La prima puntata della nostra penitenziale rassegna è dedicata a una di quelle che sogliono definirsi cantanti attrici. Una cantante di grande voce, di tecnica non altrettanto grande, ma generosa interprete dei desiderata del pubblico non meno che fine conoscitrice dell’ambiente teatrale, Zinka Milanov, soleva affermare nel suo pittoresco inglese dall’accento balcanico: “when you hear ‘singing actress’, watch out – it means: no voice!” Waltraud Meier declina alla perfezione il paradigma. Premettiamo di avere deliberatamente selezionato una registrazione effettuata in studio, in luogo dei pur numerosi live che documentano la non sporadica frequentazione della virtuosa sposa beethoveniana da parte della cantante tedesca. All’attacco dell’Adagio “Komm, Hoffnung” udiamo, tra un fiato corto e l’altro, una bella (si fa per dire) voce impastata e retroboccale in zona eminentemente centrale, quella in cui la voce del mezzosoprano (quello vero) dovrebbe risuonare con la maggiore facilità. Il peraltro lodevole tentativo di cantare piano e di realizzare le opportune nuance dà luogo a suoni prossimi al miagolio, vieppiù ghermiti man mano che si avvicina la zona che prepara il passaggio agli acuti, ad esempio nella frase “er’hell mein Ziel… so fern”. Inesistente il legato su “erreichen” e risibile l’esecuzione della scala cromatica, mentre la salita al si naturale e quindi la discesa al si sotto il rigo illustra come meglio non si potrebbe lo “scalino”, o per meglio dire, il buco della voce femminile, derivante da una inconsistente saldatura dei registri. Disomogeneità che appare di nuovo grottescamente in evidenza al susseguente Allegro con brio, in cui alle parole “der treuen Gattenliebe” si passa, o per meglio dire, si trapassa dall’urlo sul sol diesis acuto alle caricaturali note di petto, peraltro in debito d’ossigeno, sul si diesis e do diesis grave, fino all’esecuzione spappolata della scala che riporta la voce, o quel che ne resta, al do diesis centrale. Traballanti le agilità, peraltro elementari, al successivo “mich stäkrt die Pflicht der treuen Gattenliebe”, mentre tutta la sezione conclusiva manca di slancio e mordente, naturale conseguenza di una voce che si arrabatta tra i registri, produce nuove urla sul sol diesis acuto (peraltro marcatamente fisso) e solo sul si naturale conclusivo sembra trovare una sorta di espansione, benché precaria. Peraltro l’ascolto è illuminante anche rispetto alla qualità della bacchetta, capace di trarre dalla prestigiosa compagine orchestrale, nella seconda parte dell’aria, sonorità e accenti da fanfara di paese.
39 pensieri su “Quaresimal I. Waltraud Meier in Fidelio”
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Un’altra voce che si ferma a metà dell’arco del suono.
Con anche gravi conseguenze sull’intonazione, suoni tirati dal medium verso l’alto e gravi velati.
C’è di peggio, per carità. Ma la Waltraud è il simbolo dello stato dell’arte.
un po’ é colpa anche degli ingengneri del suono. Nella registrazione Teldec appare messa molto in primo piano e il timbro risulta più sbiancato rispetto alla prima Leonora sentita alla Scala che ricordo migliore perché più compatta e omogenea. Sullo “stato dell’arte” di cui la nostra sarebbe un simbolo non sono d’accordo perché le ultime due Leonore (che ammettiamo é ruolo vocalmente quasi ineseguibile) più importanti che ho ascoltato: cioé Meier (2000-2003) Stemme 2010 sono state migliori di quelle ascoltate nei due decenni precedenti (per es. la Altmeyer o la pur corretta De Vol o quella del Palafenice, la Janowitz del 1977/78 l’ho solo in disco e sarebbe interessante avere il parere di Miguel Fleta della sua esibizione alla Scala). Infine voglio precisare che se vogliamo proprio classificare Watraud Meier “solo” una cantante attrice dobbiamo considerare come assai di frequente le cantanti attrici hanno un qualcosa che solo dal vivo si percepisce e che nessuna registrazione anche live riesce a riprodurre. Questo per ribadire ancora una volta che il pubblico non é così gonzo come qualcuno crede e se la Meier ha fatto la carriera che ha fatto é grazie alle sue non comuni virtù.-
senti, alberto, alla radio quella latrava nel vero senso della parola. non c’è un suono buono, una vociaccia orrenda e sgangherata che no sale e non scende, problemi dappertutto. tipica cantante visual intellectual per il pubblico intellettualoide amante del “canto” morsicato. non lega due suoni, albertemme! due! le ci vuole la Madonna di lourdes , mica degli ingegneri del suono
Quel “qualcosa” che si percepisce solo dal vivo, sono SOLO le capacità attoriali della Meier. La vocalista è la stessa (pessima) sempre ed ovunque. L’apprezzo moltissimo come attrice, è davvero interessantissima da vedere, però, per carità, non venire a dire che c’è qualcosa della sua voce che si percepisce solo dal vivo. Il suo vantaggio è che dal vivo la sua voce ed i suoi problemi si percepiscono MENO a causa della bravura scenica.
Alberto non è che sono i tecnici del suono che ti fanno andare la voce indietro eh: è il sostegno che non c’è unito ad un’idea caricaturale di emettere la voce oggi che mi fa semplicemente inorridire.
Tuttavia, non condivido fino in fondo la visione di Giulia: non ritengo la Meier inascoltabile. La ritengo semplicemente figlia del nostro tempo: sbagliata. Punto.
Per Tamberlick io non ho scritto che i tecnici le hanno fatto andare la voce indietro. Mi sembra anzi troppo in primo piano. Inoltre quelli che Tamburini chiama miagolii mi pare siano conseguenza dello schiarimento artificiale cui hanno sottoposto la voce della Meier gli ingegneri del suono. Io ho sentito la Meier in questo ruolo in buonissima posizione ben tre volte a distanza di due tre anni e risulta diversa e senza passaggi così svbiancati -ovviamente sai che io ho le prove di quello che dico 😉 – Che poi la Meier sia figlia del nostro tempo sono d’accordo. Io la sentii la prima volta in un Parsifal in forma di concerto a Venezia diretto da Sinopoli (1989-90 ?) e pur sconosciuta ebbe un successo tale da far ritenere a tutti i presenti che un vuoto era stato colmato (se pensi alla Kundry della Veizovich o della Jones che avevano regnato nel decennio precedente)
Caro Albertoemme,
Per mio gusto, tra quelle sentite live, e viste,
la Leonore di Gundula Janowitz, (cantante da me molto stimata almeno sino al 1970), e’ insieme a quelle di Gunilla Af Marmorg, Klara Barlow e Leonie Rysanek il peggio di quello che ho ascoltato in questo tutt’altro che ineseguibile ruolo.
Intendo dire che sara’ ineseguibile per chi non e’ in grado di cantare bene, come la quasi totalita’ di quelle carrettone, o di quelle ridicole bombardiere, di tutte le epoche dall’avvento del disco, che lo hanno interpretato.
Sono d’accordo con te nel ritenere la Meier una delle migliori interpreti di Fidelio del dopoguerra.
Visto che hai parlato anche di Kundry, ti diro’ che, in generale, e per me, quella di Waltraud e’ la migliore degli ultimi trent’anni, ma, se anche si dovesse parlare di Venus, il giudizio non cambierebbe. De gustibus….
Dissento invece da qualsiasi e pur minimo apprrezzamento su Cura.
Anch’io dovendo proprio scegliere, sceglierei Kaufmann.
Sempre De gustibus…..Miguel.
bombardone come la leider? O la flagstad? Bene, tieniti quella lamiera sfatta della meier, io mi tengo loro anche sfatteq nelle quattro tesi della pasta credo tu possa ritrovare le ragioni del tuo gusto deforme in fatto di leonore.
Ahahahahaah, sei quasi commovente, Giulia!
No, la maggior parte delle cantanti non significa la Leider, superiore alla Meier sotto qualsiasi aspetto, significa semplicemente, migliore della maggior parte di. Esattamente come ho scritto.
E, se comunque non sei d’accordo con me me ne faro’ una ragione.
Non e’ la prima volta, non sara’ l’ultima, e non me ne frega un cacchio. Ciao
Caro Miguel immaginavo che la prestazione della Janowitz non fosse tutta rose e fiori e presumendo che tu non te la fossi persa t ho chiamato in causa. Io peraltro ascoltai quel soprano nel 1979 ed era molto scassata nel registro acuto. Detto questo mi pare che potresti confermare a Duprez che qualcuno (Leonora III a parte che fu un successo memorabile) storse il naso sulla concertazione di Bernstein (ovviamente non dico che fu contestato) forse accusandolo di essere stato molto disinvolto nello stacco dei tempi e sull’agogica che, sempre per sentito dire, dal vivo parve assai singolare a chi ebbe la fortuna di ascoltarlo. Quasi che quel Fidelio fosse un po’frammentato anche se pieno di energia e caleidoscopico nell’effetto complessivo.-
Per Alberto.
Ciao,
Io non ho mai assistito, in tanti decenni ad una serata forse escluso l”Assedio di Corinto” (Shippers) a Milano, nella quale qualcheduno non storcesse il naso; lo storsero pero’ alcuni togatissimi critici il giorno dopo, caro Alberto. Ti posso dire che io non l’ho storto (Grandissimo Bernstein) per niente. Lo storsi per il cast, a parte Popp nel duetto e nel terzetto.
Per Olivia :
Ortrud magnifica, Olly no, troppi difetti vocali per essere magnifica….ma una delle migliori Ortrud degli ultimi decenni, si. Eccome.
Si Miguel, concordo, in particolare sulla sua Kundry e Venus. E’ innegabile che ci siano vistosi problemi, gli acuti sono spesso delle urla, eppure, la trovo anche io una grandissima interprete, con una gigantesca presenza scenica e la capacità di dare significato a ciò che canta. Anche la sua Ortrud mi pare magnifica .
Senza contare che Leonore è tutt’altro che ineseguibile, lo diventa se si parte dall’idea che si tratti di una virago wagneriana e non – come sarebbe più corretto e sensato – dell’evoluzione di Fiordiligi e Donn’Anna (vocalmente parlando). Il problema con Fidelio sta nell’approccio scorretto.
……e poi nel cantare male, perchè la meier se anche la facessero approcciare giusta, non c’è approccio che tenga. ha inciso mozart con baremboim e canta orrendamente. la cantante non esiste.punto.
in teoria é così, soprattutto se si pensa che fu anche un cavallo di battaglia della Malibran. Che però il ruolo sia stato inquinato dalle virago vagneriane é un dato di fatto che non deve provocare rassegnazione ma nemmeno sconcerto visto che é dai tempi della Nilsson che non vi é più una cantante che almeno faccia tutte le note in scioltezza compresa la cadenza che porta la voce al si (forse la De Vol -dovrei riascoltare la mia registrazione della produzione Maazel/Strehler- ma con uno spessore di voce che come per Brunilde risultava appena sufficiente). E’ probabile che la prassi esecutiva abbia privilegiato la cantante di un certo peso specifico che regga le concertazioni standard (si pensi come esempio standard a quella di Welser Most alla Scala) a scapito della cantante più duttile in grado di eseguire senza tensioni, forzature e conseguenti stonature i passaggi più impervi.-
la malibran cantava opere di belcanto e affini. Ma te la vedi la maier cantare i puritani o il tancredi? Ma lasciamo perdere …..la meier è una non cantante, una che non sa cantare e che nel tempo della nilsson non avrebbe potuto aprire bocca in pubblico. Non ha nessuna tecnica.
Certo, la colpa è dei tecnici del suono. E qui la scusa qual è? Le scarpe troppo strette? “Frustare la sella per risparmiare il cavallo”, anzi, l’asino: http://www.youtube.com/watch?v=vq33AGWRMwI
che ti devo dire? Nello specifico che i difetti che hai elencato sono meno evidenti, più in generale che mi dispiace un po’ che tu come un’altra decina di top player di questo sito sia orgoglioso di far parte di quella minoranza di pubblico che non si diverte ad ascoltare la Meier o la Bartoli, Florez, la Ganassi e Kaufmann. Ma tutto finisce qui “chacun a…”
Caro Alberto, direi “in teoria” e pure “in pratica”. Il discorso è semplice e logico: le virago wagneriane alle prese con Leonore hanno faticato sempre (tralasciamo per un attimo la Meier che, comunque, vuole inserirsi in quella corrente che ha wagnerizzato Fidelio), da qui nasce la leggenda di “parte ineseguibile”. Tu dici che è diventata così per prassi. Certo. Non deve suscitare scandalo, ma suscita stupore il fatto che si perseveri nell’errore. Ora si è creato un circolo vizioso: Beethoven riletto in chiave tardo romantica, orchestra pompata e massiccia, necessità di voci “potenti” per superare lo strumentale. Ovvio che in questo modo le cadenze e la freschezza musicale della scrittura vocale vanno a farsi benedire e da qui si incolpa Beethoven. Non esistono parti ineseguibili, ma cantanti incapaci di eseguirle (o non adatti a tale repertorio). Il discorso su Leonora vale anche per Florestano (la cui aria diventa ineseguibile da voci impostate per il repertorio wagneriano). Sino a che non si tornerà a concepire Florestan come un’evoluzione di Idomeneo o Tamino e Leonore come evoluzione di Fiordiligi o Donn’Anna si ascolteranno sempre porcate come quella proposta qui. Grande colpa, naturalmente, va alla bacchetta che – coerentemente, ne va dato atto – appesantisce qualsiasi cosa sfiori: da Beethoven a Mozart a Wagner.
Ps: comunque la Meier in talune incisioni wagneriane (risalenti a qualche anno fa) mi piace, e pure come Isolde alla Scala
apprezzo la tua serenità di giudizio. Voglio domandarti però (e in parole molto povere) se ritieni che per favorire il tuo progetto di Fidelio il suo, chiamiamolo “dimagrimento”, possa andare più in la di quello operato da Muti nel 2000 che ha fornito una concertazione più analitica e meno densa (non ho ascoltato dal vivo Barenboim che in disco sembra sempre più leggero di come é poi dal vivo -acustica di Bayreuth a parte dove il suo Wagner suonava come si suol dire “cameristico” e non ho ascoltato dal vivo Bernstein che diede un’impronta virtuosistica e si avvalse di due protagonisti “chiari” come Kollo e Janowitz). Su Florestan (parte ineseguibile?) rimanderei la discussione perché il ruolo, pur difficilissimo, é meno complicato di Leonore e di fatto é limitato a due interventi più il concertato finale ed é personaggio con un carattere meno articolato e più semplice da esprimere. Circa i riferimenti alla Jurinac e alla Crespin mi documenterò però siamo in epoca Nilsson/Ludwig e io ho parlato di prassi dal 1980 ad oggi.-
Chi ha sentito la La Leonore della Crespin (Chicago) o della Jurinac (Covent Garden) sa per esperienza diretta che la parte può essere cantata… e con quali risultati!
Carissima Lily,
Se intendi parlare delle recite di Fidelio del 1961 dirette da klemperer al Covent Garden, hai tutta la mia approvazione, anzi,
ritengo Sena Jurinac, tra le cantanti del dopoguerra e in particolare in quelle recite, emotivamente ancor piu’ che vocalmente, la miglior interprete del ruolo. (E tu sai benissimo che non mi prostro tutte le volte che sento nominare la Jurinac!) Ciao cara.
Sì Miguel, proprio a quelle mi riferivo, oltre alle recite della Crespin a Chicago nell’autunno del 1963 (stesso Florestan Vickers) di cui non riesco a trovar traccia da nessuna parte se non nella mia memoria. Queste femminilissime Leonore hanno offuscato persino il ricordo della grande Nilsson con il grande Bernstein alla RAI di Roma nel ’70.
Alla Meier e a Muti, e al loro deludente, impresciuttito Fidelio scaligero devo una perdita d’interesse in questo capolavoro che dura tuttora.
Beh, che Beethoven sapesse scrivere veramente bene per le voci mi sembra comunque arduo da sostenere. Basta prestare orecchio anche alla sua Nona sinfonia. Non c’è direttore che tenga, nemmeno il mio amato Fricsay: in alcuni passaggi coro e solisti sono inevitabilmente costretti a “urlare” come matti.
Io rifiuto il concetto di “scrivere male per le voci”. Rispetto a chi? Rispetto a quali regole? Difficoltà non è “errore”, ma ricerca di determinati moduli espressivi. E poi questa presunata incapacità è concetto davvero relativo: tutti i compositori che hanno dato una svolta all’evoluzione della storia musicale sono stati accusati di questo. Persino Monteverdi, accusato da tale Artusi (nome oggi sconosciuto) di aver degenerato il canto e di non saper scrivere per le voci.
Cioè, ragazzi miei, non è che il canto si esaurisca in Rossini (che pure si dovette sorbire le medesime accuse).
Beethoven scriveva esattamente quel che voleva scrivere…e se ben eseguito nessuno è costretto – nella Nona – a urlare come un forsennato.
Salvo il soprano per prendere il si nat in chiusa
Beh, insomma, se ti riferisci a quello di “dein sanfter Flugel weilt” è posto al termine di una semplice scala ascendente (FA#-SOL#-LA#) per poi risolversi in un comodo FA#…certo è che se ci si arriva dopo aver pasticciato con la precedente cadenza e in debito d’ossigeno allora si strilla. Ma, ti domando, che cantanti vengono impiegati normalmente nella Nona?
La nona è davvero molto acuta… tenori e soprattutto soprani hanno una parte massacrante per la gola.
Per la Meier è colpa dei tecnici del suono, per un’ altra la colpa è del direttore, per un’ altra ancora magari la causa è che quel giorno le era morto il gatto…albè, ma sempre ad accampare scuse stiamo? La Meier canta male, punto.
Tra l’altro non si capisce perché quando ascoltiamo i live, spesso di qualità pessima, di una Callas, di una Gencer o di una Sutherland, ci rendiamo comunque conto di ascoltare delle grandi… mentre quando ascoltiamo dei cantanti mediocri, la colpa è dell’incisione… sono d’accordo sul dire che le incisioni o le registrazioni non rispecchino fedelmente la realtà; ma credo che, registrati, i grandi sembrino un po’ meno grandi, e i mediocri un po’ meno (o un po’ di più, dipende dai punti di vista) mediocri.
Rispondo ad Alberto su Fidelio: non è tanto un “dimagrimento”, ma una “restituzione” alle sue reali dimensioni. Ne ho già parlato altre volte, ma continuo a ritenere che l’opera di Beethoven abbia subito un costante fraintendimento. La prassi esecutiva l’ha riletta in chiave wagneriana (ed è un fatto incontestabile), pensando più a quel che è venuto dopo rispetto alle sue origini. Tale fraintendimento si inserisce nella generale (e scorretta) “romanticizzazione” di Beethoven. Ma è un discorso lungo. Torniamo a Fidelio: la sua trasformazione in operona para wagneriana ha comportato un generale inspessimento delle dimensioni sonore, uno strumentale ingigantito e tendenzialmente prevaricante. Di conseguenza le voci sono state ricercate tra le più possenti e massicce – per reggere la portata di un’orchestra appesantita – e questo a discapito della chiarezza e dell’agilità. Ora a mio giudizio si dovrebbe ripartire da Mozart e Haydn e pensare a Beethoven come naturale evoluzione di quel mondo sonoro (anche se l’estetica cambia). Ripensare al rapporto archi/fiati, alle dinamiche orchestrali, al rapporto voci/orchestra. Florestan e Leonore discendono da Tamino, Idomeneo, Fiordiligi, Donn’Anna, forse Pamina… Non sono certo una prova generale di Siegmund e Sieglinde (come spesso capita di sentire). Restando ad esempi concreti però non posso non rilevare come ogni volta che voci wagneriane approcciano Fidelio, i problemi emergono e si ricomincia la solita solfa del Beethoven incapace di scrivere opere o di parti ineseguibili. Eppure queste parti sono state eseguite senza problemi durante la prima metà dell’800! Io credo che se un certo approccio non funziona allora si deve cambiarlo. In generale è da cambiare l’idea complessiva di Fidelio. Se lo si riporta ad una certa estetica allora le cose funzionano meglio. Del resto non hai mai notato come – nell’ottica tradizionale wagnerizzante – i personaggi di mezzo carattere non si sa come affrontarli? O si tagliano le arie o si trasformano in macchiette. Questo accade perché l’approccio è sbagliato.
Circa le esecuzioni: non ho ascoltato Muti nel 2000, ma una certa maggior analiticità sarebbe ben gradita. Non si tratta però di trasformare Beethoven in Mozart, ma di leggerlo partendo da Mozart e Haydn, anziché da Wagner.
Comunque la mia ricetta sarebbe questa: riduzione degli archi, maggior rilievo dato ai fiati e ai legni, tempi più agili e vivi, voci in grado di eseguire le agilità e padrone di una tecnica più belcantista. Ma tutto ciò importa relativamente, se non cambia l’approccio estetico…però è dura far capire a certi direttori che Beethoven non è Bruckner!
Il mio Fidelio di riferimento resta comunque Bernstein.
che ti auguro di possedere in vinile perché é ancora migliore di quello in CD (io li ho tutti e due ovviamente). Purtroppo capita (per fortuna non sempre) che nel riversamento qualcosa si perda, anche il Fidelio DECCA di Maazel per esempio in vinile sembra più brillante.-
E’ la consueta, eterna questione. E’ giusto contestualizzare un’opera da cui ci separa una distanza temporale considerevole, una distanza all’interno della quale è cambiato tutto, storia, società, pensiero filosofico, stile musicale, stile letterario e via dicendo? Riportarla quindi all’ambienrte in cui è nata, ai presupposti che l’hanno resa possibile? E’ ciò che diceva Lily all’interno di un post, mi sembra, sul recente “Nabucco” alla Scala: un’interpretazione corretta è quella che misura la distanza che ci separa da quell’opera. Altrrimenti abbiamo sopraffazione e personalizzazione; il nostro io si sovrappone a quella creazione e praticamente la cancella. In un ambito diverso, quello che opponeva il “Simone” diretto da Panizza a quello diretto da Abbado, è quanto diceva tempo fa anche Giulia, riecheggiando quasi alla lettera Celletti: l’interpretazione deve essere “evocativa” di un clima, del clima nel quale affondano le radici di una creazione musicale. L’interpretazione vale appunto in quanto, con un atto che ricorda la creazione dal nulla, riesce a ricreare ciò che non c’è più. Ed è esattamente quanto dice Duprez quando ricorda che è necessario riscoprire le radici haydniane e mozartiane di Beethoven; è necessario far vedere che Leonore discende da Donna Anna e da Fiordiligi e non è un’antesignana di Bruennhilde. Tutto bene e ci sono evidentemente fortissime pezze d’appoggio per questa idea. Chi non desidera la contestualizzazione di un’opera? Nessuno, evidentemente. E’ una mentalità storicistica diffusissima. Ciò in cui però io sono in disaccordo con Duprez è il fatto che lui consideri un “errore” una prospettiva diversa. Un “errore” per il fatto che magari, dal momento che ci si pone in un punto di vista diverso, le cose tornano peggio. Magari l’esecuzione vocale è più faticosa, l’esecuzione orchestrale è meno analitica. In altre parole, Wilhelm Furtwaengler con Martha Moedl o Kirsten Flagstad non è, per tornare ai miei ricordi dal vivo, Zubin Mehta con Sena Jurinac o Leonard Bernstein con Gundula Janowitz. Eppure, un’interpretazione che si ponga come scopo quello di far vedere non più la lontananza bensì la vicinanza con ciò che siamo noi non credo la si possa tacciare di “errore” in linea di principio. Le opere, quelle grandi davvero, non sono quello che sono unicamente per il loro passato ma anche per il loro futuro, perché aprono nuove strade. Sono evidentemente radicate nel presente; nessuno può uscire dalla propria pelle. Ma, appunto perché sono grandi creazioni, pronunciano parole che non sono agganciate a quel presente ma valgono per tutti i tempi. E, se valgono per tutti i tempi, tali parole vengono accolte dal futuro secondo i modi che a quel futuro appartengono. E’ qui che ha origine la decontestualizzazione, che può tranquillamente appartenere alla grande interpretazione così come vi può appartenere la contestualizzazione. Sono le due facce di ogni rapporto del presente con il passato. Il testo esiste in una sua autonomia e concretezza, su questo non c’è dubbio; e non può essere sottoposto ai più vari e deliranti esperimenti di decostruzione, quasi fosse composto soltanto di tasselli i quali, reciprocamente autonomi e non inseriti in una struttura necessaria e regolata da ferree leggi, possono essere spostati a piacimento dall’interprete, improvvidamente trasformato in unn giocatore di dama. Quel medesimo testo tuttavia può essere sottoposto ad analisi interpretative molto diverse, che cambiano con il cambiare dei tempi; per cui, a mio modesto parere, le interpretazioni di Furtrwaengler che spostano Beethoven in avanti non è giusto incasellarle nella categoria dell'”errore”. Fanno vedere invece in che cosa Beethoven si distanzia dai suoi modelli e che cosa presagisce. Lo fanno attraverso una forzatura; ma è una forzatura, sempre a mio parere, benvenuta e salutare. Del resto, sono gli stessi autori che ci autorizzano a questo. Nessun grande musicista è mai stato un reazionarucolo da quattro soldi. Quei musicisti possono aver avuto momenti di cattivo umore, di difficoltà personale; in questi momenti possono aver espresso disgusto per il presente e nostalgia del passato. Così è stato per Rossini. Ma l’apprezzamento del modernissimo Hegel, che preferiva Rossini a Mozart, ci fa capire come Rossini avesse ben più aperto un’epoca nuova che non chiuso un’epoca passata. E, del resto, è pensabile un romanticismo europeo senza il luminoso esempio del “Guillaume Tell”? E Verdi? Verdi che, attaccato dagli scapigliati (almeno così mi sembra), pronunciò la famosa frase: “Torniamo all’antico e sarà un progresso”? Quando mai Verdi era tornato all’antico? Mai, assolutamente mai. Quindi anche il cammino delle opere, scavato in un difficile equilibrio fra conservazione e cambiamento, tradizione e rivoluzione, non fa che riflettere l’autentica volontà di chi le ha scritte. Anche Furtwaengler dunque, quando immerge in un clima da tregenda wagneriana il “Freischuetz” e lo sottrae al protoromanticismo cui effettivamente appartiene, fa qualcosa di rilevante e profondamente giustificato. Nello stesso modo in cui la tensione sonora quasi insostenibile che Klemperer e Furtwaengler imprimono al “Don Giovanni” stravolge il modello nell’esatto momento in cui ci fa capire qualcosa che in quel modello è presente, seppur in nuce. E’ un terreno evidentemente pericoloso, sfuggente, in cui si corre sempre il rischio di cadere in qualche mancanza, in qualche insufficienza. Ma secondo me nessun interprete veramente grande può permettersi il lusso di non correre questo rischio. Perché, diceva Goethe, “solo l’insufficente è fecondo”.
Marco Ninci
“Le opere, quelle grandi davvero, non sono quelle che sono unicamente per il loro passato ma anche per il loro futuro….. pronunciano parole che non sono agganciate a quel presente ma valgono per tutti i tempi.”
Come non essere d’accordo? Il Ring di Furtwaengler e quello del tardo Karajan – distanti anni luce – sono egualmente legittimi e compiuti. Come mi è già capitato di dire in altro contesto la bravura sta nel far tornare i conti.
Ciao.
E per spiegare cosa io intenda con “far tornare i conti” riprendo il discorso del Don Giovanni di Klemperer dove – a mio parere – i conti non tornano per le precise ragioni espresse altrove da Duprez.
Caro Marco, ti correggo: non dico affatto che si tratti di “errore”. Dico – nel caso di Fidelio – che questo cambiamento di prospettiva (o salto in avanti, se preferisci), non funziona del tutto perché per quanto bella possa essere la concertazione, i nodi (vocali) vengono al pettine. Io non credo nell’esecuzione come esercizio archeologico del “riproporre le condizioni originali”, né credo che gli interpreti (direttori e cantanti) debbano farsi “esecutori testamentari” delle presunte volontà autoriali. Dico, però, che se un certo approccio non funziona – e in 70 anni di storia discografica Leonore e Florestan sono sempre stati risolti con difficoltà evidente – allora qualcosa da rivedere c’è. Poi possiamo parlare della grandezza (assoluta) del Fidelio di Bernstein o di Furtwaengler o di Knap (uno dei miei preferiti). La cosiddetta “correttezza” (che tanto piace ai filologi) non può essere il fine di un’esecuzione musicale. E poi la storia esecutiva di Beethoven è talmente ricca e varia che non può essere inquadrata in due categorie (giusta e sbagliata).
Ok la Meier è molto discutibile ma mi terrei 30 Meier piuttosto che una Stemme o Theorin!! :O
Certamente.