Nell’ambito delle analisi circa la trasformazione di Kabale und Liebe di Schiller in Luisa Miller avevamo parlato di una semplificazione delle idee del grande scrittore tedesco. Come cause maggiori ne avevamo identificate non solo la mancanza di risorse sufficienti sul piano materiale che il teatro di San Carlo poteva proporre, ad esempio, dal punto di vista del casting, ma anche l’inadeguatezza dei problemi sociali ed intellettuali del pubblico napoletano spettatore di un dramma schilleriano sull’assolutismo di uno staterello tedesco e sulla lotta della borghesia. E’ completamente diversa la situazione per quanto riguarda la creazione e la susseguente recezione del Don Carlo(s), ultima opera verdiana scritta secondo Schiller.
Se nel caso di Luisa Miller abbiamo a che fare con una certa banalizzazione e riduzione ad un melodramma italiano tradizionale di uno dei testi teatrali più compatti, dinamici e coerenti nel suo sviluppo drammaturgico, il Don Karlos di Schiller (a cui ci riferiremo ormai con la cappa, seguendo l’antica ortografia) rappresenta un dramma la cui storia di creazione è tutta fatta di diverse interruzioni temporali o modificazioni ideali. Per quattro anni Schiller ha lottato con una forma storica – la vita del collerico infante di Spagna, – in cui versare un contenuto ideologico – la natura dell’assolutismo e la natura della libertà,concetti che si escludono a vicenda. Cosi si è formato un dramma nel quale spesso i nodi delle relazioni personali e politiche si fanno e si disfanno con poca chiarezza logica ed efficienza teatrale, perché la trama viene affollata ed appesantita da una serie interminabile di intrighi e complicazioni le cui necessità e conseguenze non sono sempre plausibili.
E’ qui che, contrariamente a Luisa Miller dove la musica e la logica non-verbale del melodramma non riesce a rendere giustizia alla drammaturgia perfettamente chiusa in sé di Kabale und Liebe, la musica come medium di omogeneizzazione di elementi disparati (se si crede alla tesi di Hans Blumenberg circa la forza unificatrice della musica di Bach nella Matthäuspassion di fronte alle incongruenze logiche del testo biblico) assume un ruolo “nobilitante” e neutralizzante degli aspetti deboli disseminati attraverso l’intero Don Karlos. La logica di un dramma parlato non perdona se l’intrigo teatrale – in questo caso quello iniziato da Domingo, confessore del Re, ed il Duca d’Alba, personaggi “antipatici” che, però, agiscono unicamente con la “ragion di stato” in mente – non viene annodato in modo completamente coerente, mentre le stesse incongruenze dello sviluppo drammaturgico che si trovano anche nel libretto (o meglio, nei vari libretti) del Don Carlo(s) verdiano tramontano facilmente sotto la potenza indipendente, che introduce la musica. Così, quando alla fine della scena del giardino, dopo l’uscita dell’infuriata Eboli, Rodrigo chiede a Carlo di trasmetterli dei “fogli importanti”, questi “fogli importanti”, penosamente astratti nel contenuto drammaturgico, apparsi quasi dal nulla nella trama, ed in più maldestramente musicati in un recitativo goffo, vengono soprafatti dalla gloriosa ripresa del motivo del duetto Posa-Carlo (motivo di amicizia e di libertà) dall’intera orchestra in chiusura della scena. E si può ancora parlare di omogeneità pur prendendo in considerazione la varietà di versioni testuali e musicali che comporta questa opera di Verdi, lavoro con il più grande numero di varianti e modificazioni, che fino ad oggi rendono problematica e discutibile qualsiasi scelta nell’ambito della prassi esecutiva.
Era una maggiore affinità del soggetto di Don Karlos con la forza emozionale necessaria per fare un’opera lirica per cui nel lontano 1850, dopo la collaborazione su Jérusalem, i rappresentanti dell’Opéra di Parigi avevano suggerito a Verdi proprio questo dramma di Schiller e non un pezzo come Fiesco in cui l’amore ha un ruolo minore. Effettivamente, si può affermare che è per sé musicale la natura del personaggio di Don Carlo – passionale, irrazionale, colerico, malinconico –, come quella della Principessa Eboli – rivestendo nel Don Karlos piuttosto il ruolo di passivo strumento nelle mani degli intrighi di Domingo e Alba, mentre nel Don Carlo(s), essendo del tutto eliminati dalla trama Domingo e Alba, Eboli appare come il nucleo stesso del tessuto degli intrighi, una forza passionale, che agisce indipendentemente dalla ragion di stato, seguendo solo il suo amore, gelosia, rimorso o fierezza. E’ per questo che la Eboli verdiana può essere considerata un personaggio più complesso ed elaborato di quello schilleriano. Non a caso Verdi disse a Franco Faccio che Eboli è il personaggio più importante dell’opera, dopo Filippo.
Per quanto riguarda quest’ultimo, il libretto di Méry e du Locle con cui Verdi aveva attivamente collaborato prevede non solo un’aria in cui il Re del più grande impero del mondo monologa sulla sua solitudine e la mancanza di affezione e fiducia umane, ma anche una serie di duetti, dei propri e veri dialoghi drammatici – con la moglie, con Posa, coll’Inquisitore – in cui si schiude tutta la complessità del carattere di Filippo II. Manca unicamente un dialogo intimo con il figlio che nel dramma di Schiller si trova all’inizio del secondo atto ed in cui Carlos richiede dal padre non solo l’incarico degli affari fiamminghi, ma anche fiducia e vicinanza paterna. Nell’opera questa scena è trasportata nel quadro dell’autodafé riducendola ad un mero conflitto politico che dall’intimità del gabinetto di Filippo padre si vede esposto sulla piazza de Atocha con una massa di gente spettatrice della polemica tra Re ed Infante. Tra questi dialoghi sia notato il trasporto della conversazione coll’Inquisitore dal quinto atto del dramma quasi al centro del libretto. La scena in questione è anche quella che contiene forse il testo più fedelmente riprodotto da Schiller.
E’ ridotto al minimo l’incarico politico di Elisabetta di Valois che nel primo atto della versione originale è rappresentata come un oggetto passivo di scambio tra due corti e che negli atti seguenti rimane quasi sempre un personaggio introverte, degno, regale. Nel quadro del gabinetto, durante la polemica con Filippo, essa si trova privata pure del potere politico, quello del legame francese, con cui l’Elisabetta schilleriana minaccia il marito irrispettoso. Nel libretto viene eliminata anche l’importanza politica che Elisabetta, regina di Spagna e figlia dei Valois, esibisce verso la fine di Don Karlos di fronte alla causa fiamminga – un peso politico abbastanza reale che mette in ansia Domingo ed Alba.
Oltre all’atto di Fontainebleau, che è del tutto assente dal dramma di Schiller, un altro aggiustamento sostanziale nel Don Carlo(s) è l’introduzione delle grandi scene di massa, come nel quadro dell’autodafé o durante l’irruzione del popolo nel carcere di Carlo, che era un sine qua non del grand-opéra e con cui Verdi voleva apportare un vero coup de théâtre al dramma tessuto tra conflitti personali e micro-intrighi politici. Ottiene un ruolo chiave il motivo del fantasma di Carlo V sotto il cappuccio di un frate. Si dà luogo non solo ad una scena molto lugubre e sublime all’inizio del secondo atto (della versione originale) in cui Carlo V prega con un coro dei frati, ma anche ad un finale abbastanza problematico e completamente diverso dal finale schilleriano. Se in Don Karlos la leggenda del fantasma di Carlo V errante in cappuccio è usata dall’infante per vestirsi similmente e quindi entrare nella camera della regina senza essere arrestato dalla veglia, in Don Carlo(s) il Frate diventa un personaggio quasi surreale, un deus ex machina che irrompe per salvare Carlos dall’Inquisizione, il ché rappresenta una soluzione abbastanza frettolosa che, in più, lascia aperto il futuro di Carlos dopo la caduta del sipario.
In quanto al personaggio del Marchese di Posa, anche nel suo caso si può parlare di un certo “servizio” che gli rende la musica, perché la natura troppo “idealisch”, come diceva Schiller, del carattere di Rodrigo risulta alla fine poco credibile nell’ambito di un dramma parlato. Si pensi all’anacronismo – se non assurdità – di un marchese che in pieno cinquecento sta richiedendo Gedankenfreiheit, libertà di pensiero, da un re rigorosissimo, lui stesso soggiogato dal potere del Santo Ufficio. E’ questa improbabile “idealità” di Posa, che viene “nobilitata” dalla musica verdiana e dallo shift di accenti che opera la musica come medium in genere. Bastano le due arie di Rodrigo nella scena del carcere per sommergere tutto il contenuto politico ed ideologico, che sostanzialmente appartiene al dramma verbale. Eppure, questa sommersione non significa del tutto l’eliminazione del contenuto filosofico o politico del dramma schilleriano dalla sua versione lirica. La ragione per cui l’opera Don Carlo(s), contrariamente alle altre opere verdiane scritte da Schiller, è tanto popolare nei paesi germanofoni si trova proprio nel fatto che Don Carlo(s) ritiene tutto il contenuto politico-ideologico di Don Karlos senza riprendere – oppure senza fare emergere – i difetti che rendono maldestro ed incoerente il dramma parlato. Non è un mero caso che ad esempio in Germania l’opera Don Carlo(s) è più presente nei teatri lirici che Don Karlos nei teatri di prosa, il ché non si può affatto dire delle proporzioni di popolarità tra Kabale und Liebe e Luisa Miller. Don Carlo(s) è essenzialmente un’opera che unisce con successo tutta la melodiosità verdiana-italiana e la profondità e complessità “tedesche” che soprattutto oggi l’industria operistica dei paesi nordici ricerca pure nei più banali melodrammi per dare spazio ad “interpretazioni”, “letture” ed altre perversioni della mente umana. Questa è la sorte del Don Carlo(s) di Verdi nei paesi germanofoni dal momenti in cui – nel 1933 – il grande scrittore austriaco Franz Werfel e Lothar Wallerstein collaborarono per una traduzione tedesca del libretto e l’allestimento del capolavoro verdiano a Vienna, che non aveva mai prima ospitato l’opera in questione. Se nel caso di Kabale und Liebe Franz Werfel può affermare che Verdi abbia preso il dramma di Schiller come mero pretesto per un melodramma essenzialmente estraneo al contesto ed allo scopo della tragedia tedesca, Don Carlo(s) può tranquillamente essere considerato come un dramma di Schiller tradotto da Verdi – non in italiano, ma in musica. Si tratta sicuramente di una traduzione detta “congeniale”, traduzione per certo molto “libera”, ma in fondo forse più fedele al vero senso dell’originale che qualsiasi traduzione “letterale”.
“Don Carlo(s) può tranquillamente essere considerato come un dramma di Schiller tradotto da Verdi – non in italiano, ma in musica”.
Credo che non potrebbe essere detto meglio.
Il tuo scritto è davvero molto interessante: mi sono dedicato alla lettura del “Don Carlos” di Schiller all’inizio dell’estate, e mi trovo d’accordo con ogni tua affermazione; non sto quindi a ripetermi esprimendo gli stessi tuoi concetti con parole diverse.
Una cosa che mi ha molto colpito del passaggio da Schiller a Verdi è il modo in cui i librettisti abbiano sfruttato praticamente tutti i dettagli del dramma schilleriano decomponendoli e disseminandoli in punti dello sviluppo drammaturgico diversi da quello originario. A volte si tratta di veri e propri dettagli. In Schiller, per esempio, nel giardino reale si svolge una scena simile a quella che in Verdi ha luogo nei pressi del Monastero di San Giusto: le dame della corte si intrattengono ricamando e Eboli canta la Canzone del Velo accompagnandosi con il mandolino. In Schiller la Canzone del Velo manca totalmente, ma che la principessa suoni bene quello strumento è detto altrove, e in tutt’altro contesto: nel terzo (o quarto?) atto, quando Carlos si reca nel salottino di Eboli credendo però di raggiungere la regina, trova la nobildonna intenta a cantare e suonare il mandolino. Questo è solo un esempio, ma ti sarai accorta che la lista di casi simili sarebbe molto lunga.
Ancora complimenti e un caro saluto.
Grazie!
Hai perfettamente ragione su come i librettisti abbiano “riciclato” degli infimi dettagli del dramma per una migliore costruzione drammaturgica dell’opera.
Un esempio sarebbe appunto il talento musicale di Eboli, l’altro, quello evocato da me, del fantasma di Carlo V. Ci sono ancora tanti altri.
Interessante, come sempre, il tuo articolo cara Grisi. Mi spiace solo che non spendi parola sul sublime duetto finale fra Carlo ed Elisabetta, il più disperato, infelice, agnostico momento musicale concepito da Verdi (non so, e me ne vergogno, se vi sia un corrispettivo in Schiller) nel quale la sfuducia nei confronti della religione , da parte del nostro amato compositore, è totale.
Suona molto meglio nella versione francese (Ah quel: “Cet éternel absent, qu’on nomme le bonheur!”) , ma anche in italiano….
http://www.youtube.com/watch?v=u1YvapGlfNo
http://www.youtube.com/watch?v=caDpCO4OhN4
billy, l’autrice è la sublime pasta!
Se vogliamo parlare dell’anticlericalismo di Verdi, questo è ancora più evidente nelle parole del Frate.
Mon fils, les douleurs de la terre
Nous suivent encor dans ce lieu,
La paix que votre coeur espère
Ne se trouve qu’auprès de Dieu!
Il duolo della terra
nel chiostro ancor ci segue,
solo del cor la guerra
in ciel si calmerà.
Sia notato che la versione francese del testo, come il testo del duetto finale citato da te, non è cosi esplicitamente anticlericale. Si parla solo dell’impossibilità di essere felici in questo mondo tout court, mentre nella versione italiana il Frate sottolinea che il chiostro (non QUESTO chiostro concreto come luogo geografico, ma IL chiostro ovvero la chiesa in genere) non è capace di allevare “il duolo della terra” e che, alla fine, il chiostro non è capace di rappresentare quello di cui si reclama, ossia Dio.
Non so, se questa differenza fondamentale nella traduzione di questo passaggio è stata pensata in questo modo anticlericale o se l’hanno fatto per mera comodità linguistica.
Opss scusa