Mentre ci annoiavamo all’Oberto scaligero uno dei Grisini, giovanissimo e quindi dalla consolidata attitudine a navigare, ha trovato la scenografia di Scarface modello e paradigma di quella montata sul palcoscenico del Piermarini.
Qualcuno commenterà che i Grisini non ascoltano e guardano l’offerta kulturale scaligera con la doverosa attenzione, replico che, invece, vanno a teatro con lo stesso spirito filologico con sui si andava all’epoca della prima esecuzioni di titoli come Oberto e coevi. Credo, inoltre, che nel 1839 uno spettacolo simile a quello offerto (rectius propinato dalla Scala) non sarebbe arrivato alla fine e se tale circostanza si fosse verificata non vi sarebbe stata seconda replica. Ma questa è pura illazione e come tale la casso. Ma la somiglianza per ricorrere ad un pietoso eufemismo della scenografia progettata da Sergio Tramonti al famoso film Scarface (somiglianza, apprendiamo da più illuminati frequentatori del teatro ambrosiano, esplicitamente evocata in apposite interviste dagli stessi responsabili della parte visiva dello spettacolo) mi ha ispirato un gioco o meglio una chiave di lettura per lo spettacolo di ieri: “Cerca le piccole differenze”. Più che una recensione una proposizione ludica.
Prima differenza:
Differenza fra il debuttante e la produzione media coeva. In fondo la differenza meno interessante perché è chiaro che il debuttante, oltre tutto non genio precoce (ne aveva 26, età in cui Rossini metteva mano ad Armida e Bellini a Norma) si rifacesse agli stilemi orchestrali e vocali correnti e di rango medio al tempo. Se poi vogliamo cercare una somiglianza ieri sera oltre a Donizetti (e persino un brano rossiniano famosissimo come il terzetto del Ricciardo qui riecheggiato per il trio Oberto-Cuniza- Leonora) ci trovo tanto Giuramento di Mercadante (prima rappresentazione proprio in Scala nel 1837) soprattutto nella vocalità e nelle situazioni drammatiche riservate alle due protagoniste femminili, che intonano un andante all’atto secondo che riecheggia il famosissimo “Dolce a quest’alma oppressa” di Bianca ed Elaisa.
Seconda differenza:
prendiamo le esigenze direttoriali o di concertazione di un melodramma del 1830-1840 di genere cappa e spada e prendiamo che so la direzione di Ernani di Mitropoulos o di Giovanna d’Arco di Levine, ma anche i Puritani o i Capuleti di Campanella in vari teatri italiani in epoche non remotissime e poi quella di Riccardo Frizza. Facciamo anche la doverosa tara che l’orchestra scaligera
suona con scarsa cura del suono e che gli ottoni, a partire dalle prime battute della sinfonia, spernacchiano e poi? e poi abbiamo un accompagnamento costantemente metronomico e sul mezzo forte fatto salvo un qualche clangore al finale primo ed un peso alla prima sezione dello stesso numero “a quell’aspetto un fremito” (parafrasi popolare di “qual mesto gemito”), alla sfida Riccardo-Oberto. In un testo musicale dove vanno esaltati i momenti dolenti e patetici da un lato contrapposti a quelli di slancio cavalleresco è stato difficile cogliere la situazione drammaturgica. Quindi il direttore come concertatore ha fallito. Tanto per tornare al terzetto, sonorità, peso orchestrale potevano far ritenere che si stesse eseguendo un numero alternativo del Matrimonio segreto ad opera di Gabussi o Coccia per le due sorelle ed il babbo. La verità è che melodrammi come Oberto richiedono in buca una autentica attività di concertazione per differenziare le varie situazioni, per suggerire ai cantanti privi di autonomia idee di fraseggio vario ed indurre quelle minime libertà dinamiche ed agogiche, che consentano di essere interpreti e facciano capire all’ascoltatore le ragioni della tradizione vocale ed interpretativa, che era il fondamento della produzione melodrammatica italiana e della sua fama. Perché chiariamoci una volta per tutte e senza falsi pudori e foje culturali questi titoli non vanno riproposti per andare a cercare il genio, l’inventiva strumentale o melodica, ma per le situazioni che consentissero ai cantanti di esprimere il loro meglio. Se questo non fosse il fondamento del melodramma ottocentesco, non esisterebbe l’aria alternativa di Oberto o l’abitudine di Annetta Casaloni di trasferire nella Miller l’aria di Cuniza. La produzione melodrammatica ottocentesca deve essere considerata in assoluta analogia con la produzione letteraria dell’epoca. A fronte dei Promessi sposi tanto Cesare Cantù , Francesco Domenico Guerrazzi e Tommaso Grossi. Poi, ma è opinione personale, ritengo nel loro genere Margherita Pusterla e Marco Visconti due romanzi, che si devono leggere per dire di conoscere la letteratura dell’800.
Terza differenza: fra la voce di mezzosoprano di ascendenza ed educazione belcantistica e la prestazione di Sonia Ganassi. Basterebbero più delle mie parole gli ascolti proposti, tre dei quali (Stignani, Verrett, Dupuy) offrono tre modi di realizzare la dama di rango, che si rivela, come compete ad una donna di quel censo secondo l’immagine del tempo, pietosa e saggia benchè colpita nei propri sentimenti amorosi. Non mi importa che alle uscite singole vi sia stata qualche riprovazione, rilevo però che per una cantante cui vengono affidate le parti di Isabella Colbran e che si appresta ad ampliare il repertorio verdiano con Amneris (Marsiglia luglio prossimo) dovrebbe sfoggiare qualcosa di ben differente dalla voce vuota e sorda nella quinta inferiore, inesistente nella successiva e gridata negli acuti, le agilità spappolate della chiusa della cabaletta (che batte la zona medio grave), nessuna ampiezza ed incisività di fraseggio, dizione il più delle volte incomprensibile.
Quarta differenza: fra una autentica voce di soprano spinto con propensione al canto acrobatico e quella di Maria Agresta. Questo è il capitolo più doloroso di questa riflessione perché Maria Agresta da due anni è salutata come la promessa del canto italiano, difesa a spada tratta con arringhe ( fra cui la sua maestra, signora Kabaivanska, arrivata a censurare la scrittura verdiana dei Masnadieri, manco fosse quella di Abigaille o Turandot) discutibili. La verità che emerge da una serie di ascolti è ben diversa e costante. Ci troviamo in natura dinnanzi ad una voce di soprano lirico, anche gradevole nell’ottava medio-alta, assolutamente incapace di cantare nella prima e di eseguire correttamente il cosiddetto primo passaggio. Evidente in Gemma di Vergy a Bergamo, confermato qui e nell’ascolto dell’Amalia di Masnadieri (che evidenziava ancor più a cagione di Verdi e Jenny Lind i limiti nel canto acrobatico). Senza una corretta esecuzione di questa operazione la voce in centro resta stimbrata e di limitata ampiezza e quando si percepisce (finale dell’opera) gli acuti sono gridati e bianchi. Se aggiungiamo che la parte di Leonora è piuttosto centrale e che la cantante continua a cantare (o continuano ad offrirle) parti di scrittura centrale, che richiedano fraseggio veemente e scandito la delusione e la paura per il futuro sono doverose, senza che ciò abbia sapore di censura, ma di dispiacere per quel che si prospetta. Inoltre la difficoltà vocale si ripercuote sull’interprete. Ci sono frasi come il moderato del duetto con Oberto “ a una tradita misera” pensate per essere “dette”. Ieri sera sono corse via come l’elenco del telefono e senza –preciso- che la loro scrittura sia di per sé idonea a mettere in difficoltà l’esecutore. Anche in una organizzazione vocale sontuosa per natura, ma tecnicamente censurabile come quella di Maria Vitale si percepisce almeno l’accento congruo alla situazione e la scansione, che la parte richiederebbe.
Al pubblico cercare le differenze. Operazione facile.
Quinta differenza: Un cantante con la voce a fuoco e il canto di Michele Pertusi. Con il dubbio che devo esprimere che un cantante assai poco sonoro quale protagonista di Don Pasquale è strano lo sia assai più almeno negli assolo di Oberto. Oberto parte che non richiede straordinarie doti vocali, ma primo della serie di padri verdiani e più ancora di uomini che agiscono, uccidendo, facendo uccidere o facendosi uccidere per i principi (come mentalità e moralità ottocentesca imponeva) deve disporre della grandeur vocale acconcia, non deve suonare vuoto al centro ed ingolato negli acuti e se esecutore proveniente dalle fila rossiniane ha l’obbligo di compensare la modestia e l’usura del mezzo con l’esibizione di tecnica che nella parte spianata di Oberto si esplicita nella varietà di accento. Quanto a varietà di accento Michele Pertusi ne è, invece, del tutto privo. Basta la scarsa convinzione e la scarsissima scansione del recitativo di ingresso, passo che non presenta difficoltà vocali.
Sesta differenza: il cantante annunciato in male arnese è stato il migliore in campo vantando una certa sonorità pur con una voce, che non gira in alto (anche se Sartori in natura sarebbe dotato in quella zona) e con un accento che non è verdiano, ma genericamente corretto ed esente da cadute di gusto.
Settima ed ultima differenza
allestire un melodramma come ha fatto Mario Martone significa prendere in giro autore e pubblico. Martone è stato fischiato e buato alle uscite. Giusta reazione. Martone, che ottenne successo nell’accoppiata Cavalleria Pagliacci per la realistica modernità e crudezza dell’allestimento (soprattutto del titolo leoncavalliano) crede che, trovata una chiave di lettura, una maniera quella possa essere acriticamente utilizzata per ciascun titolo della produzione melodrammatica grazie al trasferimento dell’azione in periferie degradate, all’esibizione di gratuite violenze, all’abbondante richiamo della cinematografia, aggiungendo questa volta un po’ di clan camorristici, facili effetti come lo stato di gravidanza della disonorata Leonora, serramanico in luogo di spade, déshabillé su fisici, che mal li sopportano se non nella domestica intimità, femmine in minigonna. Ovvio cappotti a profusione (pure con collo di persiano, come quello di Oberto) che abbiamo avuto occasione di dire in questa oggettivazione da teatrucolo di regia tengono il luogo della praetexta di sanquirichiana memoria. Tralascio incongruenze tipo Leonora, che dopo la confessione al padre si prepara a riprendersi l’onore con un paio di colpi di spazzola ai capelli e una passata di rossetto alle labbra o il tacco da 12 cm più suola ortopedica calzato da Cuniza-Ganassi, costretta al su e giù dalla scala della villa-bunker del camorrista Riccardo Salinguerra o il cadavere di Oberto (citazione dal ritrovamento di quello di Aldo Moro) scaricato e, poi, ricaricato su una bmw (polverosa alla bisogna, dimostrando con ciò che il signor Martone confonde camorristi con rom). Tutto sbagliato non nella realizzazione ma nell’idea. Tutto assolutamente inutile perché il teatro (forse di regia?) lo avevano, forse inconsci già inventato musicisti e librettisti dell’800 che, superato il classicismo, anzi il Neoclassicismo, offrivano al pubblico la loro interpretazione del medioevo, del Rinascimento, delle lotte fra Guelfi e Ghibellini, attraverso il filtro della loro cultura e della loro idea di quei periodi della Storia. Le descrizioni del libretto, il linguaggio del libretto, i messaggi e gli aneliti di cui i personaggi sono portatori hanno l’inconfutabile sigla della cultura ottocentesca e solo nella cornice che l’800 inventò per quei periodi possono essere proposti. Spiace per i registi e scenografi e costumisti, ma Oberto, come Borgia, Bolena, Ugonotti sono , ben prima di Wagner, la realizzazione dell’opera totale. Difficile capirlo? non credo: basta leggere un libretto e guardare una tela di Induno, Hayez o consimili. Se questi signori e i loro mentori non lo hanno fatto sono solo ignoranti. E i fischi meritati.
Gli ascolti
Giuseppe Verdi
Oberto, Conte di San Bonifacio
Preludio – Orchestra Sinfonica di Torino della RAI, dir. Alfredo Simonetto (1951)
Atto I
Ah, sgombro è il loco…Sotto il paterno tetto…Oh, potessi nel mio core – Maria Vitale, dir. Alfredo Simonetto (1951)
Oh patria terra…Guardami! Sul mio ciglio…Un amplesso ricevi – Giuseppe Modesti & Maria Vitale, dir, Alfredo Simonetto (1951)
Alta cagione adunque…Sono io stesso, a te davanti…Su quella fronte impressa…A quell’aspetto un fremito…Non basta una vittima – Lydia Roan, Maria Vitale, Elena Nicolai, Giuseppe Modesti, Gino Bonelli, dir. Alfredo Simonetto (1951)
Atto II
Infelice…Riccardo?…Oh, chi torna l’ardente pensiero…Più che i vezzi –
Ebe Stignani, dir. Oliviero de Fabritiis (1952)
Elena Nicolai, dir. Alfredo Simonetto (1951), Shirley Verrett, dir. Edward Downes (1971), Viorica Cortez, dir. Zoltan Pesko (1977), Martine Dupuy, dir. Fritz Weise (1995)
Ei tarda ancor…L’orror del tradimento…Ma tu, superbo giovane – Giuseppe Modesti, dir. Alfredo Simonetto (1951)
Eccolo!…La vergogna ed il dispetto…Ah Riccardo! Se a misera amante – Giuseppe Modesti, Gino Bonelli, Elena Nicolai, Maria Vitale, dir. Alfredo Simonetto (1951)
Dove son? Li cerco invano…Vieni, o misera cresciuta – Elena Nicolai, dir. Alfredo Simonetto (1951)
Tutto ho perduto…Sciagurata! A questo lido…Cela il foglio – Maria Vitale, dir. Alfredo Simonetto (1951), Angeles Gulin, dir. Zoltan Pesko (1977)
Dal sito della Scala:
Mario Martone, l’apprezzato regista di Cavalleria rusticana e Pagliacci, ha già annunciato che lo spettacolo verrà guidato dall’idea del Risorgimento italiano.
http://www.teatroallascala.org/it/stagione/opera-balletto/2012-2013/Oberto-conte-di-San-Bonifacio.html
Ma chi ha scritto questa presentazione ha abusato della mercanzia che spacciano i protagonisti di questo “Oberto in Scampia”?
Grazie Domenico per questo gioiello di post e per gli ascolti che restituiscono senso a ciò che – ascoltando la recita per radio – senso pareva non avere.
grazie per gli ascolti..
degli ascolti ringraziamo tutti nourrit e la sua ineguagliabile collezione.
Ma il gioco delle differenze non è visivo? A questo proposito prendo in considerazione solamente l’ultimo punto che risulta incredibilmente superficiale se si vogliono analizzare analogie/differenze rispetto all’iconografia cinematografica, soprattutto se ci si ferma a Scarface…
Apprezzo e rispetto tutte le considerazioni musicali, ma suggerisco di avere argomenti più solidi oltre a tacchi e cappotti per giudicare le scelte scenografiche
Magari Martone avesse un decimo della grandezza registica di Brian de Palma.
Questo Oberto evoca al massimo del suo splendore i film con Tomas Milian (la serie de “Er Monnezza”) e i melodrammi alla Mario Merola.
Leggete il libretto, le sceneggiature dei melodrammi alla Merola valgono di più.
E allora miglioriamolo con Leonora che si rifà il trucco, si controlla lo smalto e magari verifica di non avere smagliature nelle calze… o con Riccardo in vestaglia e un esercito di trucidi, tagliagole e battone al posto dei cavalieri e delle dame previsti dal libretto di quel pezzente di Solera. Ma a questo punto facciamo rifare anche la musica. Da Nino d’Angelo!
Touché! E’ assolutamente vero…
Ma la lotta tra “clan” per il territorio, il matrimonio combinato tra “boss” e il padre offeso sono una tentazione irresistibile per la lettura in chiave camorra-gomorra.
Se questo è quanto si pensa (e perché no?) allora bisognerebbe tenersene alla larga, altrimenti è furto di cachet.
E forse la ragione per cui si è irresistibilmente tentati da QUESTA lettura risiede nel non aver letto i libri giusti. O no?
Pensaci, marcocris, pensa alla banalità, alla riduttività, alla volgarità della scelta…. che poi si raggruma nella stessa minestra stantia servita da quei fast food che sono diventati i teatri d’Opera.