I venerdì di Mancini: impariamo ad ascoltare. Lucien Fugère ne “La Ronde d’Amour”

I dischi incisi da Lucien Fugère, storico rappresentante della scuola canora francese dell’Ottocento, ci consentono un viaggio indietro nella storia dei cantanti (e non del canto, giacché il canto è UNO e non ha storia) di circa un secolo e mezzo, datandosi l’inizio della sua carriera di baritono attorno al 1870. I primi, registrati con il procedimento acustico negli anni 1902-1905, lo colgono nel pieno dei suoi cinquant’anni, mentre negli ultimi, elettrici, il cantante, che ancora calcava le scene con successo, è un vegliardo ottantenne. Il confronto è quanto mai interessante sia per verificare la tenuta della voce con il passare del tempo, sia per studiare l’evoluzione delle tecnologie d’incisione. Lo ascoltiamo qui eseguire a distanza di anni la stessa canzone, che ne mette in risalto la levità di emissione e la scioltezza dell’articolazione, a fior di labbro. Assuefatti come siamo da almeno mezzo secolo di verticale decadenza a voci baritonali sistematicamente ingrossate, spinte, involgarite dalla ricerca artificiosa di forza e colore, senescenti già a quarant’anni, con emissioni precocemente instabili e oscillanti a causa dell’usura dell’apparato, l’ascolto di Fugère, col suo suono puro, chiaro, leggero, semplice e pulito, privo di qualsivoglia zavorramento da stereotipo di “voce lirica”, ci può forse far sorridere o storcere il naso. Come in tutti le voci dell’antica scuola francese, grande risalto viene dato alla parola e alla sua corretta pronuncia. Fugère è pure autore di un trattato di canto che si sofferma particolarmente sul momento dell’articolazione, e sua è la formula “chanter c’est mimer l’émotion e c’est la parler”, che ricalca quella di Schipa “si canta come si parla”. Un principio, questo, che gli permise di cantare con voce fresca, ferma e intonatissima fino a tarda età, come sentiamo nella seconda incisione della canzone. Ciò che dovrebbe destarci impressione, oltre al timbro che se nella prima incisione è caldo e rotondo qui ancora mantiene una chiarezza giovanile, è l’intatta scioltezza nell’affrontare un brano su cui oggi chiunque non potrebbe che impantanarsi grevemente, e la capacità di fraseggiare con vere modulazioni, assottigliamenti dinamici, varietà di colori, che fanno vivere la musica. Si ascolti poi con quale nonchalance viene risolta una frase di scomoda tessitura come quella a 4:38 “Ils s’embrasseraient”, che coinvolge la zona di passaggio ed i primi acuti, qui affrontati con emissione leggera di dichiarato falsetto(ne). E infine ci si figuri la stessa frase in bocca ad uno qualsiasi dei più blasonati interpreti dei nostri giorni.

G. B. Mancini

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34 pensieri su “I venerdì di Mancini: impariamo ad ascoltare. Lucien Fugère ne “La Ronde d’Amour”

  1. Effettivamente impressiona questo suono leggero , oltre ovviamente a tutto il resto, suono quasi tenorile (mi pare che il Maurel abbia cantato il ruolo di Carlo nella Linda di Chamounix a Venezia, ruolo tenorile). Una domanda: perche’ al minuto 2,22-2,23 in “jardin” la E diviene quasi una A ?

  2. Cantante che non conoscevo e ringrazio Mancini per avermelo fatto scoprire dal fraseggio e articolazione assolutamente pregevoli.

    Non è mia intenzione aprire uno discorso in merito – assolutamente conscio che la mia mozione farà da luce per le zanzare – ma non sono assolutamente d’accordo e provo non poca irritazione e sofferenza nel leggere “un viaggio indietro nella storia dei cantanti (e non del canto, giacché il canto è UNO e non ha storia)” in quanto il canto è ANCHE un’arte pratica soggetto a tanti condizionamenti sopratutto storici e non un sistema religioso-filosofico, ed è fatto principalmente dai cantanti. Il canto e la tecnica vocale si sono evolute perché i cantanti ed i compositori hanno portato delle novità. Sicuramente, e ne sono cinvintissimo, ci sono delle regole fisse – respirazione, appoggio, proiezione, fraseggio etc – come ogni “arte meccanica” : un incastro a coda di rondine ha lo stesso principio di disegno e funzionamento nel medioevo come oggi, ma si fan in maniera diversa!
    Torno a dire, non vorrei aprire nessun dialogo perché la mia idea generale di tecnica vocale e canto è una idea primariamente pratica e artigianale, con pochissimi punti di contatto rispetto alla visione metafisica di Mancini.

    • Ti rispondo, anche se è un discorso piuttosto difficile, che tocco qui solo superficialmente. Prima di tutto io non ho scritto che “la tecnica non ha storia”: ho scritto che il CANTO non ha storia. La tecnica è un mezzo e non il fine, spero ne converrete. La storia del canto è solo storia di cantanti, di compositori, di opere, di forme musicali, ma l’essenza del canto è sempre la stessa.

      Detto ciò, bisogna distinguere tra tecnica musicale (scale, arpeggi, agilità, trilli, messe di voce, legato ecc…), che senz’altro si è evoluta nei secoli insieme all’evolversi delle forme compositive, e tecnica in senso stretto ossia impostazione della voce, emissione. La corretta emissione è una sola, il suono giusto in termini di posizione e alimentazione del fiato è uno solo, e non ha storia, non è soggetto a convenzioni, a prassi o ad arbitrii, in quanto è un fenomeno legato alla nostra struttura fisica, al funzionamento del nostro corpo e del nostro orecchio che rimangono sempre invariati. E’ poi vero che si sono sviluppate soprattutto nell’ultimo secolo anche diverse tecniche (sottolineo, TECNICHE) di emissione, soprattutto a causa delle ingerenze in campo didattico della foniatria. Ma ribadisco, la tecnica è un mezzo. Il fine da perseguire, ossia la giusta emissione, è uno solo, e comporta il superamento della tecnica stessa.

      Il paragone con l’evoluzione del pianoforte non c’entra niente. Il nostro corpo è sempre lo stesso e funziona sempre allo stesso modo, non è uno strumento che possiamo modificare.

      • però Mancini anche nel canto nel corso dei secoli il repertorio si è di molto allargato ,quindi anche la tecnica deve evolversi per potere stare dietro a questo ampliamento,è vero che il corpo umano non è modificabile,come uno strumento musicale,ma la voce comporta un evoluzione per non cantare come mille anni orsono,quindi la base resta quella,ma si evolve la tecnica per mettere questo continuo “aggiornamento” ,forse quello intendeva Mozart

      • Buonasera. Sono Antonino D’Emilio, studio canto con Alessandra Gonzaga. Seguo da alcuni mesi il blog; ma non mi inserisco mai nelle discussioni perchè penso che, non essendo nè un cantante nè un maestro di canto, non mi competa dire pubblicamente quel poco che so per adesso e quello che penso. Potrebbe sembrare questa anche una critica nei vostri confronti: vi prego assolutamente di non intendere le mie parole in tal modo: è solamente un modo di essere che riguarda me stesso. Anzi, colgo occasione per ringraziarvi del lavoro che svolgete e dell’amore che avete per il Canto.
        Ma stasera voglio momentaneamente smentire la suscritta premessa. Sono d’accordo con quanto espresso dal Sig. Mancini e vorrei aggiungervi un semplicissimo ma necessario fattore tecnico: l’udibilità della voce fino all’ultimo posto del loggione. L’unico modo per assicurare questa condizione è la corretta emissione di antica e nobile scuola italiana: solo così si avrà la sensazione che la voce avvolga te ed allo stesso tempo avvolga e riempia tutto il teatro. Credo che l’udibilità sia il presupposto basilare per il canto in teatro e quindi il fattore più elementare per difendere e sostenere la corretta emissione italiana come base e mezzo del canto (l’emissione di cui parla Mancini).
        Ma io penso all’emissione anche come fine: è solo con essa che il canto smette di essere un’espressione corporale per diventare un’espressione spirituale e trascendente; come dice la mia maestra “il canto è uno dei volti dell’amore”. Ma questo è un altro discorso.
        Premesso che non mi piace la parola interpretazione perchè solitamente è utilizzata per giustificare i criminali che non sanno cantare, vorrei aggiungere un ultimo pensiero: soltanto quando l’emissione è giusta, è Vera (questa parola piacerebbe a Celibidache) il cantante è libero di interpretare disponendo egli dei mezzi di espressione che sono propri della musica: la dinamica, i colori, le sfumature, gli accenti, ecc. Allora si può parlare di interpretazione.
        Grazie,
        un saluto a tutti voi
        Antonino D’Emilio

        • Antonino ha scritto “Premesso che non mi piace la parola interpretazione perchè solitamente è utilizzata per giustificare i criminali che non sanno cantare”

          Dipende da cosa intendi per interpretazione,perche la vera interpretazione nel canto si ottiene solo se si sa veramente cantare,due esempi di due cantante che sanno interpretare Magda Olivero e Renata Scotto

          • poi volevo anche aggiungere che il canto non è solo bel canto, lirica ,opera,nel pianeta musica tanti altri tipi di musica,e modo di cantare che con l’avvento dei microfono,amplificatori ed equalizzatori, la corretta emissione ha un importanza relativa,e penso che Mancini ne convenga

          • Appunto Pasquale, è ciò che ho detto dopo la citazione che lai ha riportato. Esiste l’interpretazione soltanto quando l’emissione è giusta: quando la voce funziona come uno strumento (si dice sempre “suonare come si canta”; quasi mai si dice “cantare come si suona”) allora è possibile interpretare con i mezzi espressivi propri della musica: dinamiche, colori, fraseggi, registri (voce di petto, falsettone ecc.), accenti, pronuncia, ecc..Quindi interpretare nel canto significa scegliere (contingenze incluse) quali utilizzare tra le tante possibilità offerte dai mezzi espressivi propri della musica (scusate la ripetizione di un’intera espressione).

          • Ma scusi Pasquale, che cosa centrano gli altri tipi di canto? Quì si parla di lirica: essa si basa su rapporti acustici in cui la dimensione umana e spirituale che c’è tra chi emette il suono e chi lo riceve è diretta (per questo superiore); quando ci sono microfoni ed altoparlanti i rapporti sono elettrici (o elettronici, non so) ed il rapporto spirituale è mediato, quindi scadente.

          • Antonino a volte si tende a dimenticare che il canto non è solo lirica,e voce impostata nel corso dei decenni si sono imposti altri generi,questo non per fare un torto a Mancini che vede solo un Canto come una luce storica che scende dal cielo,quando si tende a generalizzare sulla parola Canto bisogna anche non chiudersi in un recinto,la parola Canto comprende grandi territori,a volte angoli ancora inesplorati di sviluppo vocale,solo questo volevo dire..

          • Mi pare implicito che qui si parli tutti esclusivamente di canto lirico. Con la voce si può fare (di) tutto, ma per cantare l’opera non va bene qualunque cosa, tanto meno una cosa qualunque.

        • Tamburini era solo per precisare,e non dimenticarsi che il pianeta musica è composto da tante fette musicali,e sono molto aumentate nel corso degli ultimi due secoli tutto qui,è chiaro che quando si parla di Canto qui si riferisce a quello lirico,o per lo meno operistico,però a volte è bene ricordare che esistono altri generi..
          D’accordissimo con Antonino,però voglio ricordare che quando si ascolta un disco ci sono microfoni e amplificatori anche per la lirica..

          • Quando si parla di canto si parla di Arte. Il canto certamente non è solo quello operistico, ma perché si possa parlare di vero canto, nonché di vera musica, non devono esserci microfoni. Il resto rientra nell’ambito del mero spettacolo, non dell’Arte. Il canto è UNO. Io non parlo esclusivamente del canto lirico, non parlo di UN canto tra tanti, ma dell’unico vero canto.

          • Ha ragione, Gianbattista. Anche le canzoni di musica leggera, che siamo più abituati ad associarle con il disco o la televisione, ascoltate dalla voce viva sono un’altra cosa.

  3. Comunque incredibile come certe registrazioni degli Anni Dieci siano un lontano eco, ma molto rappresentativo rispetto al canto di oggi, di come si cantava nei decenni immediatamente precedenti, e anche in epoca tardo romantica (per dire un periodo a caso: dal 1880 in poi).
    Proprio ieri sentivo un esempio di quel tipo di canto che sarebbe potuto essere nel suo eco sentito adesso. Mi riferisco all’aria “O Jone di quest’anima” dal “Jone” di Enrico Petrella (compositore “minore” dei tempi dell’imperante Verdi. Ma non direi tanto “minore”. Oltre al “Jone”, di lui rispolvererei e tirerei a lucido i suoi Promessi Sposi). Dicevo che praticamente ho sentito questa “O Jone di quest’anima” eseguita, nel 1908, da un tenore di nome Arturo Di Giorgio. E credo che rendi abbastanza bene il modo esecutivo del canto lirico di quei decenni e, sicuramente, di quelli immediatamente precedenti, fino a quale decennio, questo non lo so. Ma sicuramente rispecchiava il canto di quelli immediatamente precedenti. (Oltre a questo Di Giorgio, e ne sono, ovviamente, altri: Borgioli, Tamagno ecc. oltre alle altre corde).

    • inglfatti credo mancini volesse dire questo. Storia di cantanti ossia di interpreti ossia di interpretazioni. La tecnica è strumento metastorico…….salvo quando abbia,o deciso di deformarla, causando la fine delmcanto stesso.

      • Assolutamente in disaccordo: la tecnica e l’interpretazione a mio vedere sono quanto di più storico ci possa essere! Ergo, essendo il canto sia tecnica sia interpretazione, esso è assolutamente storicizzato.
        Come ho detto prima, quello che è più vicino al metastorico – e metafisico come lo intende Mancini – sono i principi alla base del canto e dell’interpretazione. Un cantante del ‘500 che canta un madrigale amoroso e un cantante del ‘900 che canta un’aria amorosa esprimono uno stesso valore universale ed immutato: l’amore. Il problema sarà COME lo interpreterà, e il COME – lo stile – dipende da un fatto anche storico, in quanto tecnicamente e musicalmente si utilizzeranno diversi ricorsi stilistici per un brano del ‘500 o un brano del ‘900, per non parlare dei singoli autori.
        Tecnicamente, il do4 di Garcia e Donzelli non è lo stesso do4 di Duprez o de Candia. Entrambi avranno avuto in mente l’idea di appoggio e proiezione – le basi del canto – ma il fatto tecnico di diversa emissione porta a dare diversissimo carattere al protagonista, e quindi uno stile diversissimo e possibilità tecniche diverse.

    • No no, io volevo dire esattamente ciò che ho scritto! Ma quale interpretazione d’Egitto! Io non parlo e non parlerò mai di interpretazione, che non vuol dire un bel niente.
      La tecnica, o le varie tecniche, sono strumenti con cui si cerca di educare l’emissione della voce per riuscire a cantare. Per spiegarmi faccio un esempio. L’oscuramento è un accorgimento tecnico spesso usato per risolvere il passaggio di registro. Ma l’oscuramento di per sé non è il fine, è solo un mezzo tra tanti – peraltro sconosciuto prima del Garçia – con cui si educa la voce a superare l’ostacolo del passaggio: l’obiettivo è saper governare il registro acuto, mica oscurare il suono. L’artista con la A maiuscola ovviamente sa emettere il registro acuto anche senza oscurare, altrimenti cantando dovrebbe ridurre tutto ad un pasticcio inter vocalico incomprensibile. Ecco quindi che la tecnica (in questo caso l’oscuramento) è solo uno strumento che aiuta il principiante a raggiungere il fine della corretta emissione. Un po’ come il bambino che impara ad andare in bicicletta con le rotelline: ad un certo punto queste andranno abbandonate.

      Per cui non è vero che la tecnica è unica e astorica. Nella storia ogni cantante di fatto ha adottato per sé accorgimenti tecnici personali, diversi da tutti gli altri. Ciò che è davvero unico e astorico è il canto in sé, ossia il risultato cui ogni tecnica dovrebbe tendere. Il fine da perseguire è la totale libertà, la naturalezza. I cantanti migliori, la cui arte è senza tempo, sono quelli come Schipa, in cui non si sente niente di artificioso, di costruito, di tecnicistico, in quanto ogni stadio tecnico in loro è superato. Aprono la bocca e cantano, stop.

      • Sono d’accordo con quanto dici, intendendo come canto = principi del canto.

        Una glossa mi sembra d’obbligo: il termine didattico “oscurare” deriva indirettamente dal Garcia in quanto, pur parlando di esplicito “arrotondamento” nelle zone di passaggio, il Garcia parla di suoni solamente in color scuro per la voce di tenore dal passaggio in su (Garcia segna dal Sol3 al Si3) in quanto in color chiaro sono “stridulli e ricordano le voci dei bambini del coro ascoltata in un vasto locale” (Prima parte – Capitolo VI – Voce d’uomo). Oscurare discende quindi dall’applicazione del color scuro.

  4. Da un po’ di tempo a tutt’ora abbiamo vissuto e stiamo vivendo tristissimi anni di oblio e scempio baritonale, anni in cui la figura del baritono si è spesso trasformata in un basso (mal)spinto verso l’alto: il risultato è una voce ingolata, e, come si legge nell’articolo, sopratutto che invecchia (e muore) prestissimo, causando poi i vari “baritoni” da pensione (giusto giusto uno che inizia per N e finisce per Ucci 😉 ) che invece si ostinano ancora a portare quello straccio di vociuzza rimasta sul palco.
    Ringrazio, quindi Mancini di avermi fatto scoprire questo magnifico cantante, con una chiarezza e una limpidezza timbrica senza pari (nel secondo ascolto-sarà una mia impressione-raggiunge quasi una tonalità di baritenore), e un fraseggio mirabile, pieno di colore e gusto interpretativo. Per rispondere alla tua proposta, Mancini, la butto li: un’aria di questo genere messa in bocca ad un baritono di oggi non è immaginabile; il cantante si perderebbe alla prima nota (e non è un’iperbole 😀 ).
    Cordiali Saluti

  5. ieri sera al Regio durante l’intervallo mentre scambiavo due parole con Massimo Fazzari , lui faceva un osservazione sulle parole di Mancini sul fatto che il corpo umano differenza del pianoforte non si modifica,ma resta il fatto che negli ultimi duecento anni è cambiata la statura media delle persone,l’alimentazione ecc certamente a livello dell’apparato vocale non è cambiato,ma un pur minimo cambiamento questo ha comportato,l’evoluzione o mutazione di un organismo è lenta e strisciante,ci va qualche milione di anni per produrre quache cosa di nuovo in bene o in male,ma sono sempre frutto di un addattamento ambientale,e negli ultimi due secoli tantissime cose a differenza degli ultimi millenni sono cambiate a cominciare dalla compromissione dell’ambiente,e a una rivoluzione delle nostre abitudini,e stile di vita,poi anche in trecento anni c’è stata un invenzione o modifiche di strumenti musicali in un orchestra,che anche la voce umana ha dovuto adeguarsi,il canto è solo uno giustamente,ma è limitato dire questo , in fin dei conti cos’è il canto? perche si canta?

    • Non ho mai negato che nella storia ci siano stati dei cambiamenti di carattere stilistico. Sul resto del tuo discorso, ti rispondo che non credo alla teoria evoluzionistica, e che l’aumento di statura non comporta un diverso funzionamento dell’organo vocale.

  6. Perfettamente d’accordo con Mancini, specialmente l’affermazione:
    “Per cui non è vero che la tecnica è unica e astorica. Nella storia ogni cantante di fatto ha adottato per sé accorgimenti tecnici personali, diversi da tutti gli altri. Ciò che è davvero unico e astorico è il canto in sé, ossia il risultato cui ogni tecnica dovrebbe tendere. Il fine da perseguire è la totale libertà, la naturalezza. I cantanti migliori, la cui arte è senza tempo, sono quelli come Schipa, in cui non si sente niente di artificioso, di costruito, di tecnicistico, in quanto ogni stadio tecnico in loro è superato. Aprono la bocca e cantano, stop”.
    Credo che il canto umano, da quando è nato, non ha mai preso una piega “tecnologico – artificiale” come nell’ultimo secolo. Come tutte le cose d’altronde, oggi più artificiale e falsate di qualsiasi altro periodo passato della storia umana.
    Questo non significa che non apprezzi “la tecnologia e l’artificiale nel canto”, ma constato inesorabilmente quello che sopra avevo scritto. N’abbraccio … (+.+)

  7. Curiosamente, Mancini si dimostra un seguace convintissimo delle teorie estetiche di Benedetto Croce. Non credevo che ne esistessero ancora. Per Croce l’arte in se stessa ha un’autonomia assoluta. Tutto ciò che la prepara e la rende possibile, la tecnica, il linguaggio, il contesto storico, ha un valore, certo; ma questo valore non ha nulla a che vedere con quella suprema intuizione che è il valore estetico. Quest’ultimo è uno, è lo stesso in qualunque caso; non si può dire quindi che il valore estetico di una quartina del Metastasio sia inferiore a quello della Divina Commedia. Ciò che rende arte ambedue le creazioni è lo stesso splendore, quello della poesia contrapposta alla non-poesia. Così sembra essere il canto per Mancini. Il canto è uno, nella perfezione del canto appare una luce che è la stessa nel trascorrere dei secoli; cambia solo ciò che lo prepara, il mezzo attraverso cui quella perfezione è raggiunta. Ma la perfezione è autonoma nei confronti di ciò che la rende possibile e, in quanto tale, risponde solo a se stessa.
    Marco Ninci

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