Mi perdonino i lettori se i soggetti della mia rubrica risultano un po’ ripetitivi, ma tra le numerosissime voci di cui il disco in oltre un secolo di storia ci ha lasciato documentazione sonora, relativamente poche sono quelle che riesco a considerare veramente esemplari ed educative, cioè pienamente funzionali a disabituare le orecchie moderne dall’assuefazione all’ormai cinquantennale vociferazione malcantista. Una di queste è la voce di Mattia Battistini, già preso in esame in una delle prime puntate di questa rubrica, baritono che con la sua naturalezza, chiarezza e semplicità di imposto aiuta a spurgare le nostre orecchie dal suono finto, artificiosamente ingrossato ed involgarito che ha caratterizzato le ultime generazioni di tale classe vocale. Chiarezza, naturalezza e semplicità di imposto che oggi vengono dileggiate da coloro che, incompetenti, non ritrovando in tali caratteristiche di emissione la confortante corrispondenza con lo stereotipo di voce baritonale gonfia e bitumata che almeno tre generazioni di muggiti hanno impresso nella loro coscienza, e non capacitandosi quindi di come un vero baritono possa avere una voce umana anziché fare i rumori – vocali e corporali – delle bestie da soma, insinuano l’ipotesi di una natura, mancata, di tenore. Baritono chiaro doveva essere anche Luigi Bassi, primo interprete della parte di Don Giovanni, all’inizio dell’Ottocento appannaggio persino di alcuni celebri tenori, oggi affidata più spesso alla voce di basso o basso-baritono. L’ascolto proposto è il duettino con Zerlina, interessante anche perché inciso insieme con il recitativo, la cui esecuzione è da prendere ad esempio per come le parole vengono dette con schietta e concisa semplicità, pronuncia nitida, senza quei noiosi sdilinquimenti, quelle becere gigionerie, quelle leziose e petulanti affettazioni intellettualoidi, quei sospiri e sussurri, e quegli isterici, affannosi, frettolosi ed inudibili farfugliamenti di aria calda che, spacciati per filologica interpretazione, di fatto oggi impediscono di seguire un’opera come questa a teatro senza l’ausilio dei sopratitoli. (A tal proposito è opportuno riportare qui l’opinione di Bernardo Mengozzi, autore del più importante manuale di canto del periodo napoleonico, il Metodo del Conservatorio di Parigi (1803):”Nel recitativo si canta e si parla nello stesso tempo, e queste due azioni non devono andar disgiunte giammai. […] E’ nostra opinione che il recitativo debba essere espresso con semplicità. […] E’ questo il luogo di avvertire che non declini giammai il recitativo in semplice declamazione. Il pretesto che si potrebbe addurre, che in alcuni luoghi il recitativo parlato ha maggior forza e verità, è falso, perché si tratta di parlare e di cantare nello stesso tempo, e non di parlare unicamente”). E’ da segnalare ancora nel recitativo, oltre al modo esemplare di porgere la parola intonata, il numero da autentico virtuoso sulla frase “quel casinetto è mio, soli saremo, e là gioiello mio ci sposeremo”, accarezzata a mezza voce, ed ornata di una puntatura al fa# in falsettone, che in termini prettamente vocali è un gioiello di legato, controllo del fiato (sentire la messa di voce che precede l’acuto) e di morbido superamento del passaggio di registro (“… e là-GIOOOiello mio…”): senz’altro un esecutore arbitrario, ma un Don Giovanni davvero aristocratico e seducente come mai abbiamo sentito. Resta emblematica la sprezzatura del tempo e questo uso disinvolto di sonorità al limite con il falsetto che nessuno degli odierni baritoni vilain avrebbe il coraggio – prima ancora della capacità tecnica – di rischiare, troppo preoccupati di dimostrare la propria virilità con l’esteriore esibizione di una posticcia muscolarità. Nel duettino osserviamo innanzitutto l’uso di un tempo piuttosto largo, cui le insensate velocità degli odierni specialisti barocchisti ci hanno disabituato, disabituandoci anche al legato, alle dinamiche, all’espressione. Tralasciando l’analisi della Zerlina di Emilia Corsi, vanno segnalati anche taluni vezzi o arcaismi come l’esasperata articolazione dei gruppi di consonanti (“vedi non è lo-n-tano”), o l’uso di portamenti atti ad ammorbidire la linea ed a propiziare l’emissione dei suoni acuti (ad esempio vengono attaccati con questo artificio, strascicando la vocale E, i mi naturali di “vieni mio be-el diletto” oppure “io cange-e-rò-ò tua sorte”, suoni per inciso un po’ larghi). Ma basta ascoltare la prima frase, con quel lieve accenno di cesura dopo l’avverbio di luogo (“là… ci darem la mano”), per capire cosa sia l’arte del dire, ossia il vero recitar cantando: Don Giovanni indica a Zerlina il luogo dell’agognato sposalizio e la verità, la naturalezza, la sprezzatura del fraseggio sono tali che pare stia improvvisando. E’ l’arte che nasconde l’arte, in forza della quale i cantanti un tempo erano tutti diversi gli uni dagli altri in quanto erano se stessi, ed andare a teatro era sempre come sentire l’opera per la prima volta.
8 pensieri su “I venerdì di G.B. Mancini: impariamo ad ascoltare. Mattia Battistini nel Don Giovanni.”
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Grazie Mancini,
bellissimo articolo, però —
“This video contains content from EMI, who has blocked it in your country on copyright grounds.”
Là ci darem la mano – Antonio Scotti & Geraldine Farrar (1909) http://www.youtube.com/watch?v=C4F8SGARRRY
Ciao e grazie. Mi spiace, evidentemente nel paese da cui tu ci scrivi il video è stato bloccato per violazione del copyright, qui in Italia invece si vede senza problemi. Colgo l’occasione per sconsigliare vivamente a tutti l’acquisto della raccolta della EMI “The record of singing” i cui riversamenti sono in gran parte sballati, e di rivolgersi invece ad etichette specializzate nel restauro di dischi antichi. Oltretutto la EMI insieme alle altre majors è nella top ten delle cause delle decadenza del canto, indi… all’indice!
Grazie. Ottime osservazioni! Bisognerebbe farle leggere anche ai nostri attuali “cantanti”….
Riallanciandoni a quello che scrive mancini” E’ l’arte che nasconde l’arte, in forza della quale i cantanti un tempo erano tutti diversi gli uni dagli altri in quanto erano se stessi”
può sembrare banale,ma è sempre una grande cosa riconoscere un cantante subito dalla sua voce che ha solo per fare un esempio Pavarotti,vuol dire personalità,ma su questo conta anche la natura,il timbro è qualcosa di naturale,però l’uniformità in tanti cantanti non è solo questioni di timbro purtroppo,un esempio in tante cantante di musica leggera degli ultimi anni,sembrano tutte uguale,a parte poche eccezioni,e qui si parla di voce non impostata,quindi ancora peggio.
Piacevole l’ascolto proposto da mancini
Chiarissimo ed utilissimo questo ascolto del venerdi’. Soltanto una domanda- a proposito di vocali- perche’ Battistini talora apre le O (so far pultOa, visetto d’Oaro, tua sOarte) ed altre volte no ?
Battistini è tutto piuttosto aperto nel centro fino alla zona acuta esclusa (nell’acuto su “gioooiello mio” la O è ben chiusa), le A talora ne risultano un po’ imbruttite, quasi sguaiate, e come giustamente osservi le O spesso sono troppo larghe. Probabilmente in questa posizione chiara e aperta trovava una maggiore facilità, un miglior sfogo del suono in avanti. Del resto quasi tutti i cantanti antichi usavano prevalentemente il colore chiaro. Queste imperfezioni nella pronuncia delle diverse vocali restano comunque dei difetti, e mi fa piacere che tu te ne sia accorto, bravo.
Ah tu mi chiedevi perché talora le apra e perché invece talora non lo faccia. Dunque a me pare che il vezzo si presenti soprattutto in zona centrale fino alle ultime note immediatamente precedenti il passaggio, in acuto invece non lo fa perché per cambiare registro è obbligato a coprire, cioè a chiudere la pronuncia delle vocali e anche ad oscurare il suono, e le O pertanto in acuto sono molto più sorvegliate.
http://youtu.be/kjcacRrcVTQ, questa caratteristica e’ presente anche nella celebre serenata, ove mi sembra un po’ piu’ arbitrario del duetto con Zerlina