A breve distanza dobbiamo anche tracciare un breve ricordo di Galina Vishneskaya, ovvero la signora Rostropovich.
E’ un ricordo anche questo, che invita alla riflessione, perchè la celebrazione fine a sè stessa da sempre la lasciamo a chi ha per questo genere, riferito al passato o al presente, particolare inclinazione. Quelli della Grisi preferiscono, quando se ne presenti l’occasione, riflettere. E’ più onesto e sincero.
Alcuni di noi hanno ascoltato la signora Rostropovich (uso il termine signora per rispetto in quanto nè conoscevo la defunta nè mi avvicinava a Lei quella passione, che autorizza il melomane a chiamare per nome un cantante e, poi, il nome nel caso di specie darebbe luogo complice la lingua italiana ad equivoci facili e non di gran gusto) nella seconda fase di carriera quando si esibiva diretta dal consorte e magari al di là del temperamento e della presenza scenica poco altro offriva al pubblico. Accadde ad esempio in un Onegin fiorentino del (credo) 1980. La cantante era oltre i 50 anni, cantava da trenta circa e di prove diciamo di mero temperamento ne aveva già offerte alcune, come una Tosca disografica, che testimoniava declino della protagonista, da un lato, e del gusto e della tecnica della scuola russa, dall’altro.
Ma non era sempre stato così. Siccome la natura era stata generosa con la cantante almeno sino al 1967 la stessa aveva esibito una ricca e sontuosa voce di soprano lirico o al più lirico spinto, che le consentiva di affrontare i ruoli lirici del melodramma russo oltre che alcuni del repertorio italiano come Liù, Mimì, Butterfly sino a Violetta ed Aida. Spesso, vogliamo ricordarlo, ebbe come partner, anzi rivale, la più sontuosa voce russa del dopo guerra quella di Irina Arkhipova.
Sulla qualità del timbro e più in genere sulla bellezza della voce (seconda solo a quella di Tamara Milanskina) , oltre tutto esente dal vibrato di molte voci slave, nessuno discute, sul gusto almeno sino alla data sopra citata neppure perchè basta sentire la morte di Liù piuttosto che il duetto della Traviata con un Lemeshev non certo giovane, ma maestro assoluto di canto sul fiato, per sincerarsene. Ma all’ascoltatore più navigato ( quello del Corriere della Grisi) non sfuggirà che spesso si tratta anche sotto il profilo espressivo di risultato raggiunto grazie alla dote naturale. Perchè certe fissità nelle note tenute o nei piani (suggestivi, è vero) dicono che il controllo della voce era più naturale che cosciente e tecnico. Poi la suggestione del timbro, una indiscutibile sanità e la musicalità sopratutto oggi fanno rimpiangere la giovane Vishnevskaya e ci danno spunto per la solita -nostalgica?- domanda: ma dove sono finite le voci. La domanda più corretta ed esatta per il giusto rimpianto sarebbe, a nostro avviso, dove sono finiti i maestri di canto in grado di insegnare la tecnica di base, i maestri ripassatori in grado di insegnare spartiti e magari anche sistemi di sopravvivenza dinnanzi a frasi difficili ed i direttori di teatro, che scelgano le opere in base alle forze vocali di cui dispongono ed i dierettori d’orchestra che amino le voci e siano in grado di esaltarle.