Quando predisponemmo il piano per le riflessioni sulle opere di Verdi non abbiamo avuto dubbi a pensare ad una doppia puntata su Forza del destino: una, già proposta e destinata alla versione di Milano 1869, ovvero quella che tutti conoscono, perché correntemente proposta nei teatri, e l’altra destinata, invece, alla prima rappresentazione di San Pietroburgo del 1862. Tradizionalmente si ritiene e si pubblicizza che Verdi abbia musicato ventisette titoli. Perfettamente falso perché da un esame attento del catalogo verdiano molto lavori e non il solo don Carlos, che diviene l’italiano don Carlo, sono profondamente differenti a seconda delle differenti versioni, alcune, come le versioni francesi di Trovatore, Traviata ed Otello dimenticate o liquidate banalmente come traduzioni dettate da contingenti esigenze teatrali.
Le differenze possono essere drammaturgiche, di scrittura vocal,e di modifica (nelle forme dell’aggiunta o dell’espunzione) di numeri musicali. Le modifiche di Forza del destino ed il passaggio non diretto dalla versione 1862 a quella 1869 investono vari aspetti del titolo.
Rinvio a studi più approfonditi e completi il dettaglio dei cambiamenti apportati da Verdi. Alcuni possono essere stati dettati dalla contingenza e dall’opportunità, alcuni invece, e su questi vale la pena di soffermarsi e proporre ascolti, da un preciso ripensamento credo egualmente ideologico che musicale sul titolo.
Tre le modifiche essenziali ovvero il preludio di San Pietroburgo che diviene la sinfonia, forse la più famosa verdiana, l’amplio rifacimento della parte di con Alvaro, che significa un ampio rifacimento del terzo atto ( quello drammaturgicamente più zoppicante) ed il finale, che non si risolve nella riduzione del numero dei morti in scena, ma in una differente rapporto con la fine della vita ed il destino, che governa l’exitus.
Possiamo dire che il preludio russo è concettualmente più moderno, che non la sinfonia milanese. Non per nulla dopo La Forza Verdi proverà ancora nel 1872 in occasione della prima milanese di Aida ad anteporre al dramma una sinfonia. Ma la sinfonia di Aida non verrà più riproposta se non come curiosità. Va detto, però, a difesa di Verdi e della scelta, che sarà definitiva, che la enunciazione dei principali temi di tutti i personaggi del drammone proprio al drammone, quale è Forza nell’immaginario popolare, ben si addice, enunciazione proporzionata alle dimensioni del dramma. Forse la brevità del preludio, in raffronto alla sinfonia, è già sintomo delle differenti proporzioni e soprattutto del maggior bruciante tasso di dramma che la prima versione presenta. Attenzione, non significa affatto che la prima Forza del destino sia più concisa della seconda, significa solo che nella prima il conflitto fra i personaggi sia enunciato e rappresentato in maniera più aspra e soprattutto che l’epilogo sia più teso e privo di una risposta (o tentativo di risposta) in chiave cristiana, la cui fonte la tradizione della storiografia verdiana ravvisa nell’incontro con il Manzoni, caduto fra la prima e la seconda versione del titolo.
Per altro l’epilogo tragico investe il personaggio che per una serie di motivi sarà quello oggetto della sostanziale differenza fra le due versioni: Don Alvaro. Ed in fondo è proprio questa la radicale differenza fra le due versioni.
Nella prima l’impeto, in ogni senso, la natura selvaggia e primitiva del “mulatto” (per utilizzare l’epiteto del cognato don Carlo de Vargas) ha la meglio sulla vita –un lustro circa- conventuale che il giovane ha scelto e che lo ha portato nel medesimo luogo sacro dove l’amante è romita. Alla fine l’uomo non regge, appunto, la forza del destino e, maledetti uomini e bestemmiato Iddio, si getta dalla rupe prossima allo speco. Sempre la storiografia dice che a Verdi tre morti sulla scena , anzi uno in quinta per la precisione pesassero troppo e fossero, scenicamente parlando un’esagerazione. Può anche essere vero, ma il finale di Aida non è molto differente (due in scena e Amonasro ammazzato) ma credo che per il primo don Alvaro quella della “ecumenica maledizione” fosse l’esito normale, E lo era perché il personaggio rappresentava psicologicamente e vocalmente il paradigma del tenore, atteso che primo interprete ne fu il “tenore” per eccellenza di quegli anni ossia Enrico Tamberlick. So che pochi amano, soprattutto riferita a Verdi l’immagine di un autore che riflette sui cantanti ed in funzioni dei cantanti scrive. Nell’immaginario popolare e pure nelle storture storiografiche queste prerogative erano di Rossini, mal sopportate da Donizetti e Bellini, respinte e censurate da Verdi. Poi si disaminano le varie edizioni e le riscritture dei titoli verdiani e si scoprono aspetti, che forse non a tutti garbano, come la parte di papà Germont, che scritta per Felice Varesi richiama il tenoreggiante Rigoletto e per la seconda versione viene ricondotta alla caratteristiche di cantanti meno dotati del primo interprete. Ed è solo un esempio.
Ebbene il terzo atto di Forza del destino terminava con aria e cabaletta del tenore comprensiva di do scritti, esattamente come il terzo atto di Trovatore terminava con aria e cabaletta del tenore, passo nel quale Tamberlick fu probabilmente l’autore dell’inserimento dei do, tanto censurati, ma che in una cabaletta con da capo sono le variazioni (commisurate alla scrittura ed al gusto del tempo) cui ogni interprete era tenuto. Piaccia o non piaccia. Qui ai do e ancor più ad una scrittura vocale impervia, da Tamberlick, provvide Verdi medesimo. E siccome sin dall’inizio fu ben conscio di aver scritto una parte per Tamberlick fra la prima versione e quella del 1869 provvide ad abbassare l’aria di un tono. Di Tamberlick, evidentemente, c’era anche allora uno solo. Ma al di là dell’aspetto folkloristico e di storia della vocalità i due principali rimaneggiamenti ossia quello del terzo atto che chiude con la “pira bis” ed il finale dell’opera ci di sono un paio di aspetto che meritano la riflessione. Partiamo da un fatto che non può – credo- essere contestato ovvero che Verdi scrisse pensando al grande protagonista di cui disponeva. Nel primo caso ossia nel terzo atto il gran finale a lui destinato portò ad un terzo atto che drammaturgicamente girava meglio perché Verdi a Milano sette anni dopo la prima dovette per far reggere la struttura drammatica spostare episodi, aggiungerne e dare largo sfogo a quel “colore” che non era mai stato il suo punto di forza. Nel secondo caso, invece, il finale ridotto ad un terzetto dove due personaggi, di cui uno morente, cantano la gloria di Dio ed il terzo (don Alvaro appunto) impara ad essere un vero credente, anche se indossa il sajo da un lustro, l’operazione di “liberazione da Tamberlick” riuscì bene perché -diciamocela tutta- la predica diabolica della prima versione sta in piedi solo se affidata alla retorica di un re dei tenori. Altrimenti, meglio rifare.
3 pensieri su “Verdi Edission. La Forza del destino, prima versione (San Pietroburgo 1862)”
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Giusto quanto scrive Donzelli. Si può aggiungere che le parti femminili furono anch’ esse rimaneggiate nella scrittura vocale, pensando alle diverse caratteristiche delle due Leonore, Caroline Barbot e Teresa Stolz, e delle due Preziosille, Constance Nantier Didiée e Ida Nagy Benza, che cantava anche parti di soprano. Infatti il ruolo di Preziosilla nella seconda versione è alzato sensibilmente di tessitura.
Posso chiedervi cosa pensate di Grigorian? Così, per curiosità. Voglio capire se ci sento bene. Grazie.
Vorrei aggiungere che la Forza del destino pietroburghese nell’insieme è una trasposizione molto fedele del dramma del Duque de Rivas, essendo il terzo atto dell’opera una concatenazione del terzo e quarto atti del dramma, e che in effetti il terz’atto pietroburghese ha in termini di logica musicale e scenica tutto quello che manca al suo rimaneggiamento milanese. Putroppo ha pure la scrittura impervia delle parti del baritono (anche qui siamo di fronte ad un abbassamento dell’aria, seppur di mezzo tono – ma che cambia completamente il colore timbrico e la logica tonale) e, specie, del tenore.
Il finale è l’ultimo di quelli “chiassosi” ed tragici “per dispetto a tutti” di cui disponiamo di varie prove negli anni quaranta e che, se ben ricordo, caratterizzano tutte le opere verdiane a partire dal “Rigoletto” negli anni(con forse l’unica eccezione dell'”Aroldo”, che non conosco), poi verranno solo i finali “in pianissimo” con l’eccezzione del rimaneggiato finale di “Don Carlos”.. Tratterassi dunque d’una svolta di paradigmi.