé.
Alla Scala i flop, le serate afflitte da imbarazzanti silenzi e miseri clap ancor più di queste contestate, non sono giunti per caso: il repertorio, Verdi, Wagner e il verismo in particolare, hanno lasciato il re nudo come già era accaduto nell’era Muti, con proporzioni adeguate alla gravità del fenomeno. Oggi alcuni dei suoi cast sembrerebbero un lusso, mentre in assoluto non lo erano affatto.
Le nozze coi fichi secchi sono un affare complesso da gestire, soprattutto se chi organizza difetta nelle capacità uditive e di canto capisce poco o nulla. Dunque, pensare e sapere individuare non tanto l’uomo dotato di una sensibilità comprovata nel canto, ma almeno il meno incompetente e che abbia dato prova di un minimo buon senso, pare la prova più ardua per chi sceglierà il Cappéllan della direzione artistica della Scala. I cantanti non ci sono né si inventano, né è compito di una direzione di grande teatro. A quella spetta però il ripristino di un criterio antico, ossia la scelta dei titoli in relazione ai cantanti di cui si dispone, la sensibilità di intravedere in colui che abbia qualche specifica qualità spendibile un ruolo nuovo, magari anche obsoleto ma che dia luogo ad una prestazione canora migliore, la migliore possibile. Una d.a. più autorevole, capace di non essere condizionata dalle grandi agenzie e di meno servile verso questo star system così incolto in fatto di voci, che chiami le star su ruoli adeguati a loro ( penso a come è stato gestito il debutto di una Netrebko, prima ancora di una Fleming ) e non su prove velleitarie o inadeguate. Le prove, poi, dovrebbero tornare ad essere gestite come in passato, quando i cantanti arrivavano e le prime fondamentali verifiche avevano luogo in sala prove con pianisti e bacchetta, in voce, per dare forma ( la verifica in un mondo di seri professionisti era implicita ma non così necessaria come oggi ) alla prestazione vocale definitiva; superata la prova musicale allora si accede a quelle di regia, e non il contrario, quando all’antigenerale si scopre magicamente l’inadeguatezza di qualcuno del cast.
Trovo gravissimo che il teatro sia stato utilizzato in più di un’occasione come trampolino per il lancio di allievi di accademia collocati su eventi di primaria importanza o a reggere prime importanti dove la star di turno aveva dato forfait: che un teatro tanto importante sia stato strumentalizzato allo scopo di fornire un upgrade utile all’invenzione a tavolino di “rising star” ( che resteranno poi sempre rising come la prova del teatro ha crudelmente dimostrato) oppure che si sia mendicato il consenso del pubblico mandando sotto un giovane fragilissimo su una prima burrascosa, sono comportamenti che si spera vengano stigmatizzati al momento della chiamata di una nuova d.a.
Gli eventi scaligeri, pochi rispetto ad altri teatri di pari livello, hanno avuto anche sul piano del casting una rilevanza più evenemenziale che vocale, che ha fatto acqua da molte parti. La star dell’opera incespica anch’essa sul repertorio, dove si rivela non all’altezza di quelle del passato, mentre certe corde, scoperte di fatto nel mercato delle voci anche ad alto livello, non hanno trovato soluzioni apprezzabili o all’altezza degli impegni. L’evento è nell’apparizione dell’icona, meno, molto meno nella qualità del suo lavoro. Del resto, sparita la provincia, ci ritroviamo con un mercato delle voci talmente scadente che i big molto spesso sono equivalenti agli artisti di secondo piano, o di secondo cast. L’upgrade nelle prestazioni vocali consiste più nella freschezza di una voce, nella dote non ancora intaccata dall’usura, che non dalla sapienza tecnica e dall’arte di usare il proprio mezzo. Si canta generalmente male, e laddove il pubblico è ancora in grado di apprezzare il canto in sé per sé, “l’aura”, per dirla con Benjamin, costruita attorno alla star risulta ininfluente ed inattiva, quindi la magia del grande successo non si verifica.
Forse una politica di maggiore attenzione e distinzione tra le reali ed oggettive qualità dei cantanti condotta con indipendenza di pensiero e competenza rispetto ai commercianti delle agenzie potrebbe consentire di prendere in considerazione chi ha qualche qualità non apprezzate o rilevate dai potenti dello star system. Libertà ed indipendenza di scelta fuori dalla dorata routine delle majors alimentate dall’”orecchio” di cui parlavo prima ( se qualcuno ancora ne ha ) e magari coadiuvate da qualche attento preparatore ( ammesso che se ne trovi ancora qualcuno ), oltre che da una bacchetta disponibile ed interessata al canto, che collabori alla preparazione della performance.
Sono assolutamente certa, e con me i miei collaboratori, che tutto questo cadrà nel vuoto, non tanto perché inascoltato, quanto perché inascoltabile da chi, da troppo tempo, si occupa di opera senza capire nulla di canto. Il canto, noi crediamo, potrebbe rivitalizzarsi solo attraverso un lavoro intensissimo, lungo e paziente e a patto di essere gestito da personalità del tutto diverse da quelle che sinora hanno retto e governato la lirica degli ultimi 30 anni.
Era però doveroso che noi scrivessimo come stanno le cose.
Che senso ha per un giovane studente mettersi a studiare quotidianamente e impegnarsi se poi ascolti una diretta dal met dove una Deborah Voigt stracotta si prende ovazioni da un pubblico in delirio… chi glielo fa fare?
lo muovo la stessa forza che spinge i melomani a sottoporsi a certi spettacoli…..la maggior parte direi.
Più che altro mi domando che futuro pensa di costruirsi perchè secondo me è questione di tempo…..poco tempo…..
Penso che si debba lavorare bene (in generale, non solo nel canto) in primo luogo per se stessi, per la propria soddisfazione personale, e poi perché, in assenza di “appoggi”, ad es. fama pregressa e amici potenti, è l’unico modo per tentare di emergere e soprattutto durare più di una stagione. Ma forse sono un visionario.
La stessa domanda che mi faccio io:
– perché studiare ogni giorno?
– perché ricercare un suono appoggiato e sostenuto?
– perché ricercare tutti i registri?
– perché ricercare l’omogeneità in tutta l’estensione?
– perché ricercare facilità nel passaggio?
– perché ricercare un suono alto che naviga nello spazio?
– perché cercare degli acuti facili e brillanti?
– perché cercare di fare le cose con meno fatica possibile?
– perché studiare dal metodo del Garcia o da “Un’ora di studio” della Viardot?
– perché studiare le arie prima di tutto come vocalizzi per “interiorizzarle” e permettere poi di eseguirle senza intoppi aggiungengo le parole?
– perché cercare, comporre e studiare nuove cadenze sempre diverse?
Sono i perché che mi domando ogni giorno!
Non so.
Non credo sia solo un problema di “indolenza” o “svogliataggine. Credo ci siano un sacco di aspiranti cantanti desiderosi di seguire la retta via e volenterosi di farlo che però si perdono per colpa di cattivi esempi e peggiori maestri
Complimenti a Sardus, ogni sua domanda è una perfetta risposta.
Il tutto si potrebbe forse concentrare in una sola parola, rispettandone però tassativamente il significato senza eviazioni : essere un “cantante”.
Scusate l’ errore di battitura, invio di nuovo.
Complimenti a Sardus, ogni sua domanda è una perfetta risposta.
Il tutto si potrebbe forse concentrare in una sola parola, rispettandone però tassativamente il significato senza deviazioni : essere un “cantante”.