Un pubblico decisamente parco di applausi ha salutato la rappresentazione de La Cenerentola di G. Rossini (1817) andata in scena giovedì 13 dicembre 2012 al Palais Garnier di Parigi: quattro clap-clap poco convinti al termine di ogni aria o dopo i pezzi d’assieme, e, alla fine dello spettacolo, non più di quattro o cinque minuti di applausi di cortesia, qualche sparuto bravò! all’indirizzo degli interpreti principali, qualche urletto. Poi tutti a casa (o in albergo, visto l’elevato numero di turisti, soprattutto orientali, intenti a farsi fotografare nella maestosa platea durante l’intervallo).
L’esecuzione, a dire il vero, è stata nel complesso modesta e, se non noiosa, di certo poco entusiasmante: il primo atto è risultato abbastanza piatto e monotono, mentre nel secondo la narrazione si è ravvivata, facendosi più incisiva e incalzante, a tratti coinvolgente. La responsabilità di quest’esito alterno è probabilmente riconducibile alla direzione d’orchestra, affidata a Riccardo Frizza, ma bisogna forse effettuare qualche considerazione anche sulla messa in scena del capolavoro rossiniano: scene e costumi erano infatti quelli realizzati nell’oramai lontano 1971 da Jean-Pierre Ponnelle (1932-1988) per il Maggio Musicale Fiorentino (se la memoria non mi inganna). Non che l’allestimento risulti particolarmente invecchiato, tutt’altro: le scenografie, i costumi, e la scansione ritmica della vicenda narrata sono ancora elegantemente deliziosi e spiritosi, e la loro attualità dovrebbe forse indurre alla riflessione chi attualmente concepisce regie cervellotiche e strampalate, moderne a tutti i costi. Tuttavia, vuoi per l’assenza del regista (la ripresa era affidata a Grischa Asagaroff), vuoi per gli oltre quarant’anni di successi mietuti in giro per il mondo, lo spettacolo sembra avere in larga parte esaurito la sua irresistibile carica vitale, e ripetersi ormai un po’ stancamente. Non escludo tuttavia che il parziale insuccesso di quella che può a tutti gli effetti considerarsi come un’operazione turistico-museale debba essere attribuito anche allo scarso affiatamento della compagnia di canto.
Veniamo appunto alle voci. Angelina Cenerentola era Marianna Pizzolato. Da seria professionista qual è, la cantante palermitana ha offerto una prova molto buona, e la sua Cenerentola è decisamente migliorata rispetto al debutto pesarese del 2010. L’emissione è ben controllata, il fraseggio particolarmente curato (un esempio su tutti, la frase, davvero commovente e malinconica, In casa di quel Principe / un’ora, un’ora sola / portatemi a ballar!), e il gioco scenico sobrio, simpatico e (auto)ironico. Il rondò finale, poi, è molto più convincente rispetto a Pesaro 2010, anche se si vorrebbe ascoltare una coloratura più pirotecnica ed eseguita con maggior sprezzo del pericolo! A fronte di una performance così riuscita, si deve però riscontrare che la voce della Pizzolato, non particolarmente corposa nel settore grave e ora un po’appannata, ora un po’metallica nel settore acuto, tende a soccombere sotto il peso di solisti, coro e orchestra nei pezzi d’assieme -ah, quasi dimenticavo: ha pressocché declamato il Cenerentola vien qua / Cenerentola va’ là / Cenerentola va’ su / Cenerentola va’ giù.
Dopo l’aria di Don Ramiro al secondo atto il pubblico parigino si è addirittura lasciato andare a qualche applauso più caloroso, e due o tre bravo suono risuonati all’indirizzo di Maxim Mironov. Il canto del tenore russo, in effetti, potrebbe a primo acchito risultare curato, corretto; tuttavia, oltre a un accento sostanzialmente generico, la voce di Mironov a mio avviso non convince perché ha il grave difetto – senz’altro dovuto a problemi di emissione – di mancare del tutto di squillo, di suonare “sorda”, di rimanere ancorata al palcoscenico, anziché espandersi per la sala.
Alla comparsa in scena di Don Magnifico, impersonato da Bruno De Simone, ho avuto l’impressione di udire una voce ormai prosciugata nel timbro, un’impressione che, a dire il vero, è andata poi affievolendosi nel corso della recita fino a scomparire quasi del tutto: il cantante si è prodotto con serio professionismo com’è sua abitudine, ma, forse a causa di una limitata sintonia con il personaggio interpretato, l’ho trovato meno istrionico del solito, meno padrone della scena.
La voce di Nicola Alaimo (Dandini) è corposa, non artefatta, “gira”; il suo canto, è però impostato su un forte costante, e il fraseggio è pressocché inesistente.
A tratti cavernoso l’Alidoro di Adrian Sâmpetrean, corrette le sorellastre (a tratti però un po’guaenti e un po’pigolanti) di Claudia Galli (Clorinda) e Anna Wall (Tisbe).
( 13 dicembre 2012 )
Pauline Viardot