“Invano Alvaro…Le minacce, i fieri accenti”. Antiche sfide, prima puntata.

“Invano Alvaro ti celasti al mondo” ed il seguente “Le minacce i fieri accenti” sono il quarto incontro e il secondo scontro fra don Alvaro, che veste i panni monastici di padre Raffaele e don Carlos. E’ quest’ultimo che cerca, dichiarandolo apertamente, animato dalla sete di vendetta, lo scontro che avrà, giusta la forza del destino, esito per lui esiziale davanti lo speco dove la sorella Leonora espia le proprie presunte colpe.

Sia detto subito e sia traccia per tutta la teoria di duetti che in quest’anno verdiano andremo a proporre ed esaminare i due cavalieri si scontrano secondo le regole del loro rango e status come si conviene ai protagonisti di un drammone di cappa e spada.

Soprattutto nelle registrazioni acustiche per la lunghezza del duetto si registrava soltanto la sezione che comincia con il cantabile di don Alvaro “le minacce i fieri accenti”, il cui tema era già stato anticipato nella sinfonia dell’opera.

Nonostante tale limite talvolta abbiamo dovuto proporre versioni ridotte del grande duetto. Accade per esempio in questa prima riflessione dedicata ad Augusto Scampini che si scontra con un giovanissimo e vigoroso Luigi Montesanto e ad una delle registrazioni top del duetto quella di Enrico Caruso con l’eloquentissimo  Pasquale Amato. Sempre con Caruso, al fianco di Giuseppe de Luca (anche lui previsto nella nostra teoria di duetti e duelli verdiani), il titolo aveva conosciuto la sua prima rappresentazione sulle tavole del Met il 15 novembre 1918, data che per i melomani è famosa per il debutto di una voce strepitosa non al Met, ma in palcoscenico. Evento che capita quando si hanno le doti tutte di Rosa Ponselle.

Questo confronto rappresenta l’ennesima occasione per riflettere sulla vocalità tenorile prima e dopo Caruso. Perché Augusto Scampini (1880-1935) fu ritenuto l’ultimo tenore di forza all’antica, quelli come Tamagno, Affre, Escalais, Franz,  Urlus, Slezak, Yershov, il primo Zenatello e Scampini, appunto, il cui repertorio di imperniava su Ugonotti, Ebrea, Africana, Profeta, Aida, Trovatore, Otello e magari Sansone, e taluni ruoli wagneriani come Tannhauser, Lohengrin sin tanto che Caruso con la sua voce calda, mediterranea, suadente, ma scarsamente epica e stilizzata se li annesse al repertorio soprattutto nella fase finale di carriera, trasformandoli con le buone lui (poi sarebbero venute le cattive) in antesignani dei ruoli e dell’accento verista.

Preveniamo le conclusioni precisando che taluni grandi protagonisti del titolo avevano vocalità ancora ottocentesca. Alludo a Martinelli e Lauri Volpi, ma il primo al Met tutto fece per essere come Caruso e per il secondo il pesante orchestrale, la relativa leggerezza dei propri centri  e la compresenza di Pertile, Gigli e Merli  limitò i rapporti con il ruolo del discendente degli Incas.

Quanto all’esecuzione di Scampini sin dalla prima frase “Le minacce e i fieri” colpiscono l’adesione ai segni di dinamica, ovvero le forcelle di “venti”, “perdonatemi fratel”, la dizione nitida e scolpita, la perfetta esecuzione del passaggio superiore che comporta squillo e ampiezza sin dai primi acuti come accede con il sol di “fronte al fato” con un suono oscurato alla perfezione, effetto che ricompare identico alla chiusa del duetto con la frase “l’inferno non  trionfi” Siccome è la registrazione di Scampini, più che un duetto è tagliato l’intervento di don Carlo “tu contamini” e si riprende con il “non non fu disonorata” dove Scampini rispetta parzialmente l’indicazione di “dolcissimo” su “sulla terra l’ho adorata” ed anche il dolce sul conclusivo “questo cor”. In compenso Scampini esplode, senza esagerazioni ed eccessi, ma con lo squillo e la penetrazione del suono  sul la acuto di “s’ella m’ama”. Poi ci sono le libertà che i tenori dell’800 si prendevano. Ne segnalo due: il trasporto d’ottava del si bem grave della frase “se il rimorso e il pianto omai” e alla chiusa dell’agitato taglia tre battute per inserire un si nat acuto. Le due libertà rispondono a due differenti esigenze la prima evitare la nota scomoda e il secondo non solo  per sfoggiare il meglio della propria gamma vocale, ma per rendere il climax drammatico al quale un acuto si presta bene. L’intera interpretazione di Scampini documenta come per molti altri cantanti del tempo che l’interpretazione muove sempre dall’esatta esecuzione vocale e dal dominio della tecnica, che consente rispetto dello spartito e talora amplificazione delle indicazioni contenute nello stesso. Per altro quanto ad acuti e nitidezza della gamma acuta neppure  Montesanto  teme confronti basta ascoltare il fa diesis di “consacro al disonore” ed in generale  la irrisoria facilità con cui regge la tessitura acutissima del duetto.
La registrazione (1911) di Amato e Caruso appartiene alla storia dell’ esecuzione e dell’interpretazione. Don Alvaro fu uno degli ultimi ruoli, che Caruso inserì nel proprio repertorio quando la voce aveva assunto colore scuro e baritonale, tanto che abbastanza di frequente Caruso in questa registrazione suona assai più scuro di Amato, baritono ch praticava metodo di canto e gusto ottocenteschi e che quindi evitava suoni artatamente oscurati e bitumati specie in zona medio alta. Enrico Caruso in questa registrazione  esibisce acuti facili e squillanti, mail difetto o il limite del Caruso nella fase finale della carriera non sono gli acuti estremi ma i suoni centro alti come il fa3 che suonano un poco aperti, come accade nel cantabile “le minacce i fieri accenti”, tanto è che i primi acuti come il sol di “fronte al fato” suonano meno squillanti e penetranti di quello di Scampini, che non disponeva de fascino timbrico del tenore napoletano. In questa registrazione il timbro di Caruso è bellissimo e l’interprete, sin dal recitativo iniziale è misurato e vario. Basta sentire  il trapasso fra l’iniziale “fratello” e l’immediatamente successivo “don Carlo voi vivente”. Non sono due voci diverse come accadeva  ai tenori di scuola ottocentesca, che spesso riuscivano ad emettere la medesima nota in modi differenti,  ma sono due accenti diversi. E’ naturale che il Caruso  della fase  ultima di carriera sia rispetto a Scampini meno ligio allo spartito quando lo stesso preveda forcelle ed indicazione di dolce o addirittura dolcissimo, salvo quello previsto su “l’amo ancora” mentre don Carlo lancia le proprie invettive di “non si placa”. Nella frase di conducimento “se i rimorsi e il pianto mai”; il tenore napoletano è ligio allo spartito scendendo al si grave e, nel confronto con Scampini, talora risulta più singolare. Ma chi in questa esecuzione  varietà e singolarità di fraseggio, oltre che  esemplarità di canto, spettano a Pasquale Amato, che distruggere il famosissimo conterraneo. Basta sentire la nobiltà di accento e morbidezza di emissione con la quale Amato propone il recitativo iniziale, tradito solo da un “sete di vendetta” un poco enfatico, riscattato da un piano  su “l’onor mio”, il seguente “tutto verserò” che cade su un mi acuto, nota scomodissima per il baritono tecnicamente  non completo, emessa da Amato sembra una nota centrale. Eppure Amato tratta, ovvero emette quel suono come un acuto, donde la facilità e lo squillo di quella nota e di quelle più acute per tutto l’arco dell’esecuzione.
Questo tipo di emissione  consente ad Amato il tono vindice e solenne (interpreta un cavaliera di altissimo lignaggio e lo ricorda appena apre bocca)  della frase “ col sangue suo  cancella”. Tutto quando il cantabile “una suora mi lasciasti” in grazie della solidità tecnica è inarrivabile per il legato che rende questo don Carlo nobile ed irato, non iracondo, al tempo stesso. In questa esecuzione lo squillo del fa diesis acuto di “ti consacro al disonore” non è lo stentato e soffocato bercio che da tempo udiamo in questa scena, ma la sigla del nobile aristocratico. Interpretare per Amato, cantante l’800  nella mente era prima di tutto respirare e cantare.

 

 

È singolare che del baritono per certi versi più simile (in primis nel gusto) a Caruso sopravviva un solo disco realizzato in coppia con il tenore napoletano, il duetto dell’Otello. Titta Ruffo incide la sfida al convento della Madonna degli Angeli assieme al tenore spagnolo Manuel Izquierdo (italianizzato in Ischierdo), che sfoggia voce di bel timbro, piena e sicura almeno fino al la acuto (il si bemolle di “s’ella m’ama” è un suono duro e sforzato).

Alle prime battute (si comincia direttamente con il cantabile “Le minacce i fieri accenti”) Ruffo non ha varietà di accento e di colori comparabile a quella esibita da Pasquale Amato, ma arrivato allo scomodo passaggio “che tradita abbandonasti” sale con irrisoria facilità al fa bem acuto rispettando l’indicazione dello spartito “con forza” (purtroppo non le forcelle previste dall’autore). È poi ovvio che l’indicazione “cupo” alle susseguenti parole “all’infamia e al disonor” sia onorata come meglio non si potrebbe dalla voce scura e possente del baritono pisano. Ischierdo risponde legando la frase “ve lo giura un sacerdote”, che culmina in una smorzatura sul mi bemolle, alla successiva “sulla terra l’ho adorata come in cielo amar si puote”, per la quale Verdi prescrive “dolcissimo”: la ripresa di fiato, che pure avviene, è difficile da cogliere e soprattutto gestita con grande musicalità. Ruffo replica realizzando con straordinario vigore la frase “non si placa il mio furor per mendace e vile accento”, in cui la voce del baritono è chiamata a far da pedale alla salita al la bem acuto del tenore. Un consistente taglio conduce direttamente alla ripresa del tema principale “no l’inferno non prevalga” e al culmine dell’incisione per quanto riguarda la performance del baritono, che nell’infliggere il cavalleresco schiaffo, rivolto a don Alvaro e più ancora al denegato onore del medesimo, è chiamato a salire dal registro centrale (do diesis “S’ora meco”) a quello acuto. In situazioni come questa si apprezza di solito lo “scalino” nella voce grave maschile, laddove invece Ruffo, complice anche la rigogliosa dote naturale, sfoggia un suono compatto e omogeneo, dando luogo sulla nota estrema (fa diesis acuto) a una perentoria deflagrazione musicale, che prepara l’incandescente epilogo di quest’ultimo fra i quattro incontri destinati nell’opera a tenore e baritono (analoga densità di duetti si ritrova solo in alcune opere francesi, dove è di norma destinata alla coppia degli amorosi: si pensi ad esempio a “Roméo et Juliette”).

 

 

Gli ascolti

Verdi – La Forza del Destino

Atto IV

Invano Alvaro…Le minacce, i fieri accenti

1906 – Emanuele Ischierdo, Titta Ruffo

1911 – Enrico Caruso, Pasquale Amato

1913 – Augusto Scampini, Luigi Montesanto

2 pensieri su ““Invano Alvaro…Le minacce, i fieri accenti”. Antiche sfide, prima puntata.

  1. Scusa Massimo, ma in che senso aprirebbe? A me sembra che canti con i centri alti come debbono essere, non aperto…
    La voce di Scampini è esemplare, perché il suono è chiaro, limpido, pulito, spontaneo e sempre coperto il giusto: tanto che quando gira in acuto, trova il suo naturale “oscuramento”. E sottolineo: naturale.
    È un tenore che apprezzo molto, la classica “lezione di canto” dove l’insegnamento principale è: usa la tua voce e non inventartene alcuna!
    Se questo vuol dire tenore ottocentesco, allora per me i tenori devono essere tutti ottocenteschi.
    E un’altra cosa. Scampini è la dimostrazione che l’arte canora si apparenta al michelangiolesco “levare”: allenarsi e ancora allenarsi affinando il suono per renderlo il più simile possibile alla voce che si usa per parlare (bene): senza trucchi e senza inganni, canta come parla! La stessa impressione che personalmente ho ricevuto ascoltando la Obuhova nell’ascolto proposto da Mancini e negli altri posti in calce.
    Questa è la mia visione delle cose. :)

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