Sorella Radio. Elisir d’amore dal Metropolitan

Elisir d’amore è una delle opere più amate dal pubblico e non senza fondamento. L’argomento grazioso e patetico nel senso più nobile del termine, la perfetta fusione di momenti comici e sentimentali ne fanno una delle partiture più riuscite di Donizetti e del melodramma italiano in generale. Non è quindi singolare che il Metropolitan di New York abbia scelto questo titolo per inaugurare la propria stagione 2012-13, varando contestualmente un nuovo spettacolo che manda in pensione l’ormai storico (oltre venti anni nei rosters del teatro) di John Copley.
A produzione nuova e sicuramente lussuosa, di quel bel lusso che appaga l’occhio dello spettatore, corrisponde o dovrebbe corrispondere una distribuzione vocale all’altezza di cotanto lusso. Solo che il lusso così come lo intendono i signori dirigenti i teatri, specie quelli di fatto colonizzati da prestigiose agenzie teatrali e viepiù prestigiose case discografiche, ben di rado si sposa con una qualità comparabile agli investimenti economici che tale lusso richiede, esige e pretende.
Il più delle volte lusso è il prodotto che si deve, per contratto, collocare, o che si teme di non riuscire più a collocare, o che si tenta di collocare oltre e contro ogni ragionevole dubbio.
Prendiamo la protagonista di questo Elisir, che la radio prima e Internet poi hanno celermente diffuso ai quattro angoli del globo (dove peraltro i suoi protagonisti regolarmente si esibiscono). Un soprano che abbia stabilmente in repertorio Mimì, Manon di Massenet, Juliette, Antonia dei Racconti di Hoffmann, Violetta, che abbia affrontato persino Bolena e si appresti, stando almeno alle anticipazioni e ai desiderata che trapelano in rete, a fare lo stesso con Norma,  Leonora del Trovatore e Manon di Puccini, dovrebbe poter affrontare una parte come quella di Adina (sostanzialmente centrale, con sporadiche incursioni in acuto, parco utilizzo della coloratura e accompagnamento orchestrale di limitato calibro) senza un pensiero al mondo, neppure quelli che turbano o rischiano di turbare cantanti alle prese con parti più onerose, quali le protagoniste di Sonnambula e Puritani o ancora Norina, spesso affidate a soprani leggeri o giù di lì (e si taccia del must per qualsivoglia coloratura, vale a dire Lucia). Eppure basta l’attacco del passo declamato “Della crudele Isotta” all’introduzione per sentire come la voce della signora Netrebko suoni gonfia e piena d’aria, la respirazione greve e affannata, l’intonazione meno che precisa non appena si graviti nella quarta che sta tra il do4 e i primi acuti (segnatamente sul sol), che coincide con la zona naturale delal voce del soprano di coloratura quale la cantante sarebbe, se sapesse cantare. In prima ottava la voce semplicemente non c’è, a meno che l’esecutrice non ricorra a suoni tubati (discesa al do3 al secondo duetto con Nemorino “pesar le sentirà”) che risultano grotteschi se rapportati con l’evanescenza del settore acuto (strilletti sul sibem4-la4 nei passi vocalizzati “ne sapessi la ricetta conoscessi chi ti fa”, un autentico bercio il do5 alla cadenza che precede “Il mio rigor dimentica”). Cempennata la coloratura, quella poca, modesta prevista dall’autore, persino nello scorciato rondò conclusivo di cui la signora propone, complice il maestro Benini, una versione “Reader’s Digest”, ma l’aspetto peggiore, e indicativo di una vocalità a dir poco deteriorata e deteriore, è costituito dalla difficoltà nel legato in zona centrale (tempo d’attacco del primo duetto con Nemorino, cantabile al finale primo), che provoca la totale impossibilità di accentare senza ricorrere a suoni duri e berciati (“ci fosse Nemorino me la vorrei goder” all’apertura del secondo atto, o ancora le battute di conducimento che preparano il concertato “Io già m’immagino”). Adina spesso ricorre, al pari degli altri personaggi, al linguaggio dell’opera seria, trattato dall’autore con consapevole spirito parodico (stretta dell’introduzione e del quartetto, quest’ultima esplicita parafrasi di  Semiramide), ma questa non è certo ragione sufficiente per sottoporre l’invenzione donizettiana a un’esecuzione che ne stravolge la fine ironia in grossolana caricatura.
Gli altri interpreti, certo meno divinizzati della bellissima, richiestissima e quindi bravissima signora Netrebko, ma pur sempre esponenti di punta del medesimo star system, sarebbero nominalmente un tenore di grazia, un basso cantante e un basso caricato o parlante. Cantano tutti alla stessa maniera, allargando il centro e precludendosi quindi la salita agli acuti, non solo, ma la possibilità di accentare e legare nel registro medio, con conseguenti fiati corti e assoluta piattezza di fraseggio. Il meglio dell’arte di Matthew Polenzani, già sperimentata anche in Scala nella ben più onerosa parte di Des Grieux, emerge nel tempo di mezzo del rondò del soprano, alle parole “Poiché non sono amato voglio morir soldato”, con suoni malfermi e spoggiati nella zona che prepara il passaggio (fa/sol3), ma in tutti i passaggi cantabili e segnatamente al finale primo e alla “Furtiva lagrima” si ode un canto analogamente faticoso, una voce del pari chioccia e strozzata, frutto di insufficiente sostegno e garanzia di proiezione meno che passabile. Quanto a Mariusz Kwiecien, al “Come Paride vezzoso” sentiamo una voce artificiosamente scurita, anzi bitumata, che arranca nei passi vocalizzati (idem al duetto con Nemorino “ho ingaggiato il mio rivale”) e alla cadenza emette un sol acuto che sembererebbe sguaiato anche in bocca a un Gianciotto Malatesta in provincia, figurarsi ad un personaggio che fa la parodia del personaggio da opera seria (non per nulla il più acclamato Belcore ai primordi del titolo fu Antonio Tamburini, baritono nobile per antonomasia). Questo sempre per rispettare il carattere ironico e raffinato della musica, che descrive il borioso e galante sergente ricorrendo ai topoi dell’opera seria, ancora una volta seguendo l’esempio rossiniano (sortita di Dandini in Cenerentola). Analoga raffinatezza, gusto del pari mirabile connotano il Dulcamara di Ambrogio Maestri, che non risparmia una sola delle caccole della tradizione più deteriore (ivi compreso il “fischio” o sibilo nella voce alla barcarola), ma poi al duetto con Nemorino affoga nel sillabato “Va’ mortale fortunato”, proprio perché la voce, come si dice in gergo, non ha giro al centro. Ossia non è sostenuta a dovere. E sì che questa è una parte di tutto riposo vocale, specie per chi canti abitualmente il ben diversamente impegnativo repertorio verdiano.
Maurizio Benini dirige un Elisir di tradizione, tagli compresi (ne fanno le spese soprattutto i concertati, oltre all’assolo conclusivo della protagonista, come già ricordato), condotto in porto con mano pesantuccia (soprattutto nelle code dei singoli brani, spesso bandistiche) e scarse, per non dire inesistenti, finezze orchestrali. Tutto giusto e adeguato al livello del canto, solo che dovremmo essere al Coccia di Novara (con tutto il rispetto) e non in quello che, per storia e tradizione, potremmo considerare il primo teatro statunitense e uno dei primi al mondo.

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5 pensieri su “Sorella Radio. Elisir d’amore dal Metropolitan

  1. Mamma mia, che oscenità. E sì che ormai, dopo sessant’anni (tanto per porre un limite) di verticale decadenza canora, dovremmo aver fatto il callo a voci femminili che sanno solo strillare gli acuti, coi centri indietro e ingolfati… e invece questa Netrebko riesce nell’ardua impresa di ulteriormente ingagliardire lo standard della voce svaccata e slabbrata. Non c’è mai limite al peggio. Vomitevole… Ah, e vogliamo parlare di questi tenori che proprio non ce la fanno a far a meno di urlare e a non essere gretti e superficiali neanche in un’aria da principianti come la cavatina di Nemorino?

  2. Salve. Scusate se sono piuttosto un profano. Che dire? Una volta trovavo ingenerose certe critiche alla bella Anna basate sul fatto che era più nota per la bellezza che per le doti canore, perchè pur senza avere i numeri per diventare una interprete storica, ebbe alcune buone stagioni. Come per una legge del contrappasso però, da quando è diventata la diva del Met, il declino s’è fatto sempre più vistoso e ribadisco che lo scrive uno che non era assolutamente prevenuto nei suoi confronti.

    • Buonasera, Ruffotitta. Io credo che sia proprio questo il punto. La Netrebko canta con una vocetta pietosa, priva di qualsiasi remoto concetto di tecnica canora e interpretativa; canta quindi, in modo (voglio esser gentile, e falso) quantomeno mediocre, come un soprano non di certo che deve rimanere nella storia. Però si atteggia (e viene proposta/propinata) come una Diva Assoluta, una delle migliori cantanti dei nostri giorni. Insomma, io credo che una che vuol considerarsi una specie di “Maria Callas del ventunesimo secolo” (inteso come voce ma anche come fenomeno mediatico), non possa certamente presentarsi nella attuale maniera, con solo pochi
      sprazzi di DECENZA (fosse almeno, in quegli sprazzi, risultata brava!). La Signora deve capire cose vuol fare. La mediocre o la diva? perchè non credo possa esistere una diva mediocre. Purtroppo sembra invece proprio il contrario, il mediocre nel mondo lirico (e non solo…) di oggi trionfa sempre.
      Cordialmente.

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