Talvolta quelli del Corriere della Grisi viaggiano per motivi ben differenti dal melodramma, quali l’amore per l’arte ed incappano in rappresentazioni operistiche che meritano e di essere viste per non fossilizzarsi sui soliti teatri e per stimolare la riflessione. Quest’ultima è stata sollecitata dopo il Macbeth scaligero (ma sarebbe bastato il Nabucco di febbraio) che ha imposto anche la recensione, sia pure breve, sul Nabucco palermitano. La conclusione, che anticipo è che fra il massimo teatro italiano ed il Teatro Massimo non corre differenza alcuna. Entrambi offrono il medesimo prodotto di fatto inadeguato alle esigenze del canto verdiano con allestimenti che dicono poco o nulla e costano (gli scaligeri come nessun altro, comunque). Solo che gli uni sono spacciati come cultura ed arte superiore (a che cosa poi è lecito domandare), mentre gli altri non si atteggiano a propagatori di cultura e allora l’ottica può anche cambiare. Non che sia un obbligo alla benevolenza, anzi perché per la cronaca la tradizione del capoluogo siciliano annovera,per fermarsi a Verdi il Macbeth Gui, Gencer, Taddei, ma un criterio di giudizio aggiuntivo.
Allora, abbiamo avuto sul podio Renato Palumbo reduce da un infelice Nabucco parmigiano, dove la pessima resa strumentale è stata imputata all’orchestra raccogliticcia e poco preparata, come se le scelte del direttore non contassero. L’idea di un Nabucco pesante e fragoroso ben oltre la normale portata dell’aggettivo “quarantottesco”, che per Nabucco si spreca, c’era anche a Palermo. Al primo coro “Gli arredi festivi” ognuno andava dove voleva, poi, le cose sono migliorate e l’esecuzione della pagina corale più famosa il “Va’ pensiero” con sonorità misurate e tempi lenti è stato salutato da un giusto applauso e richiesta – accordata secondo tradizione – di bis. Intendiamoci bene, il coro di Palermo non è indenne da pecche e carenze di organico, ma le cose sono funzionate. Sono funzionate anche in orchestra dove, per una volta, ci è stato risparmiato il suono “da corde da bucato” del massimo teatro italiano e dove anche legni ed ottoni, piuttosto chiamati in causa e non solo nella sinfonia, sono stati professionali. Certo che le scelte di tempo non consentono di valutare nel dettaglio le qualità della compagine orchestrale, anche se la tradizione insegna che andatura veloce e sostenuta sono un ottimo metodo per mascherare difetti della qualità del suono.
Chi di difetti nella qualità del suono e nell’imposto vocale è un antologia è stata la protagonista, signora Anna Pirozzi.
Premesso che Nabucco è parte per cantanti dotati nell’intera gamma (si pensi al salto che Abigaille è chiamata ad eseguire all’ingresso, nel recitativo dell’aria del secondo atto), capaci di legare i suoni (vedasi andante dell’aria “Anch’io dischiuso”e l’arioso finale), di padroneggiare la coloratura di stampo ancora rossiniano (vedasi il duetto Abigaille/Nabucco) e che dal cimento integri e soddisfacenti sono usciti tre o quattro soprani, è chiaro che non si può essere neppure decorosi se si è incapaci di sostenere il suono in ogni gamma, difetto evidentissimo proprio negli andanti, oltretutto opportunamente staccati a tempo piuttosto sostenuto, e con acuti estremi che sono sì voluminosi , ma spesso di precaria intonazione, sia emessi forte (terzetto di sortita, finale primo e finale secondo) che piano (finale dell’opera). In basso voce pressochè nulla, il che porta a concludere che siano davanti ad un normale soprano lirico spacciata e contrabbandata per soprano di forza anche grazie al marchio di voce verdiana, che, con assoluta faciloneria, le è stato appioppato in quel di Parma dai locali circoli. Quest’ultimi, tengo a dirlo, fanno un pessimo servizio a Verdi ed ancor peggior ai cantanti, che verdiani per limiti tecnici e vocali proprio non sono. Attenuante generica, la carenza di autentiche voci da opera verdiana e la circostanza che il 2013 DEBBA essere l’anno di Verdi. Per fortuna siamo al mese di aprile ed in occasione del Santo Natale conteremo morti e feriti immolati sull’ara della celebrazione.
Altra vittima delle “carenze di organico” e, prima ancora, di quelle tecniche è George Gagnidze, che svolge da anni carriera nel repertorio verdiano anche nei maggiori teatri del mondo. Nella vasta sala del Massimo di Palermo la voce è risuonata povera di ampiezza e sonorità ( quella che deriva non già dalla dote naturale, ma dal sostegno e dalla proiezione del suono) oltre che di capacità di essere un attore vocale. Ricordo che la parte di Nabucco venne scritta per Giorgio Ronconi, la prima vera voce di baritono, secondo le moderne classificazioni e soprattutto un cantante attore di levatura storica, specializzato in scene di
follia (per lui Donizetti scrisse quella del Tasso ed il ruolo protagonistico del Furioso) che puntualmente Verdi inserì nel finale secondo e richiamò nella situazione drammatica del duetto che apre il terzo atto. Il tutto per dire che Nabucco, oltre che cantato,
deve essere detto ed interpretato spesso con le modulazioni a fior di labbro che colgano il vaneggiamento, il timore davanti a Dio l’affetto paterno (per Fenena) oltre che con gli slanci. Qui mancavano gli slanci, latitavano le modulazioni, secondo un clichè oggi ben consolidato e diffuso, che si contrabbanda per canto verdiano. In tutto il mondo e senza che il pubblico e la critica si interroghino sul fatto che Nabucco preceda gli ultimi titoli donizettiani. La dubitativa la propongo qui, ma dovrebbe avere allocazione nelle recensioni delle produzioni verdiane di tutti i teatri del mondo.
Il decadimento del gusto e della cognizione del pubblico è il diretto figlio del decadimento della tecnica di canto, che importa l’incapacità di essere eloquenti, ampli, ampollosi, solenni come ogni personaggio verdiano soprattutto in chiava di fa impone.
Le cose non vanno meglio in corda di basso dove Luis-Ottavio Faria suona vociante ed ingolato, tradendo la ieraticità del sacerdote (che è la parte più lunga del titolo).
Quanto all’allestimento un solo pregio e non da poco ovvero nessun richiamo alla Shoah. E con i tempi che corrono e l’inesistente fantasia e cultura dei soggetti deputati alla parte visiva degli spettacoli non è poco. Almeno concettualmente, poi circa la realizzazione…..
Ho ascoltato domenica a Firenze per la prima volta Lapirozzi. Beh é molto migliore di quanto credevo dopo averla ascoltata su you tube o a “porta a porta” da Bruno Vespa. La voce non é grande, il colore é però adatto ai ruoli di drammatico e si vede la volontà e la passione della cantante che mi é sembrata in evoluzione nella ricerca di omogenizzare i tre registri impegnati nella parte di Abigaille. Piuttosto che aggredire il ruolo come ha fatto Lamonastyrska la sera precedente cantando Santuzza (producendo sbavature, contrasti, imprecisioni assai fastidiose), l’italiana ha scelto la strada più corretta di non forzare mai, di fraseggiare con scioltezza e nei due tre passaggi impossibili di controllare soprattutto l’intonazione. Credo (mi piace dirlo a caldo e in epoca non sospetta) che se continuerà a studiare con umiltà e a cantare poco potrà ulteriormente migliorare. Il potenziale c’é.
In ogni caso già ora é cantante più completa di quattro o cinque concorrenti.-