Andrea Chénier è un’opera che ha il sapore del tempo passato, un tempo che nemmeno i non più giovani di oggi hanno vissuto, legato al repertorio verista in voga sino agli anni ’60 inizi anni ’70 del secolo scorso. Un titolo che rimanda alle foto in bianco e nero, all’età umbertina ed a quella tra le due guerre, inscindibile dalla parabola del tenorismo verista, quello della retorica del “dire” e dello squillo, a volte anche compiaciuto, più in generale delle voci importanti. Parabola chiusasi di fatto con Del Monaco e Corelli. Un titolo composto fifty fifty dalle scene di colore, con cui il librettista ricrea la cornice storica dell’azione, e dalla storia d’amore e gelosia dei protagonisti. Uno storicismo svuotato ormai dalle istanze ottocentesche e retto dalla retorica della patria, popolato da una miriade di personaggi caricaturali, ospita le vicende amorose del poeta Chénier, personaggio realmente esistito, in un mix tutto melodrammatico di slancio poetico, amore carnale, gelosia e passione. Un verismo fatto di temi “alti” e nobili, alcuni estremi, a tinte forti, come quelle del personaggio di Carlo Gerard e destinato, trascorrendo i decenni ed allontanandosi dall’originaria matrice poetica in cui l’opera nacque, a trasformare i protagonisti in stereotipi irrigiditi degli aspetti retorici appunto, e a perdere di vista progressivamente tutte quelle prerogative di fraseggio che erano del cantare aulico e sfaccettato del tempo di Giordano e dei decenni subito seguenti. Con l’età di Del Monaco e Corelli il personaggio, appannaggio esclusivo, sulle ribalte importanti, dei massimi tenori spinti e drammatici, appare completamente ridotto sul versante eroico, e persino il canto amoroso dei duetti, di fatto, trasformato nel canto del tenore di squillo e di forza. Per non parlare poi del ruolo del baritono, per sua natura incline a trasformarsi nella palestra delle gigionate, degli accenti truci e rozzi, a discapito anche di quegli spazi che Giordano lascia al canto per il canto nelle frasi che richiedono grande cavata e qualità di suono, come ben si può percepire nel climax che governa l’architettura dell’aria. Insomma, da un cantare di grandi voci applicate al fraseggio sfaccettato e, alla bisogna, sfumato, more ottocentesco, si passò pian piano a fraseggiatori sempre più limitati, dal canto retorico a quello stentoreo, alimentato poi, come sempre, dagli esecutori di seconda fila. Con la scomparsa del tenore spinto di scuola, arrivarono i surrogati che nel migliore dei casi insistettero sul lato amoroso del personaggio (nei teatri teatri Placido Domingo e José Carreras ), mentre in quelli peggiori, invece, sugli aspetti esteriori e plateali, tutti a praticare “l’arte dell’epigono”, ossia il delmonachismo.
Certo, la lontananza tra il nostro mondo e quello in cui si ergevano i Pertile o i Gigli è ormai abissale: la loro capacità di espressione, anche nei documenti arcaici di cui disponiamo, sa di uno stile e di capacità inventive sul piano dell’accento e di qualità vocali che davvero ci fanno sembrare l’opera di Giordano diversa, altra da quella che oggi, in qualche rara occasione, come quella torinese, ci viene proposta. Le prove che sino alla Tebaldi, con qualche eccezione come la Caballè, ci vengono offerte dalle Maddalene d’antan, afferiscono tutte alla sfera delle “grandi voci”, dato che l’eccezionalità del mezzo resta la principale prerogativa del facile canto di Maddalena di Coigny, tutto fatto di legato e dolcezza. Bellezza timbrica e voce messa con perizia sul fiato: se queste due cose ci sono, Maddalena è fatta, basta qualche intenzione collocata con mestiere.
Alle prese con opere come questa, in cui l’opera lirica amplifica se stessa nel canto del cigno di un’arte destinata ad esaurirsi di lì a breve, oggi siamo sempre al campo delle cinque pertiche, o per dirla più nobilmente e con maggior precisione, rari nantes in gurgite vasto, perché vasti davvero paiono la densità orchestrale e la scrittura cantabile del compositore per le nostre moderne voci, ineducate all’arte del respiro, della risonanza libera, per non dire poi del fraseggio.
Il maestro Palumbo ha fatto suonare l’orchestra di Torino, che di suo è proprio bella in fatto di suono, con una certa varietà espressiva, attenzione al canto come pure al pittoricismo dei momenti di colore. Una direzione abbastanza varia, meno sfaccettata e ricca di quella del bravo Bignamini a Milano con la “Verdi”, ma pur sempre valida, nonostante alcune pesantezze ed eccessi di decibels inadeguati alla scarsa potenza di questa compagine vocale, che spesso è stata risucchiata dall’eccesso di volume. Il lavoro di Palumbo mi è parso il lato più convincente di questa esecuzione torinese, limitato sul piano del cast vocale, di cui non mi sono piaciuti per nulla soprano e baritono, un po’ meglio il tenore.
Maria Josè Siri che risentivo per la prima volta dopo l’Aida scaligera, mi è parsa una voce inadeguata alla parte ( sul fatto che la signora sia un soprano lirico adatta ad un repertorio molto più leggero mi pare di averlo scritto già all’epoca dell’Aida milanese appunto) e già usurata dopo qualche stagione da un repertorio troppo pesante, gestito con lacune tecniche che sono di tutta evidenza sin nelle frasi di ingresso in scena, “Il giorno intorno già s’insera lentamente ..”. Il risultato è stato quello di una Maddalena con la voce chioccia, fuori posizione al centro e con suoni troppo spesso aperti, prima ottava assente, difficoltà a salire anche ai primi acuti. Sottodimensionata all’orchestrale come allo slancio passionale dei duetti, ha faticato a gestire la linea di canto delle “belle” frasi da legare come “ Eravate possente “, oppure “Ora soave sublime ora d’amore”, che di solito vengono impreziosite con messe di voce e smorzature dalle grandi esecutrici. La Maddalena di Coigny, con la sua scrittura centrale e i pochissimi acuti, nasconde difetti che scritture come la Leonora del Trovatore esaltano e su cui le Aide o le Forze agiscono inesorabili. Peccato. Anche la chiusa dell’intervista radio, con l’auspicio a praticare, in queste condizioni, un po’ di belcanto, la Norma in particolare, lasciano a dir poco sbalordito l’ascoltatore.
Di Alberto Mastromarino non vorrei dire molto, se non che mi pare una voce nasale e schiacciata, afflitta da un evidente birignao da caratterista, problemi non piccoli di intonazione, concezioni tecniche quantomeno sui generis. Il risultato è complessivo mi è parso imbarazzante.
Marcelo Alvarez è stata la parte migliore della serata, ma non certo una grande Andrea. Il signor Alvarez, lo sappiamo tutti, è una voce, anzi una VOCE. Qualunque cosa faccia in scena, parte sempre con grande vantaggio sugli altri grazie al prodigio che la natura ha compiuto dandogli questo mezzo. Voce in assoluto non da tenore spinto o drammatico, ma da lirico puro, estesissimo in alto, nato per dare voce alle parti di Rubini e ad altri must del tardo belcantismo. Oggi la voce è meno bella di un tempo, ha perduto armonici, ma resta sempre di qualità superiore a quelle circolanti. Lo Chénier gli sta però largo, per non dire larghissimo, perché la scrittura centrale ed epica, complice l’orchestrale, lo costringe per tutta al sera a cantare forte, a spingere per essere adeguato, tanto da metter in primo piano solo il tempo trascorso sul suo mezzo. Nell’Improvviso abbiamo sentito un tenore amoroso per definizione alle prese con l’incapacità di legare ( idem dicasi per il “Come un bel dì di maggio” ) che ha ripiegato in una declamazione poco incisiva o innaturale per lui, tutta esteriore, raddoppiando anche oltremodo le consonanti, al fine dare alle parole un peso che in natura non c’è. Meglio il canto del primo duetto d’amore rispetto al secondo, dove ha anche “vociato” alcune frasi: nell’”Ora soave”, forse la cosa migliore della prova, ha gestito il filo del canto lirico a lui più congeniale, con buon risultato. In generale, però, Alvarez è sempre costretto a cantare sul mezzoforte quando non sul forte, in modo monocorde ( frasi come “..si spegne il firmamento ..” vengono smorzate da ogni tenore ), perché già così la parte è anche troppo onerosa per lui, il che rende il suo personaggio poco accattivante e convincente. Il confronto nell’Improvviso con un tenore lirico come Domingo, Chénier limitato nel fraseggio come negli aspetti epici, la dice lunga sull’inganno in cui si cade pensando che la bella e ricca voce di Marcelo Alvarez ne possegga la stessa ampiezza tanto da consentirgli di essere plausibile o di barare anche in ruoli pesanti come questo.
Taccio della Bersi di Giovanna Lanza e della Contessa di Anna Malavasi: dimenticare è meglio.
sono stato il 23 gennaio ,scrivo questa mia impressione,che avevo già scritto in chat:
rientrato da questa recita una recita dalla parte vocale abbastanza modesta,ma molto bene dal punto
di vista orchestrale,e dalla direzione del maestro Palumbo,teatro praticamente esaurito,pubblico variegato dal punto anagrafico,delle voci,Alvarez partito in sordina è andato in crescendo,e giudicarlo dal vivo,mi sembra che si sia ripreso rispetto a certi giudizi negativi del recente passato,la voce è ancora importante,gli acuti gli vengono ancora bene,solo qualche
indecisione a voce fredda,il soprano Maria Josè Siri ,inadeguata alla parte non aveva il neccessario peso,il racconto La mamma morta praticamente l’ha rovinato scarsa intonazione,calante,concluso con un grido,nel duetto finale mentre Alvarez se l’è cavata dignitosamente,anche questo soprano ha evidenziato molti limiti,in certi passaggi era un
miagolio,brutta voce quella del baritono Mastromarino tutta in gola,ma riusciva ad avere dei buoni
acuti,discreto nella romanza; il mezzo Chiara Fracasso si è distinta più
nel ruolo Di Madelon che non quello della contessa,coro molto bravo, il mezzo Chiara Fracasso si è distinta più nel ruolo Di
Madelon che non quello della contessa,scenografie prima atto salotto un po di
sedie,su un giardino come fondale ,tre lampadari che un paio di volte le hanno fatto scendere al livello del
palco,negli altri atti,panelli semoventi,passerelle,posizionati un po in altro rispetto alle scene
centrali con una scenografia di contorno dove si simulava la gente a passeggio,su un viale con lampioni di quell’epoca i panelli semoventi
spesso venivano spostati,con una certa rumorosità,mentre cantavano dando un certo fastidio,tanti bambini
in scena,anche un balletto con bambini nel primo atto,insomma una recita “normale” facilmente da
dimenticare,molti applausi ad Alvarez,anche per la Siri,io dopo la mamma morta avevo una grande
voglia di fischiarla,ma al Regio qui a Torino,il fischiare non esiste(sic)i costumi nel primo atto
nel ricevimento abbastanza belli e curati,invece ridicole le parrucche delle coriste,che mi
ricordavano i fiocchi di zucchero filato sul bastoncino.
Uscito dal teatro è nel tempo
piovigginoso,mentre mi dirigevo verso la fermata del metrò a porta nuova mi chiedevo se la Micaela
Carosi avrebbe cantato meglio di questa Siri,purtroppo non riesco ascoltarla dal vivo,ma non penso
dopo avere ascoltato il soprano di questa sera,che se cantava la Carosi il Regio si trasformava nel mercato del pesce,insomma penso che la Carosi aveva qualcosa in più in questo ruolo rispetto alla Siri..qualche voce dicono che la Carosi non sia venuta per un certo dissaccordo con il direttore.
Condivido.
È opera di cantanti lo Chènier. Tecnica, voce e interpretazione.
Alvarez è stato sicuramente il migliore (certo meglio dei due passati Chénier di 10 e di 20 anni fa al Regio); quantomeno dà un’idea di cosa sarebbe cantare. Come sempre però esco dal teatro con un grande senso di incompiutezza, quasi spreco: un altro spettacolo che non ricorderò; tutto si consuma hic et nunc, e poi è da buttare via (ad esempio, che senso avrebbe registrare una roba del genere??!!! ).
Peccato per Maria Josè Siri: i colori sono tutti uguali, le frasi al processo sono veramente tanto “tranquille”, non si lascia mai andare all’interpretazione. Spesso poi adotta un modo di cantare quasi lamentoso, piagnucoloso (“il vostro giuramento vi sovvengo”, “se in sua vece un’altra”) degno della sua maestra.
Qualche tempo fa non c’erano soprani e tenori, ma almeno i baritoni sì, ora nemmeno quello. Mastromarino nei momenti importanti dà l’impressione di un canto che scappa sempre nel naso (“Salvarli, da Robespierre ancora”).
E Madelon? 2 acuti, 2 “urla”.
L’allestimento (nuovo? del Regio?) è tradizionale ma non lo definirei nemmeno di corretta normalità, in vari punti l’ho trovato interlocutorio. Riflettevo che in 3 Chénier non ne ho mai visto uno “moderno”!
La Siri deve esser caduta ed essersi fatta male a un piede tra la fine dello spettacolo e gli applausi, sembrava molto dolorante, spero non sia stato niente di grave.
Da appassionato non tecnico, se non è OT nell’ambito di questa recensione, vorrei rivolgere una domanda agli esperti: che ne pensate dello Chenier di Bergonzi? Io lo vidi a Genova agli inizi degli anni ’70 (con Protti e la Kabaivanska) e ne rimasi innamorato, quasi come per l’Adriana con Magda Olivero. Fortunatamente esistono incisioni che mi permettono di riascoltarlo quando voglio. Al di là del mio amore per Bergonzi, trovo ineguagliabile l’”Improvviso” cantato da Pertile.
Alle recite di Chenier di Genova assistetti anch’io . Trovai ottimo Bergonzi (pur lamentando la carenza di squillo e l’interpretazione un po’ ” molle” ) . Secondo il mio modesto parere e ‘ preferibile uno Chenier che sia poeta più che soldato , quindi viva Gigli ,Pertile e (anche se di caratura inferiore) Bergonzi. e naturalmente abbasso i vociferatori (domingo , carreras e epigoni )
Io sono un po’ scettico su Bergonzi: credo che il ruolo voglia un certo piglio tribunizio (anche gli aspetti più aulici e poetici non possono essere risolti in una generale e affettata mollezza, come fa Gigli, cantante che non mi piace). Senza contare la spregiudicatezza nell’acuto Ecco, per tutto questo trovo che la rassicurante professionalità di un Bergonzi sia poco adatta (problemi di dizione a parte…)
Grazie Duprez e Alberto. Beh, certo il “sole” che diventa “sciole” … è un dato di fatto. Comunque mi conforta che, al di là della mia ignoranza tecnica e dei gusti personali, seguendo questo prezioso blog riscontro di non essere proprio un troglodita in fatto di gusti vocali.
A questo punto dico la mia su Alvarez: mi piaceva di più prima che si lanciasse nel Trovatore (qualche anno fa a Parma, se non erro), dove non mi era piaciuto molto.
per me invece bergonzi e pertile sono due straordinari xhenier espressivi e il secondo con degli acuti x me bellissini. Direi che lo eseguono in maniera stilizzata cone non lo si sente piu’. Io ho sentito Carreras Giacomini Armiliato anche Martinucci in serate dove erano in forma ed ebbero grande successo perche’ pur essendo cantanti piu’ realistici comunicavano molto al pubblico meno intellettualizzato. Circa il riferimento a Gigli le riserve su di lui sono le riserve che si possono avere verso un pianoforte gran coda Steinway che viene suonato in una maniera che non c piace
Il suono dello Steinway non mi piace molto: preferisco il Bösendorfer
hai ragione dovevo precisare i due Steinway di Benedetti Michelangeli del 1936 accordati dal suo accordatore che forse valgono il tuo Boesendorfer 😉
Che insieme non valgono il Bösendorfer (o lo Yamaha) di Richter…
ada eh Dupre’ te ol bosendorfer tel cambiereset gnac per quatersentmila fustini de dash
Anche un Bluthner – a mio gusto – vale molto più di uno Steinway