Anche l’altro Lui è tornato. La risposta, quindi, è arrivata più rapida di quanto si potesse credere. Defilata da un lato, ma sapientemente amplificata dai media e da chi conta. Mi
riferisco al concerto, in luogo della tradizionale lectio magistralis, che Riccardo Muti ha tenuto nei giorni scorsi alla Iulm a Milano, al termine del quale sono stati intervistati Fedele Confalonieri e Francesco Micheli, che, unanimi, hanno invocato il ritorno di Muti alla Scala. Non solo, il neo laureato honoris causa con tono di falsa modestia, che poco gli si addice e male, ha rinunciato a qualsivoglia polemica circa la scelta del titolo inaugurale scaligero, dicendo “io a Roma faccio Verdi” ha esplicitato il proprio pensiero e raccolto la polemica sfida apparsa ieri sulle pagine del Corriere, organo della Scala, abbadiana e mutiana in particolare.
Tutto questo al di là del comportamento dei maturi contendenti e dei loro allievi, simpatizzanti e detrattori ci dice quello che da un qualche mese avevamo ben capito pure noi che stiamo dall’altra parte della sala, quella che dovrebbe contare ed essere considerata, ossia che la successione non solo a Lissner, ma anche a Barenboim è aperta e con congruo anticipo rispetto ai termini ufficiali della stessa. E molti non solo i due direttori precedenti corrono per sé o per qualche delfino. Anche l’imminente presenza di una
Cecilia Bartoli non cantante, ma nome di punta di casa discografica e direttore di uno dei Festival delle major discografiche, deve essere letta in quest’ottica.
La Scala è oggi una delle “piazze”, che le major del disco, le grandi agenzie con sede oltre Oceano od oltremanica non possono perdere. La promessa fatta dal duo Lissner Barenboim all’indomani dell’intronizzazione “noi portiamo i grandi cantanti ed i grandi direttori ed i grandi registi” doveva e deve essere letta come “consegnamo ai poteri d’oltre oceano e d’oltremanica il teatro alla Scala e la inseriamo nel sistema”. Sistema del quale fanno ben parte e senza il quale non sanno operare, mi permetto di aggiungere.
La ritirata (non una Caporetto sia ben chiaro), ma quelle che per molti mesi gli Italiani fra il 1940 ed il 1943 vedevano qualificare come “ritirate strategiche” di Lissner ed a breve, supponiamo, di Barenboim dicono di un’operazione riuscita a metà un po’ perché il pubblico, solo in parte convertito, non ha accettato il prodotto, ma esausto di tanta mediocrità eretta a sistema (un Rigoletto condito da due clap clap ad onta degli osanna sul Corriere all’indomani ed un’Aida senza applausi alla fine del primo atto sono peggio di una sonora buata come quella di Tosca) ha iniziato una diffusa diserzione e perché il prodotto offerto, ad onta dei puntelli garantiti da stampa cosiddetta specializzata, quotidiani e minacce in loco, si è dimostrato al di sotto del minimo sindacale.
Naturalmente nel ruolo prediletto di Tiresia o Cassandra possiamo con assoluta certezza dire (mica vaticinare) che il rimedio che si va programmando è inutile, non solo peggiore. Non si deve solo cambiare il direttore perché il pluralismo dell’era Barenboim vale la gestione autarchica di Muti o la cultura frattocchiara di Abbado. L’errore sta sempre e solo nel credere che il direttore d’orchestra sia rimedio e panacea dei mali tutti.
Andiamo a guardare le stagioni di un “direttore padrone” come Toscanini. Certo c’era il gusto di Toscanini, la sua cultura, le sue preferenze (assai meno invasive, però di quelle di un Abbado, perché persino su Arturo Toscanini pesava la legge della cassetta), ma c’erano prima di tutto cantanti. Non erano tutti rispetto a ciò che il mercato offriva. Erano, però, molti e quasi sempre adatti ai ruoli, che incarnavano. Questo è il punto, la mentalità ( sembra di leggere e scrivere del contrasto Monti- politici) che oggi impera, che a suon di grandi bacchette, grandi divi della scenografia, che macinano, a sistematico sproposito, Freud e riciclano puntuali idee che hanno almeno trent’anni, divi afoni ed inidonei ad ogni ruolo portato in scena, oltre che di scarsa preparazione tecnica ci ha portato nel luogo dove siamo e dal quale si può provare ad uscire non già cambiando il cavalluccio della giostra, ma la testa. Ammesso che le teste libere, indipendenti, colte e pensanti siano reperibili. Qui come altrove.
Ammesso, e non concesso, che sia tutto giusto quanto scritto (non capisco come si possa paragonare la statura interpretativa e il carisma di un Abbado con quello di Barenboim….) mi chiedo e vi chiedo: dove reclutare cantati in grado di eseguire decentemente, oggi, Verdi e Wagner? (e Bizet, e Gounod, e Zandonai ecc. ecc.)
Dove si reclutano tuttora, nei conservatori e non solo. Però si devono cercare dei cantanti, e non degli indossatori. E si deve dar loro modo – e tempo – di maturare, anziché lanciarli allo sbaraglio in intempestivi e improbabili debutti. Ma questo presuppone l’esistenza di maestri di canto, agenti e direttori di teatro che siano interessati al canto e competenti in materia. Siamo male in arnese! E lo dimostra la Carmen che in questo momento sta trasmettendo Radio3, protagonista la più celebrata allieva della scuola di perfezionamento (sic) del massimo teatro d’Italia (ari-sic).
Antonio,
al conservatorio Santa Cecilia di Roma siamo (io non sono iscritto a canto) messi molto male: maestri ed allievi. Basta pensare che ci sono allievi ai quali piace Grigolo, Kaufman e compagnia bella… Oppure pensare che io ho visto allievi gridare “Bravo! Bravo!” a cantanti mediocri…
non é proprio un peccato se a uno piace Grigolo e Kaufman, massimo t prendi due giorni di purgatorio. A parte gli scherzi c’é di peggio. Grigolo ha fatto per es. un buon Alfredo, Kaufman Don Josè, Requiem di Verdi (quello di tre anni fa), Florestan a Lucerna
Non sarà un peccato; ma secondo me è indicativo della coscienza degli allievi.
Hai ragione Alberto: non è un peccato. È colpa grave per il primo e sono generoso nel non infliggere il dolo intenzionale. Spreco solo una parola sul fattore K (nel senso che se andasse a fare quel mesteiere sarebbe meglio): K non può fare “buono” nessun ruolo in quanto è l’anticantante per definizione. Soprattutto Don José: che se Bizet lo avesse sentito, non avrebbe scritto la Carmen.
Concetti, quelli di Donzelli e Tamburini, che ribadiamo spesso, segno che, se c’è la volontà, si può davvero puntare alla qualità e non alla sola confezione laccata che conserva un contenuto rancido.
Vedi sia la “Carmen” torinese, ma anche certe noiose, ripetitive e capziose dichiarazioni di super-registi preoccupati di trasformare cigni in traumatici e stravisti Freud e Jung.
E sia chiaro che qui non si vuole il cigno a ogni costo, ma siamo stanchi di vedere a ogni spettacolo il lettino di Freud. Spesso anche fuor di metafora.
Si, appunto, non riduciamo il tutto a “Bello/a = Canta male, Brutto/a = Canta bene”, perché non è assolutamente questo l’oggetto della riflessione.
Andiamo oltre.
beh io sì che lo voglio il cigno…
Io vorrei dei cantanti…
Anche a me basterebbero quelli, così da non dover assistere alla … morte del cigno…
Ma forse la continua ascesa di registi del cazzo e di cantanti-indossatori sono la conseguenza del declino che sta insabbiando il mondo del melodramma e non la causa.
Parlare delle cause della decadenza del canto significa parlare delle cause della decadenza dell’uomo, ed è discorso più grande di noi, troppo vasto e complesso, ma soprattutto è discorso che nessuno accetta di sentirsi dire, in quanto andrebbe a mettere in discussione tutti i dogmi modernisti di questa epoca pervertita, che nessuno ha l’onestà di riconoscere come causa di tutti i mali. Ci sono problemi strutturali, di sistema, che ormai non si possono più curare. Però, se non è possibile fermare la decadenza del canto e della musica, si possono tuttavia correggere alcune scelte, ad esempio quella di scritturare costosi artisti da supermercato impostori della vocalità quando le stesse cose potrebbe farle molto meglio un qualsiasi anonimo corista, bandire le regie e via discorrendo…
no ne sono la causa, nel senso del “rimedio peggiore del male” che impressione ti farebbe se un direttore artistico dicesse claris litteris ” sono stufo dei registi che hanno diritto di scegliere i cantanti e li scelgono come alle sfilate di armani ho deciso di prendere per lucia marietta cazzaniga fisico da lina pagliughi”. qualcuno griderebbe allo scandalo dicendo “dio come è brutta, dio come è grassa”, altro , di sapore grisino, direbbe “canta da dio”
Putroppo, io che la musica ed il canto li studio, sono d’accordo con Billy: tutte ciò che è nasce, si sviluppa fino ad un punto culminante, dopodichè muore; e noi stiamo vivendo la morte del canto. Tuttavia questa consapevolezza non ci deve far desistere dal fare il nostro dovere: continuare ad amare la musica ed il canto e lottare per sostenere la giusta causa del Buon Canto; da studenti o da melomani che sia. Il canto è morto; ma non possiamo ammazzarlo noi.
Tiè! Facciamo le corna!
Battute a parte rispondo con la stessa cosa che già dissi a billy tempo fa: il canto non è morto, non può morire. È solo addormentato; lì che attende di essere riscoperto.
Ormai sono molti registi che o scelgono i cantanti o mettono il veto per motivi d´apparenza scenica??? Ma come siamo messi?? Ed i direttori d´orchestra e la responsabilità per il livello musicale? Se ne lavano le mani? Sarebbe il loro dovere NON di servirsi dei cantanti per il proprio beneficio ma nel guidarli ed assisterli per SERVIRE L´ARTE.
Bene ha fatto Donzelli, richiamare il periodo di Toscanini. Se non erro oltre alle difficoltà finanziarie c’era in nuce anche quello vocale
e di gestione musicale, risolta da lui in modo drastico: due anni di chiusura per ben due volte. E’ così difficile il riproporla? Il digiuno e l’astinenza purifica gli spiriti.
anche strehler a dire il vero badava al fisique du rol pero’ la direzione artistica lo sapeva e gli proponeva opere dove poteva avere buoni cantanti con un aspetto credibile. qualche buon cantante ci sarebbe ma la scala nel repertorio italiano mette sin dai tempi. d muti il carro davanti ai buoi e i carri sono allestimenti piu vecchi dei precedentis. aida amcbeth
don carlos tosca ecc