A scontrarsi, sia pure idealmente e a distanza, presso il chiostro di Hornachuelos sono ancora una volta due cantanti di grande e lunghissima carriera, che non possono, a differenza dei protagonisti dell’ultima puntata, definirsi verdiani in senso stretto, o almeno, non nell’accezione piena e completa esemplificata da Merli, Pertile e anche dal più ruspante Masini. Giacomo Lauri Volpi, dalla voce cristallina e facilissima in acuto, può essere con fondata ragione considerato, per imposto e ancor più per repertorio, uno degli ultimi tenori ottocenteschi; Beniamino Gigli, caratterizzato da uno splendore timbrico e da una propensione al canto elegiaco (propensione che gli valse, da parte del solito pubblico ambrosiano, l’affettuoso soprannome di “caragnoûn”) di rado eguagliati nella storia della discografia, costituisce invece il paradigma del tenore all’italiana, connotato da un gusto spesso incline a quello veristico, e quindi fatalmente contrapposto all’aristocratico sussiego del tenore di Lanuvio.
Differenti, anzi opposti, anche gli approcci al “maledetto” titolo verdiano. Se Lauri Volpi si limitò a incidere in studio a metà degli anni Quaranta alcune delle più celebri pagine dell’opera, riservando il debutto scenico a una fase decisamente avanzata della propria vita artistica (Montreux 1952), Gigli aggiunse al repertorio la parte del rejetto ultimo rampollo degli Inca quando era in carriera da quasi un ventennio e la mantenne sino a poco prima dell’addio alle scene, cantandola tra l’altro al Colón di Buenos Aires (1933, 1947), alla Scala (1934, 1940, 1943) e all’Opera di Roma (cinque riprese dal 1936 al 1945). Un ritmo di lavoro impressionante, specie se si considera che negli stessi anni circolava ancora, tanto per dirne uno, il don Alvaro di Francesco Merli. Proprio una fortunosa registrazione dalle Terme di Caracalla (luglio 1939, sul podio Tullio Serafin, tra gli altri interpreti Caniglia, Pasero e Stignani, quel che si dice un cast di vero e autentico lusso) documenta la sezione centrale del duetto tra Gigli e un veemente Benvenuto Franci, dall’attacco del cantabile “Le minacce e i fieri accenti” sino al momento in cui il mentito padre Raffaele raccoglie la sfida di don Carlo emettendo il si bem di tradizione su “Uscite”. Per udire l’intera scena della sfida al convento dobbiamo ricorrere a una recita tenutasi a Rio de Janeiro nel 1951, quando Gigli aveva oltrepassato la sessantina e cantava da poco meno di quattro decenni.
L’impressione che si ricava dalle tre registrazioni considerate è quella di esecuzioni solide e attentamente ponderate, che non raggiungono però l’impetuosità e, più ancora, la varietà documentata dalle incisioni, che abbiamo avuto modo di riascoltare nelle puntate precedenti. Certo sia Lauri Volpi che Gigli non esibiscono in prima ottava e nella zona che prepara il secondo passaggio i suoni ora vuoti, ora artificiosamente pompati di molti tenori successivi, connotati da scarsa dimestichezza con i principi di una corretta respirazione, né i baritoni che li scortano sono costretti a bitumare la voce nel tentativo di sfoggiare un’ampiezza autenticamente verdiana, requisito indispensabile a connotare l’implacabile sete di vendetta del nobile de Vargas. Persino un cantante poco raffinato e generalmente additato quale esponente della scuola del malcanto, Gino Bechi, risulta un autentico campione di emissione stilizzata e gusto castigato, se paragonato ad alcuni don Carlo del dopoguerra. Per tacere di quelli più recenti, che per giunta non vantano la “canna” di Bechi, specie in acuto.
Gigli si segnala già nella registrazione di Caracalla per l’abuso di portamenti (fin dal “in preda ai VENti” sul fa bemolle centrale), spiana le forcelle previste (“perdonatemi pietà”, “deh chiniam la fronte al fato”). Il fraseggiatore emerge alla frase “Sulla terra l’ho adorata”, in cui il cantante rispetta l’indicazione di “dolcissimo”, salvo poi non riuscire a sfoggiare, sul si bem di “s’ella m’Ama”, il suono estatico che la circostanza richiederebbe. Nessuna incertezza o esitazione invece sulle ripetizioni “l’amo ancor”, che insistono sul fa e il sol bem e permettono di verificare la saldezza del secondo passaggio di registro. L’audio sudamericano illumina invece quanto a conservazione del capitale vocale e conseguente capacità di legare i suoni, in forza della quale il cantante sa essere ora autenticamente disperato (“no, non fu disonorata”), ora congruamente patetico, ad esempio all’attacco del cantabile e più ancora nelle frasi in cui il penitente rievoca l’amore di donna Leonora, salvo poi indulgere, nella sezione finale del duetto, a suoni spinti e sfocati, scusabili tanto in virtù dell’età dell’esecutore, quanto della concitazione del passo, che peraltro insiste in una zona della voce che è almeno di una terza superiore alle parti precedenti di questa pagina. Ed è proprio in questo punto che si fa valere Lauri Volpi, sfoggiando una sicurezza in zona medio-acuta e un accento giustamente eroico e quasi protervo, che si confanno magnificamente alla recuperata baldanza dell’offeso gentiluomo mulatto. Nella sezione centrale del duetto, staccata peraltro a un tempo ben più rapido e stringato dell’Andante prescritto in partitura, il cantante laziale canta un poco “in ciabatte” e accenta molto parcamente, trovando un guizzo solo su “Assistimi, Signore” con smorzatura sul mi bem centrale. Singolare poi come Lauri Volpi non opti per il trasporto all’ottava alta della chiusa della frase “Io mi prostro ai vostri piè”, trasporto cui invece ricorre Gigli. Singolare, ma comprensibile alla luce del maggiore “comfort” fornito dallo studio di incisione, in cui però la debolezza del registro grave non risulta attenuata o posta in secondo piano. Anzi.
Tanto Gigli quanto Lauri Volpi illustrano con le loro prove due principi, prima che di dogmatico rigore, di semplice buon senso, il primo dei quali (“L’espressione si dà cantando”) veniva enunciato da Anita Cerquetti in una celebre intervista. Sempre la Cerquetti esemplifica poi, con le sue esecuzioni del Ballo in maschera o dell’Aida, il secondo principio, ossia “a ogni opera la sua voce”. E avremmo potuto menzionare Giannina Russ in luogo della cantante marchigiana, senza dover modificare una sola virgola. Cantare con voce squillante e sicura sui primi acuti, oppure con timbro malioso e malinconico al centro, costituisce condizione necessaria, ma non sufficiente, per risolvere con successo una parte come quella di don Alvaro. Si potrà essere interpreti di riferimento in altri personaggi verdiani (Duca di Mantova, Alfredo, lo stesso Manrico), ma l’unione di potenza e ampiezza vocale, nobiltà di fraseggio, varietà e pertinenza di accento, congiunta alla capacità di fronteggiare un tessuto orchestrale spesso denso e una scrittura vocale all’insegna della massima tensione, è l’unico strumento che permetta di venire a capo di un simile, davvero “infernale” personaggio.
Gli ascolti
Verdi – La Forza del Destino
Atto IV
Invano Alvaro…Le minacce, i fieri accenti
1939 – Beniamino Gigli, Benvenuto Franci