Ci lascia, all’età di 85 anni, Sir Colin Davis. Direttore dal repertorio molto vasto e dalla solida tecnica e sicurezza, si è sempre distinto dagli altri suoi colleghi di scuola anglosassone, per una evidente “mediterraneità” ed uno spiccato senso del teatro. Il suo nome è associato da sempre alla London Symphony Orchestra, compagine che ha diretto sin dal lontano ’59 (per assumerne nel ’95 la direzione e nel 2006 la presidenza, lasciando a Gergiev il podio di direttore principale) e a cui si è legato per affinità musicali e sensibilità artistica. Il repertorio del raffinato Maestro inglese – si diceva – abbraccia sia la grande tradizione sinfonica europea (ma con interessanti aperture al “nuovo corso”: Henze, Weill e diversi compositori anglosassoni), sia l’opera, Mozart in particolare che, pur nel solco della scuola britannica (ossia una certa superficialità levigata e rassicurante), non è ridotto a figurina decorativa per sale da tè. Tuttavia l’autore a cui Davis ha dedicato i suoi sforzi maggiori – e di cui, ancora oggi, è da considerarsi interprete di riferimento – è Hector Berlioz. Si può dire, anzi, che tra gli anni ’60 e ’70 ha dato vita ad una vera e propria Berlioz-renaissance, contribuendo alla ricoperta del geniale (e sfortunato) compositore francese. Si deve a Davis la prima incisione (ed esecuzione) dei Troyens del tutto integrale. Si deve a Davis la riproposizione del Benvenuto Cellini nel suo originario formato (prima che i consigli di Liszt convincessero l’autore a modificare impietosamente il suo capolavoro). Si deve sempre a Davis una prima e completa esplorazione dell’intero catalogo di Berlioz, anche nei lavori meno noti. L’autore francese sarà sempre al centro degli interessi del Maestro, tanto che a partire dal 2000 riproporrà l’intero corpus berlioziano, donandogli nuova freschezza e vitalità. Già perché a 70 anni compiuti, Davis vive una seconda giovinezza: uno splendido canto del cigno pieno di forza ed energia (si ascolti la sua splendida interpretazione di Falstaff) che ci si aspetterebbe più da un giovane entusiasta che da un compassato sir dell’impero britannico. Addio Maestro, sulle note dell’amato Berlioz.
Gli ascolti:
Grande messe des morts:
Symphonie fantastique:
Anch’io sono un grande ammiratore del compianto maestro inglese. Soprattutto per la cura che ha donato a Hector Berlioz, che è da sempre uno dei miei grandi amori. Genio assoluto, senza alcun dubbio. Non soltanto musicista grandissimo, ma anche grande, straordinario scrittore. Le sue memorie, le “Soirées de l’orchestre”, la meravigliosa corrispondenza sono veramente pagine di suprema letteratura. Genio sì, ma sfortunato non direi proprio. Il suo destino fu quello di incarnare scissioni anticipatrici del decadentismo in piena epoca romantica; tanto che l’incomprensione da parte della maggior parte dei suoi contemporanei e della più gran parte dei pubblici che si sono succeduti dopo la sua morte è un dato quasi necessario del suo rapporto con chi studia la sua figura o ascolta la sua musica. Berlioz era molto ammirato da Schumann; eppure con Schumann non aveva nulla in comune. Lo stesso Wagner, che con Berlioz ebbe rapporti altalenanti fra una sincera ammirazione e un’irreprimibile repulsione, è un musicista molto più facilmente inquadrabile di lui. E per un motivo molto semplice. Wagner è un musicista che riesce, al di là di ogni dissidio col proprio tempo, a inquadrarlo in una sintesi superiore, nella quale il passato e il futuro combaciano mirabilmente. Berlioz è invece uno sradicato nei confronti del proprio tempo; la sua opera è una sorta di “Zukunftmusik à jamais”, “musica dell’avvenire per sempre”, un’espressione molte spiritosa coniata da un critico francese per designara l’avanguardia postweberniana (devo questa citazione al saggio di Isotta, p. 7, che cito più sotto). Lo spiega molto bene Fedele D’Amico in un suo straordinario saggio: “Berlioz cent’anni dopo”, in “Un ragazzino all’Augusteo”, Torino, Einaudi 1991, pp. 110-138. E anche il tanto vituperato Paolo Isotta, in “L’ora di Berlioz”, edito come introduzione a Henry Barraud, “Berlioz”, Milano, Rusconi 1978, pp. 5-76, ha scritto in questo senso, concludendo giustamente che l’ora di Berlioz non è mai arrivata e probabilmente non arriverà mai. Isotta sarà quel che sarà, sarà diventato quello che è diventato, gli si potranno attribuire tutti i maggiori strafalcioni e delitti ed inutili contorsioni linguistiche. Però, se devo pensare a un nome, o sulla carta stampata o sul web, che sia oggi in grado di scrivere un saggio, su un qualsiasi argomento, di pari livello, mi viene incontro soltanto un malinconico silenzio degno del deserto dei tartari.
Marco Ninci
Il caro vecchio Sir Colin Davis. L’ultima volta che l’ho visto – ché i grandi direttori sono anche da vedere – è stato all’Arcimboldi alcuni anni fa. Mozart – credo la “Praga” ma non ricordo-, il secondo concerto per pianoforte di Beethoven e quella gigantesca torta di panna che sono le “Enigma Variations” di Elgar, con la sua London Philarmonic. Gesto limpidissimo, chiaro, di uno che sa sempre dove si trova e dove sta andando. E aveva già compiuto gli ottanta.
Poi, Marco, concordo con te su tutto quanto scrivi a proposito di Berlioz, ma devo confessarti che ho un problema irrisolto con lui. Non dispero, eh… avevo un problema analogo con Liszt, poi ho letto il libro di Campanella e ho ascoltato il disco di Pierre Laurent Aimard – per inciso: così andrebbero sempre festeggiati i centenari – e mi si è aperto un mondo: ho recuperato le incisioni di Brendel, di Berman; ho ascoltato nuovi paladini come Lortie e Chamayou e ho scoperto che grande e importantissimo compositore è stato. Non dispero che mi succeda la stessa cosa con Berlioz, di cui tante cose amo e tante cose proprio non riesco a capire. Nemmeno sotto la bacchetta di Davis, al quale in ogni caso va riconosciuto, com’è giustamente fatto da Duprez, il merito di aver speso tante energie per un compositore che è stato fondamentale nella storia della musica (e questo lo capisco anche se a volte non capisco la sua musica; non so, forse amo troppo Mendelssohn…) Oh, e quanta ragione hai, Marco, sullo stato della musicologia oggi. Tristezza infinita.
Saluti a tutti.
allora alla fine la pensate cone Donzelli che almeno da 50 anni la musicologia non serva ad un …zo di niente per dirla fuor di ogni elegante metafora
Scusami, Donzelli, cosa dici? Lontanodalmondo ed io diciamo l’esatto contrario di quello che ci fai dire. Se poi vuoi scherzare, padronissimo; ma non ne vedo il senso e lo scopo.
Ciao
Marco Ninci
Assieme a Sesto Bruscantini è la persona più olimpica che abbia mai incontrato nel mondo dell’Opera. Grande uomo e grande musicista.
Mi permetto di intervenire per una testimonianza personale del 1996. Davis venne alla Scala a dirigere I troiani. Ricordo che un musicista (tromba), arrivò a prova di insieme già iniziata. Il maestro interruppe la prova e gli disse qualcosa. Alla mala risposta dell’orchestrale lasciò il podio arrabbiato. Tornò dopo qualche tempo, con grande umiltà portò a termine quella e altre prove non facili: in orchestra il suo inglese sembrava essere un problema!
Ricordo che mi aveva impressionato, visto con im miei occhi allora giovani, vedere una persona di grande stile e correttezza scontrarsi con un ambiente agli antipodi. Il risultato musicale non ero e non sono in grado di giudicarlo, ma come persona mi sembrò venire da un altro pianeta.
Amo particolarmente Berlioz, lo ritengo uno dei più grandi musicisti dell’800 e per questo sono grato a Davis per aver contribuito a far riscoprire il suo straordinario catalogo (con esecuzioni complete e filologicamente attendibili: gli scempi nei confronti dei Troyens sono arcinoti e solo con Davis abbiamo avuto il privilegio di poterli conoscere in tutta la loro grandezza). Musicista grandissimo, dicevo, ma sfortunato (ribadisco): mi piace la definizione ricordata da Marco Ninci e concordo in pieno. Berlioz fu sempre un “inattuale” – in senso nietzscheano – proteso verso un avvenire mai realizzatosi (in campo musicale): grande sperimentatore e geniale compositore a cui mancò, forse, solamente il “mestiere”. Non fu capito allora e non è capito neppure oggi, tanto che ogni volta che si parla dei suoi capolavori c’è chi storce il naso o che lo accusa di “non saper scrivere”. In effetti la sua scrittura è del tutto originale e autonoma da scuole e tradizioni, tanto nel trattamento della vocalità quanto nell’uso virtuosistico dell’orchestra (la Symphonie Fantastique, ad esempio, è un lavoro che si possono permettere solo orchestre impeccabili tali e tanti sono i problemi che l’esecutore deve affrontare). Berlioz è forse l’unico compositore che può essere definito “romantico” nel senso pieno del termine.
Ps: non ho capito neppure io la questione “musicologia” sollevata da Donzelli, anche perché proprio grazie ad essa il catalogo di Berlioz è stato finalmente riscoperto.
Pps: il Mozart di Davis, invece, pur essendo più ricco di quello classico della scuola anglosassone, non mi entusiasma, nel senso che è corretto e raffinato, ma non particolarmente originale. Tuttavia a Davis va dato il merito di aver contribuito alla rivalutazione di Idomeneo (sempre sua è la prima incisione del tutto integrale) e di non aver ridotto Mozart a figurina rococò di olimpica rassicurazione (come più o meno negli stessi anni fece Marriner e, oggi – con 30 anni di ritardo – Abbado: ebbene sì, trovo il suo Mozart “inutile”)
ti faccio un esempio per l’assunto che è risultato molto oscuro. ben venga la musicologia che spesso è filologia se mi consente di scoprire o rendere eseguibile il catalogo Berlioz (che mi da molto da pensare), ma la stessa diviene un inutile e disonesto carrozzone quando mi spaccia per vera la versione Pasta della Zelmira, che non esiste e non è ricostruibile interamente, accampa scuse per non eseguire l’aria di Amaltea del Mosè in Egitto, inacapce di dire “ho una cantante che non la può eseguire” e poi “storce il naso” per la Rosina soprano e per l’aria della lezione mutata. Mi limito a Rossini, ma potremmo parlare delle versioni virtuali di don Carlos e di Rondine e la musica non cambierebbe.
Non comprendevo il riferimento alla questione Davis/Berlioz, per il resto non posso che concordare: quando la filologia diviene masturbazione mentale allora si trasforma la musica in un saggio accademico immaginario. Gli esempi citati evidenziano tutto ciò (anche se non concordo con la Rosina soprano che è e rimane un “rossinicidio” – mentre la questione dell'”aria della lezione” per me resta un mistero: non capisco che avessero le primedonne contro questa splendida aria). Ci sono tanti esempi che vanno dalla Sonnambula e Otello in “versione Malibran” all’immaginario Gustavo III di Verdi. Peggio ancora quando si imbastiscono versioni mescolate (Don Carlos, Macbeth, Tannhauser, Boris Godunov)…anche se in questo caso è la mancanza di correttezza musicologica, spesso, a combinare disastri. Altra questione è lo scambiare certe tradizioni esecutive (magari scorrette e brutte) per esempi autorevoli, nonostante c’entrino poco o nulla con l’originale. Credo che vizi e vezzi abbiano valore storico e documentario, certamente, ma non si possono attribuire agli “errori” (o, più spesso, agli “orrori”) il valore di fonte.
Quello che dice Donzelli mi riesce completamente oscuro. Intanto non è che la musicologia si identifichi completamente con la filologia. In base a questo criterio non sarebbero musicologi né Massimo Mila né Fedele D’Amico; lo sarebbero soltanto gli editori di testi. O, comunque, coloro che si occupano di questioni riguardanti il testo e le sue varie versioni, con varianti di autore o no. La storia della musica non è allora una disciplina musicologica? Difficile da credere. Il libro di Fragapane su Spontini che cos’è? E quello di Confalonieri su Cherubini? Mi pare una concezione un po’ ristretta della musicologia.
Marco Ninci
invece di pensare alla mia opinione ristretta ; lo avevo detto anche io che facevo un esempio prova a pensare l’anno di edizione di questi testi e il termine che ho indicato nel mio primo intervento, che tanto ti ha infiammato….
Quello che dici, Donzelli, non ha senso comunque. D’Amico ha scritto sino alla fine degli anni Ottanta. Sergio Sablich, che tutti piangiamo, ha scritto sino all’anno della sua morte, nel 2005. E Petazzi dove lo mettiamo, lui autore di due interessanti libri su Mahler e Berg? E Morelli? E Grondona, buon rossiniano? Ma via, queste tue generalizzazioni sono proprio irritanti. Non è che il panorama della nostra musicologia sia esaltante, l’ho già detto; ma delle eccezioni ci sono.
Marco Ninci
Più di qualche eccezione direi: “Ondine, vampiri e cavalieri” di Elisabetta Fava sull’opera romantica tedesca è un libro splendido, ad esempio. Mi permetto poi di suggerire due splendidi volumi di recentissima pubblicazione: “Il caso Furtwängler” di Audrey Roncigli e “Šostakovič. Continuità nella musica, responsabilità nella tirannide” di Piero Rattalino.