Sedici lunghi anni erano passati dall’ultima volta che l’ispirazione di Verdi avesse trovato un soggetto abbastanza intrigante da lasciare la dimensione di mera fantasticheria per concretizzarsi sui cinque righi di un pentagramma. Esattamente dalla vigilia di Natale del 1871: dal battesimo di Aida al Cairo. Sedici anni nei quali il compositore – oltre a dedicarsi all’oculata amministrazione dello smisurato patrimonio, alla coltivazione dei suoi campi (ritirato nella lussuosa modestia della sua tenuta di Sant’Agata) e all’edificazione del proprio culto – si era limitato ad approntare nuove versioni di vecchie opere. Non un silenzio assoluto – anzi, il lavoro di revisione di Don Carlos e Simon Boccanegra fu radicale, tanto da mutare l’aspetto delle partiture originali – tuttavia il nuovo titolo, che il mondo attendeva, sembrava non vedere mai la luce. Molti in quegli anni pensarono che la vena del musicista si fosse ormai esaurita e che la vecchiaia ne avesse estinto la genuina ispirazione. Eppure la sera del 5 febbraio 1887 alla Scala di Milano – sedici anni dopo Aida – si celebrò un nuovo trionfo: Otello. Ci si può accostare in molti modi al penultimo capolavoro verdiano: l’aneddotica è ricca di dettagli gustosi sulla genesi dell’opera e l’agiografia è prodiga di racconti edificanti. Non mancano lettere, scritti, testimonianze. E per quanto riguarda il “triangolo” tra Verdi, Shakespeare e Boito c’è solo l’imbarazzo della scelta in ipotesi, frammenti e, spesso, oziose elucubrazioni. Così come di estrema varietà sono le considerazioni circa la sua musica e le sue molteplici ispirazioni (chi parla del solito Wagner, chi dice Massenet, chi estrae altri nomi con la stessa leggerezza con cui si sorteggiano i numeri al lotto). Ma per tutto questo rimando ad altri. Più interessante è inquadrare Otello nella sua epoca, nel suo mondo e nella sua storia (che non è necessariamente quella con la “s” maiuscola). Nell’ultimo quarto del secolo XIX, l’opera italiana visse un crisi senza precedenti: dopo i fasti rossiniani, gli anni eroici del melodramma e la parabola verdiana, a partire dagli anni ’70 dell’800, l’opera era ormai un personaggio in cerca d’autore. Ma più che la ricerca di un nome (perché di un “nume” già disponeva: Verdi appunto) era, soprattutto, in cerca di un linguaggio. Non è un caso che tra Aida e Otello nessun’altra opera italiana si fosse affermata stabilmente all’estero (con le fortunose eccezioni di Gioconda e Mefistofele). Una serie di fattori – esterni ed interni – determinarono questa crisi. Certamente il costante provincialismo culturale italico (sempre più incapace di reggere il passo con la contemporanea realtà europea) e l’ingombrante reiterazione di vecchie formule ormai ovunque superate ed incapaci di attirare un pubblico smaliziato e consapevole – ancora sopravvivevano le convenzioni post rossiniane, l’artigianato operistico, lo strapotere dell’editore (che era di fatto il proprietario dell’opera), la centralità di certi cantanti che finivano per essere la ragion sufficiente di qualsiasi rappresentazione teatrale – comportarono un generale disinteresse per tutto quello che stava intorno a Verdi, di fatto l’unico compositore ancora di livello internazionale. Un altro fattore di crisi va individuato sicuramente nel ritardo nella diffusione della musica sinfonica (con tutto ciò che ne consegue in termine di dimestichezza con un certo modo di comporre e di recepire lo strumentale). Tuttavia ciò che determinò questa crisi d’identità fu, da una parte l’insorgere delle scuole nazionali (che tagliarono fuori la supremazia italiana in campo operistico), dall’altra l’ubriacatura wagneriana che condizionò l’intera produzione musicale europea di quegli anni e da cui la penisola rimase quasi del tutto esclusa. Mentre in Europa, infatti, Wagner divenne il modello obbligato (anche se spesso frainteso e malamente imitato), il più richiesto dal pubblico, in Italia le sue opere tardarono a diffondersi. In realtà solo a partire dagli anni ’70 la musica wagneriana sbarcò nella penisola, limitandosi peraltro alle opere giovanili: Lohengrin nel ’71, Tannhäuser nel ’72, Rienzi nel ’74, l’Holländer nel ’77. Una visione dunque assai parziale, ma che, ugualmente scatenò clamori giornalistici, facili entusiasmi, abbagli collettivi. La critica si divise in opposte fazioni: chi condannando ferocemente Wagner senza mai averne ascoltato una nota, chi esaltando una “musica dell’avvenire” già superata dallo stesso suo creatore. In una tale situazione di incertezze e fraintendimenti era difficile che emergesse un talento autentico e duraturo (emblematica la vicenda di Gobatti e dei suoi Goti). Naturale, dunque, che si guardasse ancora al vecchio Verdi. Nonostante tutto. Otello nasce nel bel mezzo di questa crisi e propone una soluzione. O meglio certi osservatori (critici, giornalisti, intellettuali) vedono in Otello la soluzione. E la vedono attraverso le lenti distorte delle proprie convinzioni. Nasce così la leggenda di un Verdi che accoglie la lezione wagneriana, che chiude la tradizione del melodramma e che “finalmente” si dedica alla vera musica dell’avvenire. Anche oggi, quando si parla di Otello, si sprecano elucubrazioni di vario genere su quanto sia presente l’influenza di Wagner nel penultimo capolavoro verdiano e, attraverso le più improbabili variazioni sul tema, si scovano presunte somiglianze musicali e identici intenti formali. Le cose, a ben vedere, sono assai differenti. Innanzitutto va premesso che Verdi conosceva direttamente – per averlo ascoltato dal vivo – il solo Lohengrin. E neppure gli era piaciuto (l’opera gli fece un’impressione assai mediocre, la trovò lunga e noiosa, con qualche bella melodia, ma con un trattamento “sbagliato” degli archi). Nessun altra opera wagneriana, successiva a Lohengrin, fu ascoltata in Italia almeno sino alla composizione di Otello. Un po’ poco, dunque, per poter affermare come un lavoro giovanile vecchio di quasi 40 anni (ancora intriso di spirito romantico weberiano e sostanzialmente estraneo alle ponderose costruzioni del wort ton drama) e neppure troppo gradito, potesse avere chissà quale influenza sulla scrittura verdiana. Del resto la stessa struttura dell’opera – in cui le forme, pur diluite e dilatate, mantengono comunque una loro identificazione – non permette di riconoscere alcun elemento tipico dell’estetica wagneriana (si pensi alla funzione del Leitmotiv). In realtà Verdi persegue, con Otello, un suo ideale teatrale che affonda le radici nella tradizione melodrammatica italiana unita all’urgenza drammatica tipica della sua personale estetica (già da Rigoletto, infatti, si proponeva di scrivere un’opera senza arie, duetti o concertati, ma come un flusso continuo di musica). Certo alcuni spunti melodici – soprattutto nel duetto del primo atto – presentano affinità con Lohengrin, ma questa circostanza non deve trarre in inganno e, soprattutto, non può portare ad ipotesi di condivisione delle teorie wagneriane: in realtà proprio negli anni che precedono la composizione di Otello, il Lohengrin era divenuto un “classico italiano onorario” (come scrive il Budden), e non non è certo strano che si riscontrino affinità tra i due titoli. L’opera di Verdi, tuttavia, resta difficile da collocare: in essa confluisce la tradizione del melodramma italiano, ma tradotta in una scrittura estremamente moderna attraverso una veste armonica e tonale molto complessa e raffinata, così come le stesse forme vengono dilatate e sviluppate, pur mantenendo intatti certi topoi (la tempesta iniziale, ad esempio, o il duetto d’amore o la canzone del brindisi o altre forme che si riconoscono e che si ritrovano – in embrione – nei precedenti titoli verdiani). A questo si aggiunge il senso della parola scenica, ideale da sempre inseguito da Verdi e, forse, realizzatosi compiutamente ora per la prima volta (non certo per merito di Boito – che anzi è colpevole di alcune scelte lessicali perfettamente evitabili nel 1887 – ma per le continue richieste di Verdi al fine di meglio indirizzare – e frenare – l’immaginazione non sempre di buon gusto del letterato/librettista). Una costruzione, dunque, che parte da lontano e che si sviluppa in modo del tutto autonomo. Paradossalmente la via tracciata da Verdi non sarà la risposta alla crisi identitaria dell’opera italiana: Otello resterà la summa di una carriera passata (mentre il successivo Falstaff parlerà una lingua differente) e non si porrà come modello da seguire. In relatà solo abbandonando le ansie intellettuali e i complessi di inferiorità nei confronti del fantasma wagneriano i compositori italiani troveranno forme espressive nuove e convincenti (da una parte Puccini e dall’altra il Verismo: proprio con Cavalleria Rusticana l’opera italiana tornò alla ribalta internazionale). Anche i contenuti musicali si inseriscono nell’alveo della tradizione verdiana: soprattutto nella raffigurazione di Jago. Non un volgare uomo-demone, ma un uomo consapevole delle proprie arti e perfettamente convinto della razionalità delle proprie azioni. Una figura complessa che molto affascinò l’autore (tanto da fargli pensare, ad un certo punto, di intitolargli l’opera: commettendo, invero, uno “shakespearicidio”) e che lo portò ad una caratterizzazione musicale estremamente raffinata, da giocarsi nel fraseggio e nella parola. In fondo Jago è l’unica figura forte dell’opera: sbalzata sullo sfondo delle sue vittime. Vittima è Desdemona: e Verdi la rappresenta musicalmente dimessa e malinconica (è privo di gioia il suo canto, anche nel duetto d’amore). Vittima è, soprattutto, Otello. Il personaggio – divenuto suo malgrado epitome di un certo tenorismo stentoreo – è in realtà caratterizzato solo parzialmente dall’eroismo dell’ “Esultate!”: presto l’eroe diviene l’amante geloso e indebolito dalle astuzie di Jago. Le scelte musicali del compositore si riflettono naturalmente nella composizione del primo cast. Nessun dubbio nella scelta di Maurel per Jago, più difficile quella di Desdemona (Verdi non trovò mai un’interprete ideale e fu costretto ad accontentarsi). Diverso il caso Tamagno: anche questa era una scelta obbligata, tuttavia il tenore non riusciva a soddisfare del tutto le esibgenze dell’autore, soprattutto a causa delle sue scarse conoscenze musicali (fu necessario predisporre vere e proprie “ripetizioni”) e alla sua piattezza interpretativa (Verdi si lamentò del fatto che dovesse cantare tutto forte e a voce piena, altrimenti il suono sarebbe apparso brutto, incerto e stonato). Comunque sia la sera della prima fu un trionfo (era presente il meglio della cultura nazionale e i corrispondenti di paesi stranieri). Un evento che pure lasciò una certa insoddisfazione nelle frange più nostalgiche di pubblico che, ancora, rimpiangevano l’opera più tradizionale (tra di essi il solito Shaw). Lasciando ad altri il compito di illustrare più tecnicamente il contenuto musicale dell’opera (magari nel confronto tra interpreti storici), voglio soffermarmi su di una modifica operata dall’autore nell’atto III, in vista delle rappresentazioni parigine del 1894: non tanto per il valore della revisione (piuttosto modesto), ma per la querelle che suscita in merito a quale sia la lezione più “giusta” da seguire. Per le recite parigini, infatti, Verdi operò due modifiche: introdusse un balletto e rivide il concertato che chiude l’atto III. Mentre il primo intervento è da addebitarsi unicamente a ragioni di portafoglio (Verdi era uomo pratico e dato che l’Opéra pretendeva un balletto – per quanto stupido fosse inserirlo – accettò senza troppe proteste: a patto, naturalmente, che tale obbrobrio rimanesse detstinato al solo palato francese), il secondo suscita maggiore interesse. Il compositore riprende la trama del concertato finale e la semplifica drasticamente al fine di porre al centro dell’attenzione l’opera subdola di Jago. Questa modifica, se pure migliora drammaturgicamente la chiusura dell’atto, ne impoverisce decisamente il contenuto musicale. E Verdi dovette esserne consapevole dal momento che non fece confluire la revisione parigina nella partitura a stampa (così come il brutto balletto). Forse le ragioni di tali interventi sono dovuti all’ansia di concinnitas tipica dell’autore ovvero alla necessità di accelerare la conclusione bilanciando l’ingombrante presenza del balletto. Diverse sono le ipotesi: di certo l’odierno esecutore non può trincerarsi dietro alle presunte volontà autoriali (intese in senso burocraticamente cronologico) e aderire alla redazione parigina ritenendola “obbligatoria” (come pure si è sentito dire).
Verdi con Otello credeva di chiudere la sua carriera operistica e in effetti l’opera è la summa della sua esperienza teatrale: poi la storia ci racconta che verrà ancora Falstaff, ma Falstaff appartiene ad un altro mondo, un mondo che ha tagliato tutti i ponti col passato. In questo senso Otello è davvero l’ultima opera “verdiana” di Verdi.
a questo punto sarebbe bello sapere chi di voi farebbe il concertato di Parigi. A proposito come mai Muti fece quello di Parigi e qualcuno si ricorda se a Firenze nel 1979 (Cossutta, Scotto, Bruson) fece pure quello lì?
Sì, lo fece. C’ ero e ho la registrazione.
dai mozart facciamo uno scambio con qualcosa che t potrebbe interessare. io purtroppo debuttai a firenze con lucia grub e kraus
Nel ’83 se non ricordo male. Raramente ho sentito un’ovazione così clamorosa come alla conclusione dell’aria della pazzia in quella Lucia fiorentina. Nelle riprese al posto della Gruberova c’era la allora sconosciuta Anderson. Che serate!
A me il concertato rivisto per Parigi non piace: o meglio mi piace troppo nella sua stesura originale (è una delle migliori pagine scritte da Verdi). Credo che lui stesso ne fosse consapevole e quello francese fosse un esperimento di ripiego (giacché si trovava costretto ad inserire l’inutile balletto per il cattivo gusto degli spettatori dell’Opéra, provò a rivedere il concertato, anche per ridurre i tempi), tanto che non confluì nell’edizione a stampa.
Quello che trovo censurabile, però, non è tanto preferirlo alla versione originale (non sono d’accordo, ma vabbé..) quanto il ritenerlo “obbligatorio” come una sorta di “ultima volontà verdiana”: non è così e non si può giustificare una scelta musicale (discutibile perché non esplicitata dall’autore) con un “dovere filologico”. L’interprete non è un esecutore testamentario e questa revisione non è certo un “legato” vincolante.
Certamente. Del resto anche altre opere, come ad esempio l’ Orfeo ed Euridice, si eseguono nella prima versione perchè la seconda non costituisce un miglioramento. Oppure vedi il Tannhäuser per il quale la versione di Dresda è da molti giudicata migliore di quella di Parigi.
Beh, sono casi diversi: si tratta effettivamente di versioni differenti e autonome. L’Otello di Parigi, invece, non è altro che una marchetta per l’Opéra (con licenza parlando)…tanto che Verdi non volle assolutamente che quell’orribile balletto e il nuovo concertato finissero nell’edizione a stampa.
Per gli altri tuoi esempi: preferisco l’Orfeo francese a quello italiano. Mentre per Tannhauser va a momenti: la musica del Venusberg è un tale capolavoro…ma la chiusa originale del Preludio è magnifica. Difficile scegliere.
niente ascolti stavolta?