Ci sono allestimenti antichi, col tempo divenuti storici, la cui ripresa si giustifica anche in assenza di ulteriori elementi di interesse, in ragione del valore documentario e del fascino di scene e costumi tanto demodé (in un’epoca in cui prospera e trionfa la moda nella sua più becera declinazione) da risultare straordinariamente moderni. È il caso della Bohème zeffirelliana in scena in questi giorni alla Scala, o del Rossini di Ponnelle, spesso riproposto al Piermarini, a volte con la non troppo celata speranza che le creazioni del regista francese potessero per effetto taumaturgico contribuire a elevare la qualità dell’esecuzione musicale. Quasi bastasse un costume a trasformare un principiante mezzosoprano, seppur di gran voce, in Teresa Berganza o Marilyn Horne.
Cavalleria rusticana e Pagliacci, regie create da Liliana Cavani per il Ravenna Festival una quindicina di anni fa, non possono certo aspirare al medesimo livello di rievocazione storica e non dispiegano analogo fascino. Si tratta però di spettacoli di pregio: tradizionalissimo l’allestimento del titolo mascagnano, rivisto nell’ambientazione (la periferia milanese a metà degli anni Cinquanta, con un terrapieno fangoso tra palazzoni in odore di edilizia popolare postbellica) ma non per questo meno ossequioso del libretto quello dell’opera di Leoncavallo, entrambi permettono ai cantanti di muoversi liberamente, senza dover compiere azioni e gesti inconsulti, in forza dell’idea (oggi a dir poco superata) che prima di ogni altra cosa all’esecutore debba essere consentito di cantare. Anche al coro (almeno nella ripresa curata da Marina Bianchi) viene assegnato un ruolo relativamente statico, con un numero limitato di azioni occasionali su cui si innestano gli interventi di alcuni mimi (segnatamente in Pagliacci) con il compito di “riempire” la scena negli ensemble. Per inciso, tanto il preludio quanto l’intermezzo di Cavalleria si svolgono a scena aperta, con effetti di luce che evocano rispettivamente l’alba e (in modo piuttosto incongruo, vista l’unità di tempo prevista dall’azione, che si svolge nell’arco massimo di sei ore, dalla mattina al meriggio del giorno di Pasqua) il tramonto sulla piazza del paese.
La bacchetta era affidata ad Alberto Veronesi, che nella prima delle due repliche cui abbiamo assistito (mercoledì 10 e domenica 14 ottobre) ha avuto persistenti problemi nel coordinare buca e palco, segnatamente nelle scene corali, in particolare nel coro d’introduzione e in quello che segue l’intermezzo di Cavalleria e nel coro “Don, din, don” e nell’intero secondo atto dei Pagliacci, tanto da rendere impervi ai solisti gli attacchi della Commedia (“Guarda amor mio…”). Un poco meglio sono andate le cose alla recita domenicale, in cui peraltro è risuonato, dopo l’intermezzo di Cavalleria, un sonoro “buh” chiaramente rivolto al direttore. Analoga reprimenda avrebbe dovuto essere rivolta al coro, in primis alla sezione femminile, che ha mostrato notevoli problemi di intonazione alla scena “Inneggiamo, il Signor non è morto”. Siccome invece tutto è finito, come suol dirsi, in gloria, riteniamo che la contestazione rivolta al maestro Veronesi avesse più che fare con la scarsa brillantezza e la tendenziale pesantezza di una direzione musicale di assoluta routine, che non con gli “scollamenti” fra orchestra e solisti, molto più contenuti alla replica considerata.
Quanto ai solisti, viene da chiedersi se abbia (ancora) un senso distinguere, comparare, analizzare pregi (scarsi) e difetti (ahimè ben più numerosi), quando nell’allestimento di due opere, ognuna delle quali con doppio cast, si stenti a rinvenire un solo esecutore che canti non dico impeccabilmente, ma a un livello di minima correttezza professionale.
Concediamo pure a Katja Lytting (Santuzza) le attenuanti del caso, per aver sostenuto, oltre alle recite del secondo cast, anche la matinée domenicale. La signora, nominalmente mezzosoprano, è assolutamente inconsistente in prima ottava, con suoni soffocati che risultano inudibili appena l’orchestra oltrepassi un semplice piano. Al centro la voce ritrova la sua natura di soprano lirico, ma appena la tessitura sale (“m’amò, l’amai”, “Io son dannata” o ancora “Turiddu mi tolse l’onore”) la cantante è costretta a ghermire i suoni, producendo urla malferme, per giunta di limitato volume. Conseguenza necessaria e inevitabile è che questa Santuzza non riesca a dire una sola frase, risulti costantemente in difficoltà nelle lunghe frasi legate in cui dovrebbe recriminare contro Turiddu, denunciare la propria vergogna alla mancata suocera e reclamare vendetta da compare Alfio, e si taccia del confronto con la rivale, in cui le frasi topiche, dense di amara ironia “Gli dicevo ch’oggi è Pasqua” e “Oh, fate bene” passano semplicemente inosservate, anzi, inascoltate, al pari dell’annotazione, livida e rancorosa, rivolta a Turiddu “Assai più bella è Lola”, tradizionale punto di “soddisfazione” per le Santuzze impetuose e per quelle autenticamente megere.
Analoghe difficoltà in basso e, in misura più contenuta, in alto denuncia (segnatamente nella Commedia, spesso più agita e mimata che propriamente cantata) la Nedda di Inva Mula, che ha ancora in compenso in zona medio-alta tre-quattro note sufficientemente salde e tali da permetterle di affrontare alcuni passaggi (“Confusa io son”, buona parte della Ballatella e il cantabile del duetto con Silvio) in maniera accettabile. Finché il soprano albanese canta piano, nella zona che prepara i primi acuti (do-fa4) può contare su una voce morbida e piacevole, seppur di limitato volume, che diviene però fastidiosamente stridula al primo tentativo di accentare, ad esempio alla scena con Tonio oppure al drammatico confronto finale con il marito. L’esecutrice è sempre molto musicale e attenta a evitare eccessi interpretativi di sorta, tuttavia desta meraviglia, perplessità e rammarico che una cantante che ha o ha avuto in repertorio parti altrimenti onerose come Violetta, Margherita del Faust, Antonia dei Contes d’Hoffmann, Mimì, Manon di Massenet e Gilda, stenti e fatichi in tal misura nella ben più abbordabile Nedda, parte che presenta contenute difficoltà interpretative e quasi inesistenti scogli vocali. Scogli sui quali impietosamente s’incaglia anche Sabina Cvilak, alla cui florida fisicità non corrisponde una del pari generosa natura vocale né adeguate risorse tecniche. Ne risulta una Nedda che annaspa in basso e cigola in acuto, e che non va oltre una generica aderenza sotto il profilo scenico nella parte finale dell’opera.
I due Turiddu (Giancarlo Monsalve in primo cast, Lorenzo Decaro, reso celebre dal “salvataggio” della recente prima scaligera di Tosca nel secondo) sono accomunati dall’incapacità di legare centro e primi acuti. Se il primo allarga i suoni in basso, precludendosi in conseguenza la possibilità di salire ad acuti sicuri, non solo, ma minimamente intonati, il secondo risulta di scarso volume in prima ottava e costretto a emettere suoni fra naso e gola e sistematicamente indietro appena la tessitura si aggiri nella zona del passaggio. Come Canio, Piero Giuliacci (primo cast) esibisce voce di anziano tenore caratterista (da Incredibile in provincia), limitato volume, fiati costantemente corti e sistematiche difficoltà di intonazione in acuto (ad es. nell’ultimo “a ventitré ore” con la puntatura di tradizione al si naturale e nell’”o meretrice abbietta” alla fine dell’opera). La scelta di dedicare, agli applausi finali, la rappresentazione alla memoria di Pavarotti lascia perplessi, a meno che Giuliacci non avesse in mente certe performance scaligere, in Favorita e Lucia, risolte da Big Luciano con lacrime, sangue e qualche contestazione. Peraltro chi all’epoca contestò il tenore modenese sarebbe oggi prontissimo, inferiamo, ad unirsi alle ovazioni del pubblico bolognese per la prova di Giuliacci. Francesco Anile (secondo cast) canta in maniera analoga al collega, con un centro faticoso e di scarso volume e acuti che emergono più per difficoltà nella tenuta del suono che per squillo o potenza vocale. Legittimo che in cotanta arte in corda tenorile rifulga Leonardo Cortellazzi quale Beppe, se non altro perché l’(ex?) accademico scaligero canta una parte adatta alla sua natura vocale. Sulla carta, almeno, perché il suono non perfettamente “girato” su “senza tardar” (la-mi3) e l’assenza delle smorzature, che per consolidata tradizione impreziosiscono la serata di Arlecchino (ad es. su “di te chiamando”), testimoniano di una prova risolta più con la freschezza dei mezzi che non con la saldezza della tecnica.
Sempre per consolidata tradizione (in negativo, però) è in corda di baritono che si compiono i maggiori arbitri esecutivi nell’ambito delle opere veriste o riconducibili all’ambito del Verismo. Nel caso in esame la tradizione è anche troppo ampiamente onorata, da esecutori che peraltro la onorano per sistema anche quando sono chiamati a rivestire i panni di Scarpia o quelli degli eroi verdiani. La voce bitumata e l’espressione invariabilmente sopra le righe (specie nei Pagliacci), oltre che le difficoltà nel risolvere i passaggi vocalmente più “scomodi” come il salto si-mi acuto “Un nido di memorie” nel Prologo dell’opera di Leoncavallo, sono i tratti distintivi delle prove di Alberto Mastromarino e Alberto Gazale (primo e secondo cast rispettivamente, entrambi impegnati sia come Alfio che come Tonio): il primo, marcatamente nasale nell’emissione, evita il la bem di tradizione al Prologo dell’opera di Leoncavallo, risolto da Gazale con un suono schiacciato e stonacchiante. Censurabili entrambi nel sol acuto di “Incominciate!”, ma se non altro quello di Gazale è di maggiore volume. Acuti ancora una volta duri e indietro, legato inesistente, conseguenze ampiamente prevedibili di un centro tenuto “bello” largo nel tentativo (fallace) di renderlo più sonoro, sono le caratteristiche dei due Alfio, privi alla sortita della necessaria baldanza e incapaci di esprimere, al duetto con Santuzza come alla sfida, l’ira contenuta e terribile del marito scornato. La lezione dei grandi baritoni cosiddetti veristi, da Titta Ruffo in giù, è stata raccolta, in molti casi, solo nei suoi aspetti più deteriori. Un poco meglio, complice ancora una volta una maggiore freschezza di mezzi, il Silvio di Marcello Rosiello, che tenta lodevolmente di cantare a mezza voce e in maniera suadente alla scena di seduzione con Nedda, con il risultato che la voce, artificiosamente scurita e in difetto di appoggio, tende a scivolare nel parlato.
Segnaliamo infine che la produzione si è distinta per il forfait, a poche settimane dalla prima, di Anna Malavasi, annunciata come protagonista di Cavalleria. La Malavasi permane in cartellone per il prossimo mese di dicembre, quale Azucena nel secondo cast del Trovatore. Del resto, anche scorrendo la stagione 2013, annunciata in questi giorni, pare che il Comunale felsineo abbia una spiccata propensione per i debutti, diciamo ambiziosi.
La Malavasi era prevista fino ad oggi in cartellone nel secondo cast di Gioconda all’Opera di Roma come Laura. Ora è scomparsa e sostituita da Tiziana Carraro. Che sia diventata lei quella che tira più pacchi?
articolo molto interessante perché fa riflettere sulla deprecabile abitudine di mandare in pensione spettacoli bellissimi seppur tradizionali senza trovare nell’avanguardia almeno qualcosa di pari valore. A onor del vero la Boheme nelle ultime riprese ci aveva fatto pensare che fosse davvero venuto il momento di mandarla in pensione ma quest anno con dei bravi cantanti e un direttore che ha dato una lettura non retorica ispirandosi quasi alla tecnica pittorica del divisionismo gli ha dato nuova linfa. Io ho assitito alla recita con la Netrebko che a mio avviso é cantante di altissimo livello a patto che lasci stare il belcanto e si dedichi ai ruoli facili. Il ricordo della Cavalleria Rusticana di quindici anni fa mi addolora perché in essa vi canto un bravissimo Cura che (diffidando da Alagna e Licitra) speravo diventasse degno dei tre tenori suoi predecessori…invece ha creato un vuoto generazionale che in loggione stiamo pagando ancora a carissimo prezzo
carissimo, José Cura è sempre stato un cantante modesto e un interprete più modesto ancora (perché, more solito, era modesto il cantante) e questo tanto quindici anni fa come Turiddu quanto l’anno scorso come Canio alla Scala. Non c’è peraltro alcun vuoto generazionale, perché i cantanti che anagraficamente potrebbero essere figli di Cura (e quindi al massimo venticinquenni: stiamo parlando di un cantante nato nel 1962, benché vocalmente appaia anzianissimo, e ancora una volta ringraziamo, si fa per dire, la deficitaria tecnica dell’argentino) e sortono magari da accademie famose cantano esattamente come lui, con voci in natura spesso ben più modeste. Quanto ai bravi cantanti e al direttore divisionista (annotazione che mi fa pensare non tanto alla famosa collana dei Maestri del colore ma ai giustamente meno celebri album della casa Fabbri, quelli per intenderci adatti al più per compilare tesine per la scuola media inferiore) attendo, esauriti i peana e gli osanna della critica cioccolataia (tanto per usare un poco di cellettese) e degli spettatori “che vogliono bene alla Scala”, l’opinione del collega Duprez che ha assistito alla prime delle due epifanie della diva mondiale nel ruolo di Mimì. Peraltro osservo, e qui la chiudo in attesa di riprendere il discorso a recensione pubblicata, che Mimì si canta con un centro ben diverso da quello sfoggiato dalla signora Netrebko nel non certo remoto Don Giovanni scaligero, e tralasciamo pure quella pietosa Adina al Met della scorsa settimana (il cui sfacelo è evidente, grazie a Internet, a chiunque sappia e voglia riconoscerlo), dove la divina sembrava sul punto di tirare le cuoia a ogni frase, senza ch eil libretto evocasse situazioni di etisia tali da giustificare sospiri e suoni gonfi, in una parte di scrittura assolutamente centrale e vocalmente a dir poco elementare.
era Cura che doveva essere figlio di Pavarotti Domingo e Carreras non mi riferivo ai figli di Cura (non ci siamo intesi sullo scarto generazionale). Ribadisco che a Ravenna Cura cantò benissimo (ascolto ancora almeno una volta ogni due anni quella registrazione). Circa Rustioni ribadisco l’ottima impressione che mi ha fatto, penso che la sua caleidoscopicità si possa ben adattare al Ballo in Maschera dell’anno prossimo. Sulla recita del 19 penso leggeremo presto i commenti ma dopo aver letto la recensione della sua prova salisburghese comparsa sul blog pensavo veramente peggio. Invece mi ha fatto ne più ne meno la buona impressione avuta quando l’ascoltai a Vienna in Micaela
Puoi ribadire tutto quello che vuoi. Io ribadisco, a mia volta, che così non è. E basta riascoltarlo per rendersene conto: http://www.youtube.com/watch?v=eFn8Eio_oZc
Onestamente credo che Cura non abbia mai cantato bene un sol giorno nella sua vita. Mi sono limitato a sentire la Serenata, con dei veri e propri conati di suono nel passaggio più difficile, e l’addio alla Madre dove: 1) nelle prime frasi cerca la mezza voce senza trovarla, anzi spoggiando; 2) alcuni acuti sono presi bene quando lo spartito richiede il salto di grado (lui sale di forza e li fa), ma quando deve scivolare sul passaggio piuttosto che un giro, il fiato fa un salto triplo carpiato, tanto è pesante la sua emissione: lui sì che ha sempre muggito.
L’unica differenza è che nel 1996, era giovine e forte e se lo poteva permettere. Oggi ne raccoglie però gli amarissimi frutti.
beh nei Pagliacci nessuno può contestare che fosse indecente però fino alla Forza del destino alla Scala sembrava un tenore molto promettente. E’ stato all’Otello di Torino (quello diretto da Abbado) che esaurito il vigore di cui il Sig. Tamberlick faceva cenno che si sono capite le gravi deficenze tecniche del nostro. Ricordo a tutti che in Gioconda e Manon Lescaut il successo di pubblico e critica fu notevole.
Ciao Alberto, scusami se rispondo ora ma ho avuto piuttosto da fare.
Cura, ad orecchie buone, non è mai stato un tenore promettente nemmeno nella sua primavera che, ammesso che ne abbia mai avuta una, ha comunque subito ua gelata precoce. E questo perché fondamentalmente non ha mai capito che la sua emissione ingolfata, pesante, artefatta e camuffata. Personamente lo ascoltai una sola volta dal vivo diversi anni fa in Arena: cantava Carmen… Oltre che aver reso il pù rozzo Don José che mi sia capitato di udire, ricordo che la sua voce non perveniva alle gradinate se non per mezzo del microfono.
Comprai nella mia prima gioventù (ora sono nella seconda 😀 ) un suo disco “Verismo” giusto perché v’incise arie obliate dalla inkultura dominante (non sapevo nemmeno che Giordano avesse scritto Marcella). Quel disco l’ho poi voluto dimenticare in qualche oscuro rcesso, tanto, a me melomane 19enne alle prime armi, dopo poco fece orrore o quel che è peggio noia, quella voce patentemente contraffatta, goffamente ispessita, talmente bassa di posizione e muggente (altro che Ruffo e Bechi, caro Celletti) che lo ha portato allo sfascio.
http://youtu.be/Geetao4-9Uw
Buona sera a tutti dalla fredda Germania!!
Purtroppo non ho potuto assistere alla Cavalleria e Pagliacci a Bologna, il tutto esaurito ha lasciato molti fuori e con la voglia di sentire e vedere questa produzione.
Comunque, ho sentito quasi tutti i cantanti di questa Cav-Pag in altri teatri e altre produzioni eccetto Sabina Cvilak, Katja Lytting e Francesco Anile.
Poi, che centra Cura con questi cantanti? vedo che parlate di Cura qui.
Posso dire però che ho sentito a Torino i tenori della Cavalleria a Bologna, in primo cast Monsalve e secondo cast Decaro, Monsalve in un Ballo in Maschera e Decaro in Tosca, Poi a Piero Giuliacci e Alberto Mastromarino gli ho visti in tante altre Opere. Non mi sembra però che Giugliacci, Decaro e Mastromarino abbiano delle piccole voci o con poco volume, posso si costatare che Monsalve ha una enorme voce, e sicuramente per quello riusciva a passare l’orchestra diretta senza il più minimo controllo dal Maestro Veronesi a Bologna (per quello che ho sentito su youtube) questo forse fa sentire che Giuliacci, Decaro e Mastromanrino non avevano abbastanza volume, come vedo scritto in questa recensione, io penso che tutto ciò accade per la interpretazione smisurata dell’orchestra, Cavalleria e Pagliacci son già abbastanza forti come orchestrazione, poi se si suona alla Wagner.. addio. Ma loro la voce ce l’anno e tanta.
Comunque condivido con voi i link che ho trovato della Cavalleria e Pagliacci al Comunale di Bologna 2012.
A presto
Siciliana
http://www.youtube.com/watch?v=KayfSC3GCDA
inneggiamo al signor
http://www.youtube.com/watch?v=LmDPWBG5lTQ
Tu qui Santuzza
http://www.youtube.com/watch?v=rlKnFVSZbZM
viva il vino!
http://www.youtube.com/watch?v=kcIIN46865U
Addio alla madre
http://www.youtube.com/watch?v=cl0bd2dk30Q
Intervista alla signora Cavani
http://www.youtube.com/watch?v=rXCNfHfy-G8
Pagliacci
A 23 ore
http://www.youtube.com/watch?v=WZMTelGWvGs
Silvio e Nedda
http://www.youtube.com/watch?v=eHPkmxKFfGY
Serenata d’Arlecchino
http://www.youtube.com/watch?v=Ln7YgL31aE8
Arlecchino e Colombina
http://www.youtube.com/watch?v=90kxlFY-LUA
Vesti la giubba
http://www.youtube.com/watch?v=8H_03vO4UUU
Intervista a Umberto Veronesi
http://www.youtube.com/watch?v=GisoZH8SaNo
Il tutto esaurito era solo sulla carta: bastava presentarsi a teatro con un’ora di anticipo e si poteva entrare comodamente in loggione. Questo tanto alla recita serale con il secondo cast quanto alla pomeridiana con il primo.
Quanto alle voci, il volume, come dimostrano gli ascolti postati, era il problema minore o comunque non il più significativo.
Il paragone con Cura, posto da albertoemme, proviene dal fatto che l’argentino “creò”, come suol dirsi con un discutibile francesismo, questo stesso allestimento di Cavalleria al Ravenna Festival.
(Decisamente il problema minore, Antonio!)
benvenuto dalla germania! A presto
Ho sentito solo uno degli ascolti proposti da Melandimelomane. La siciliana di Monsalve.
Adesso voglio che qualcuno mi spieghi come “diamine” (ma la parola che che userei vorrebbe essere altra) sia anche solo lontanamente immaginabile andare a teatro per ascoltare una roba del genere.
Buon Dio, che bile che m’è venuta.
“Non sei solo… siamo in due!!!”