Giovedì scorso il Metropolitan ha riproposto per la prima volta in questa stagione, e contestualmente trasmesso in audio streaming sul proprio sito Internet, la locale produzione del Conte Ory. Protagonista l’indiscussa vedette del canto rossiniano di oggi Juan Diego Florez, di fatto monopolista o quasi della parte. Al suo fianco, in luogo dell’annunciata Nino Machaidze, un’altra stella o quantomeno stellina dello star system, la (ex?) studentessa dell’Accademia scaligera Pretty Yende, al suo debutto nel teatro newyorkese.
Doveva essere una serata di festa e tale è stata, stando agli applausi sempre calorosi che hanno accolto, nel corso della recita e al termine della stessa, tutti gli esecutori. Poi alla lettura delle recensioni, pubblicate nelle ore successive, l’aria di festa si è notevolmente rarefatta.
Non c’è forse tra le opere del Rossini francese un titolo più fascinoso e sfuggente, nonché di più ardua realizzazione, dell’Ory, un’opera di fatto nata dal “trapianto” di una cospicua parte del Viaggio a Reims e che tuttavia regge perfettamente, malgrado le abbondanti parodie e la vicenda, diciamo esile, purché l’esecuzione rispetti la garbata ironia che costituisce l’anima stessa di questa musica. In difetto di una lettura che unisca malizia ed eleganza l’Ory non risulterà il capolavoro che in effetti è, ma una farsa alquanto scollacciata, oltre che poco originale.
Alla testa delle compagini metropolitane Maurizio Benini, il di cui vasto repertorio fa pensare a un emulo di Gino Marinuzzi o almeno di Richard Bonynge, ha dispensato in ogni punto della partitura scarso nerbo, poca o punta coordinazione tra buca e palco, molesti clangori. In questo senso i punti maggiormente significanti della serata sono stati i quadri d’introduzione strumentale, in primis quello del temporale, gli ensemble dei cavalieri al secondo atto e il finale primo, ma lo stesso terzetto, eseguito senza alcun abbandono sensuale o pregnanza di suono, che compensasse le carenze delle voci solistiche, era indicativo di un approccio come minimo svalutante rispetto alla complessità del testo musicale che si sarebbe dovuto allestire.
Quanto alle già richiamate voci solistiche verrebbe voglia di dire: ascoltatevele. Youtube, ormai per autarchica antonomasia “il tubo”, permette di ascoltare tutta o quasi la performance in questione e a volte propone, grazie ai meccanismi di associazione tipici dei motori di ricerca, involontari ascolti comparati che risultano a dir poco illuminanti. Quindi ci limiteremo quanto segue:
Florez alla cavatina esibisce voce artificialmente gonfia in zona do-mi centrale, con conseguente difficoltà nel legare i suoni e sistematico imbarazzo a salire agli acuti, che non sono i mi bemolli “astrali” del finale parigino di Zelmira, ma semplici (si fa per dire) la e si naturali. Nella ripresa del tema principale il tenore peruviano, solitamente ligio allo spartito, si “sconta” alcune quartine vocalizzate per eseguire, malamente, il re naturale e chiude con un do egualmente sforzato. Analoghe difficoltà a reggere la tessitura decisamente alta del ruolo si riscontrano nell’inno bacchico al secondo atto, in cui i do interpolati sono parenti prossimi di quello che conclude la cavatina. In altre occasioni (duetti con Isoliero e Adele e terzetto finale) Florez ricorre o almeno tenta di ricorrere al falsettone o misto rinforzato, ma i risultati richiamano maggiormente il falsetto puro e semplice e talvolta, come all’attacco e nel cantabile del duetto con la Contessa, si risolvono in suoni “indietro” e di precaria intonazione. E parliamo di un cantante, che ha di fatto costruito la propria carriera sulla facilità del registro acuto e sovracuto. Sarebbe urgente, dopo una simile prova, un serio ripensamento della tecnica di canto, o per lo meno un maggiormente sistematico e costante utilizzo della stessa, e magari anche un’attenta riconsiderazione del repertorio e degli annessi desiderata. In fondo non sarebbe la prima volta (Robert le diable).
A eclissata stella dell’Accademia scaligera il teatro statunitense risponde con un’altra allieva ambrosiana. In altra epoca forse avrebbero proposto Mariella Adani (e magari Ugo Benelli nella parte del titolo). La signorina Yende conferma le attese (pour ainsi dire) legittimate dal Don Pasquale dell’anno scorso: vocina di scarso peso specifico, inesistente in prima ottava, con un bel “buco” al centro (indice di insufficiente sostegno), acuti puntuti e fischianti, emessi a costo di sostanziosi “sconti” sulle battute che li precedono o raggiunti mediante comode “scalette” in luogo di altre e più complesse ornamentazioni, agilità come minimo approssimative, propiziate da rumorose riprese di fiato. Il livello è in altre parole quello di un’allieva di conservatorio, e neppure tra le prime del suo corso. Il “meglio” del soprano, alle prese con una parte che ha se non altro il vantaggio di una relativa brevità, si manifesta non tanto nell’entrata quanto nel duetto con Ory e nel finale, in cui il tentativo di accentare alla chiusa del terzetto dà luogo a farfugliamenti diffusi e compromette la tenuta dell’intonazione nel registro medio. Sua degna comare è Karine Deshayes (Isoliero), classica voce di soprano lirico leggero non sfogato, che parla in prima ottava, bercia gli acuti ed è maestra dell’agilità spappolata. Ascoltandola non si capisce, o meglio, si capisce anche troppo bene come abbia potuto risolvere una parte come quella di Elena nella Donna del lago, affrontata all’Opéra di Parigi.
Non vanno certo meglio le cose con le voci gravi maschili, Nicola Ulivieri (l’Ajo) e Nathan Gunn (Roberto), il primo ridotto a cempennare malamente l’aria già di Lord Sidney, sistematicamente in affanno sugli acuti e costretto, nel da capo della cabaletta, a “diminuire” fuor di metafora e secondo la moda pesarese, semplificando quindi le fioriture e proponendo variazioni che sono, di fatto, maldestri raggiusti, il secondo chiamato a esibire, accanto e anzi in subordine rispetto alla prestanza fisica, voce morchiosa e traballante, sillabato povero di ampiezza e di colori, legato inconsistente.
I comprimari, capeggiati dalla Ragonda di Susanne Resmark, evocavano quelli che si definiscono scherzi da prete. Cent’anni fa al Met la parte di Ragonda avrebbe potuto essere un cameo di Ernestine Schumann-Heink, fra una Magdalene e una Erda.
O per dirla con i commentatori del Met: another wonderful evening!
Gli ascolti
Rossini – Le Comte Ory
Atto I
Que les destins prospères – William Matteuzzi (1991)
Veiller sans cesse – Nicola Ulivieri (2013)
En proie à la tristesse – Mariella Devia (1988), Pretty Yende (2013)
Ciel! O terreur, o peine extrême – Judith Raskin, Shirley Verrett, Helen Vanni, Carol Toscano, Frank Porretta, Norman Treigle, Gimi Beni – dir. Thomas Schippers (1962), Pretty Yende, Karine Deshayes, Susanne Resmark, Ashley Emerson, Juan Diego Florez, Nicola Ulivieri, Nathan Gunn – dir. Maurizio Benini (2013)
Atto II
Ah, quel respect, Madame – Juan Diego Florez e Luciana Serra (2000)
Mamma mia, fa oggigiorno il Florez non era uno dei pochi a cantare come si deve (e il repertorio giusto, tra l’altro)?
Sic transit gloria mundi.ma senza gloria.
Anche se vale sempre il discorso che un giudizio compiuto lo si può dare in teatro io degli applausi convinti del pubblico poco me ne curo perchè anche se tra gli ascoltatori ci fosse qualcuno che s’è accorto delle pecche, è difficile contestare un divo e soprattutto a New York credo che lo abbiano fatto ben poche volte (insomma non sono come quei cattivoni del loggione della Scala ). Però, già ricordo una passata furtiva lagrima bissata a New York, che non ho mai ascoltato una furtiva lagrima più noiosa di quella. Certo che se mi dite che il registro acuto, ciliegia sulla torta della vocalità di Florez, sta iniziando a cedere, mi chiedo come potrà cantare, semmai lo farà, il Tell, che già è un ruolo che vedo comunque al di fuori della sua vocalità.