I Vespri siciliani, o come sarebbe più esatto Les vespres siciliennes, andati in scena il 13 giugno 1855 al Théatre de l’Academie Imperiale, rappresentano il primo completo approdo di Verdi a Parigi ed al genere del grand-opéra. Primo e completo approdo perché Jerusalem (1847) era stata il rifacimento in veste grand-opéra dei precedenti Lombardi. Non fu il solo approdo perche ci sarà nel 1867 la prima versione di Don Carlos, preceduta, però, dalla versione 1865 di Macbeth, quello che tradotto in Italiano e privato dei ballabili viene correntemente rappresentato nei nostri teatri. Insomma il numero di grand-opèra di Verdi è pari a quello del maestro indiscusso del genere Meyerbeer.
Il titolo, ad onta delle riserve della critica anche contemporanea fu un successo grandissimo, raggiunse in breve le cento rappresentazioni, anche se, poi, sopravvisse nella versione italiana. Non solo incontrò il favore di Hector Berlioz, il quale affermò: “Senza nulla togliere al merito del Trouvère e di tante altre commoventi partiture, bisogna ammettere che nei Véspres, l’intensità penetrante dell’espressione melodica, la varietà sontuosa, la sapiente sobrietà della strumentazione, l’ampiezza, la poetica sonorità dei pezzi d’insieme, il caldo colore che si scorge brillare ovunque e quella forza appassionata, ma tuttavia lenta a dispiegarsi che forma uno dei tratti caratteristici del genio di Verdi, danno all’intera opera un’impronta di grandezza, una specie di sovrana maestà più accentuata che nelle precedenti opere di questo autore”. Giudizio assolutamente condivisibile e della cui rilevanza non possiamo dubitare in quanto Berlioz riteneva il solo Berlioz grande compositore e strumentatore.
Deve essere chiaro che la disamina dei Vespri non può in questa sede amatoriale, (dilettantesca direbbero i nostri detrattori) che essere proposta per spunti di riflessione, che dedico a chi non conosca quest’opera quale spunto e stimolo ad avvicinare il titolo verdiano, che –confesso- con don Carlo costituisce il mio verdiano preferito. E questo ad onta del fatto che il titolo venga criticato per mancanza di coerenza ed unitarietà.
Riflessione prima. Già con riferimento al primo approdo parigini di Verdi nel 1847 avevamo rilevato come, sempre e costantemente, urgesse alla direzione dell’ Acadèmie reperire autori, che si peritassero nel monstrum del genere melodrammatico ancora in voga. Intorno al 1840 il problema era cogente perché ritiratosi Rossini, morto anzi tempo e senza che fosse arrivata la commessa, Bellini dapprima era stato arruolato Donizetti, che alle scena principe parigina aveva consegnato Favorite e, poi, il capolavoro del Dom Sebastien. Altro arruolato negli anni cinquanta fu Gounod, che non apportò la necessaria linfa vitale al genere musicale con Sapho (1851) e con la nonne sanglante (1854). Rimanevano, paradosso, le colonne del genere francesi o per nascita ovvero Auber ed Halevy o per adozione Meyerbeer. Erano, con il silente Rossini, i padri di questo particolarissimo genere melodrammatico, ormai a corto di invenzione musicale e di voglia di rinnovamento come comprovato dallo scarso successo delle loro produzioni tardive (Enfant prodige di Auber del 1850, Le juif errant di Halevy del 1852) . Basta pensare che lo stesso Meyerbeer si diede, nel 1854 con Etoile du Nord, al genere dell’opera comique. In fondo, senza voler ricostruire la storia dei questo genere musicale il grand-opèra era il prodotto musicale della Parigi della restaurazione e trascorsi trent’anni il genere, mutata situazione politica ed economica, mostrava le crepe.
Possiamo, forse, parlare di seconda generazione del grand-opèra. Quello di “prime generazione” prevedeva una serie di luoghi topici ossia lo sfondo di un grande avvenimento storico sul quale si innestava una vicenda d’amore, il colore locale dei luoghi dove aveva luogo il dramma, l’esigenza di un ballo in genere al terzo atto, la struttura piuttosto rigida dei numeri all’interno degli atti e la allocazione in determinati punto dell’opera di determinate situazioni drammatiche e, poi, lo schieramento vocale rigido, che prevedeva un tenore, normalmente quale amoroso, due soprani di cui uno “a roulade” con ruolo esornativo e l’altro con partecipazione alla vicenda, almeno due o tre voci gravi cui, in genere, erano riservati i ruoli storici e politici del dramma messo in scena. Già intorno al 1840 i luoghi topici sembravano perduti o ridimensionati. Basta esaminare Favorite e considerare che, post 1840, molto spesso ( ed anche per non irrilevante problema del costo degli allestimenti del grand- operà) i titoli venissero rappresentati con ampi tagli e riduzioni. Cito il più famoso: il taglio del primo quadro del quinto atto degli Ugonotti con la festa in onore di Enrico IV, dove Raoul irrompe per cercare di salvere i correligionari.
E con questi presupposti arriviamo alla seconda riflessione, ovvero la vicenda del libretto dei Vespri. Molta leggenda è corso su questo libretto, ovvero sul rapporto Verdi-Scribe, con la necessaria premessa che dei due il divo a Parigi era Scribe, anche se nel 1853 arrivato alla fase finale della carriera. Alla leggenda o almeno al fraintendimento, come sovente accade contribuì Verdi medesimo che nel 1882, in occasione della rappresentazione del postumo Duca d’Alba scrisse al senatore Giuseppe Paroli: “io non ho mai saputo che Scribe si fosse servito del Duca d’Alba per fare i Vespri siciliani. E’ però vero che Vasselli, il cognato di Donizetti, me ne parlò en passant quando fui a Roma nel 1859 per Ballo in maschera, ma non ci badai, e credetti fosse un dubbio, un’idea di Vasselli. Ora capisco, e credo veramente, che i Vespri son tratti dal Duca d’Alba”
Meraviglia questa lettera di Verdi, dal sapore di una autodifesa di cattiva qualità, perché Scribe medesimo nel 1853 ebbe a scrivere ( lettera anch’essa riportata da Budden in “Le opere di Verdi”, vol II pag.____) che, complice la limitata disponibilità di tempo aveva proposto a Verdi “la resurrezione del defunto” ovvero del Duca d’Alba. Testo pensato per Halevy, che venne poi girato a Donizetti, che mai portò a termine la composizione, che solo nel 1882, postuma, e con gli interventi di Matteo Salvi venne rappresentata a Roma.
La disamina del libretto rivela drammaturgicamente parlando l’assoluta uguaglianza di situazioni ed anche testuale del primo e del secondo atto. Il terzo atto con l’agnizione fra Marcello e il duca e una scena di carcere ripropone quello che saranno il primo quadro del terzo atto ed il quarto atto dei Vespri . Differente il quarto, salvo che nella chiusura dell’opera con l’incipit della rivolta propiziata dal gesto omicida di Amelia d’Egmont.
Una cosa appare evidente l’impianto drammaturgico del Duca d’Alba è quanto di più ortodosso rispetto al modello drammaturgico del grand-operà possa esserci e tale rimase anche quando, su richiesta di Verdi, Scribe (ed il collaboratore “schiavo” di turno Charles Duveyrier) vi rimise mano e, trasportata l’azione dalle rive della Schelda del secolo XVI alle pendici del Monte Pellegrino del 1282 , implementò la presenza della storia. Non solo per il trasferimento dell’azione,che mette in scena un episodio della storia italiana, molto caro alla cultura risorgimentale, ma per l’introduzione del personaggio storico di Giovanni da Procida (1210-1298) in sostituzione di Daniel, mastro birraio e cospiratore antispagnolo, che nel retrobottega cospira contro il potere imperiale, rappresentato dal duca d’Alba.
Che le difese e l’interessato stupore di Verdi siano assolutamente fuori luogo è la stessa storia del melodramma a dirlo con i medesimi libretti ed argomenti musicati più volte. E non mi riferisco al Settecento con le cento opere tratte dal medesimo libretto di Metastasio, ma alla Giovanna d’Arco, musicata prima di Verdi da Vaccaj e Pacini o del don Carlos, musicato quale grand-operà da Michele Costa nel 1844.
Insomma Verdi accettò di buon grado un libretto il cui impianto era ben più tradizionale di quello di lavori precedenti i Vespri quali Favorita, Don Sebastiano ed anche la già in gestazione Africana.
E così approdiamo al terzo spunto di riflessione ossia il rapporto fra Verdi e la tradizione del grand-operà. Anticipo le conclusioni ovvero che Verdi nelle rigide convenzioni del genere musicale francese si trovò benissimo, non tentò esperimenti e produsse nella tradizione un titolo esemplare per novità nella tradizione . E la prova è che Verdi, salvo l’inserimento nel 1863 di un’aria al quarto atto per Villaret in luogo dell’originario “giorno di pianto”, nulla tolse e nulla aggiunse al lavoro, così come rappresentato il 13 giugno 1855. E senza avere l’autocoscienza di un Rossini era comunque un buon conoscitore di sé stesso, come insegna il rifacimento di Simone Boccanegra.
Anche in questa riflessione nessuna presunzione di esaustività. In nessun titolo precedente i Vespri dove l’ambiente ed il colore ha un proprio peso (Ernani con la Spagna, le nozze piuttosto che la Venezia dei Foscari) avevano inspirato Verdi in modo particolare, né stimolato accurate ricerche. Per contro affrontando un grand-operà ed in particolare un titolo di ambientazione mediterranea Verdi si scontrava con il precedente –famosissimo ed amato dal pubblico parigino- di Muette. Ed allora si giustifica la lunga e dettagliata corrispondenza Verdi – de Sanctis per conoscere le usanze delle grandi feste religiose del mezzogiorno d’Italia, i tempi di danza in uso e decidere di dare l’idea del colore locale mediante la tarantella danzata dai giovani in onore di Santa Rosalia piuttosto che l’utilizzo delle nacchere al coro, che introduce il quinto atto e la festa nuziale. Tutte scelte che non sono di tradizione siciliana, ma che erano più allora di oggi, connotanti l’idea del mondo mediterraneo.
Musicando un libretto di impostazione tradizionale Verdi accettò che i tre atti centrali fossero costituiti da aria, duetto e finale come accadeva nel secondo atto di Roberto il diavolo, nel secondo e nel terzo di Ugonotti, piuttosto che l’ubicazione al quarto atto del grande duetto d’amore.
Accettata di fatto la tradizione Verdi poi la rivisitò a proprio modo perché i duetti Arrigo-Elena al secondo atto piuttosto che quelli Arrigo-Monforte non hanno la struttura tradizionale dei duetti non solo verdiani, ma anche del grand-operà quali ad esempio Isabella-Roberto, piuttosto che Eleazaro-Brogni. Il primo incontro Arrigo-Elena termina senza la cabaletta tradizionale, ma con una “semplice” cadenza ( si fa per dire semplice se eseguita integralmente), dopo che i personaggi hanno cantato lui l’amore per lei e lei, invece, rimpianto e memoria per il fratello, ingombrante e muta presenza per tutto il melodramma. Né le cose sono differenti al duetto del quarto atto del carcere, che, addirittura, contiene un assolo per Elena (il famoso “Arrigo ah parli a un core”), spesso eseguito quale aria autonoma e dove alla sezione conclusiva i due innamorati canteranno all’unisono perché accomunati dallo stesso sentimento.
Ancora più evidente l’asimmetria, perchè ancor più radicale la contrapposizione di sentimenti dei personaggi il duetto Arrigo – Monforte al terzo atto. Eppure non è nella tradizione del grand-operà il primo duetto che contrappone due uomini, bastando ricordare ancora lo scontro prima subdolo e poi aperto fra Eleazaro e Brogni, che – ripeto- si esprimono secondo schemi tradizionali.
Sempre nell’ambito di un ampliamento delle struttura tradizionali altri episodi dei Vespri sono significativi. Mi riferisco alla entrata di Elena (quella che nel melodramma italiano ed anche per certi personaggi all’italiana del grand-opera come Isabella del Robert le diable e la Valois degli Ugonotti è la cavatina di sortita) è quanto di più distante dallo schema a cabaletta dei precedenti titoli verdiani, che principia con il recitativo “in alto mare battuto dai venti” si trasforma nel cantabile “deh placa o Dio possente”, ritorna al recitativo “mortali in vostra man” quale conducimento alla cabaletta”Coraggio su coraggio”, che è la cabaletta, ma in realtà costituisce l’incipit dell’insurrezione.. Insurrezione che non solo era presente nel duca d’Alba, ma che già nel Profeta, con il sinistro ingresso degli Anabattisti, era stata portata sulla scena dell’Academie.
Anche il quinto atto quello in cui, per paradigma del genere grand-opèra, il dramma ha compimento pose a Verdi rilevanti problemi perché lo scioglimento era sotto il profilo drammatico era cosa da pochi istanti, come aveva preannunciato Procida alla chiusa del quarto atto. Il quinto atto era, nella tradizione francese, una sorta di epilogo dove i principali personaggi risolvevano i rapporti personali prima del tragico epilogo, come ben evidenziato in Ugonotti, Profeta ed Ebrea. Questa peculiarità imponeva il ricorso ad un’aria solistica prima del finale, in genere un duetto o un terzetto. Solo che nei Vespri i protagonisti i loro “conti personali” li hanno già chiusi al quarto atto, lasciato in campo solo il contrasto interno di Elena fra amor per Arrigo ed amore per il defunto fratello e la sete di vendetta di Procida, poco per consentire una grande aria alla maniera di quella di Raoul o, più ancora di Fides del Profeta. Verdi, però, non solo aderisce allo schema del grand-opera, ma lo amplifica: al bolero di Elena famosissimo omaggio, di vago sapore punitivo alla presunzione di Sofia Cruvelli, prima protagonista, di essere la nuova Malibran (e che è una insopportabile croce per cantanti mediocri, come dimostrato negli ultimi Vespri scaligeri) segue l’aria, in tempo di siciliana di Arrigo “la brezza aleggia”, che si amplia nel terzo duetto (meglio duettino) fra gli innamorati per poi chiudersi con una ascesa al re 5 in falsettone, che certifica la parte di Arrigo, come la più improba del tenorismo verdiano (anch’essa fonte di guai in quel di Milano). Solo che Verdi a differenza di Meyerbeer, forse complice la situazione drammatica ormai esauritasi non utilizza i due brani solistici in funzione drammatica come aveva fatto Meyerbeer, ma in funzione assolutamente esornativa (come accadeva con i soprani a roulades o con i personaggi en travesti) con due conseguenze quella di rendere omaggio ( e che omaggio !) ad un genere e ad un gusto che non era più in auge nell’opera italiana e di dare, poi, ai sentimenti del finale il terzetto Arrigo-Elena-Procida uno slancio ed uno sfogo difficili sulla carta.
Per altro ed è la riflessione conclusiva i personaggi del grand-operà attingevano, ancora molto al passato sotto il profilo psicologico in quanto più che personaggi stereotipi di personaggi, legati ancora al mondo ed alla poetica rossiniana e della tragedie lyrique, che cantavano non i propri sentimenti, ma l’idea dei sentimenti. L’eroica morte di Raoul, Valentine e Marcel, l’amore dei primi due e la fede di Marcel sono l’idea dell’amore, l’idea della fede e della eroica morte per la fede. Mai da questa idea ancora antica ci si era distaccati nel grand-opera sino al finale del quarto atto di Profeta, quando in scena è il dramma interiore ed inesprimibile quasi di una madre rinnegata dal figlio, vittima del settarismo religioso. Pare che Profeta e, particolarmente questa scena, nonostante la scarsa stima di Verdi per Meyerbeer, avesse profondamente colpito Verdi. Alle prese con il finale quarto, per convenzione il grande finale di atto nel grand- opèra, Verdi pagò il tributo alla tradizione con l’adesione totale alla struttura, rese, inoltre, con il coro interno di morte omaggio al finale degli Ugonotti e, poi, ricominciò a ragionare da operista italiano romantico con il canto di amor patrio di Elena, ormai “in altra sfera”, la disperazione di Arrigo ( oltre tutto alle prese con una scrittura vocale difficilissima), macerato fra amor filiale ed amore per Elena, la celebrazione della vendetta quasi sacra di Procida e il dolore del tiranno che è tale, ma che è anche padre. Insomma mise in musica ed in scena quanto di più italiano, romantico e verdiano potesse essere trapiantato e vestito “alla moda” di Parigi. Ecco il fascino –unico- dei Vespri, il motivo per ascoltarli e per convincersi che siamo davanti ad un capolavoro.
Gli ascolti
Giuseppe Verdi
I Vespri siciliani
Ouverture – Orchestra del Teatro Comunale di Firenze, dir. Erich Kleiber (1951)
Atto I
Al ciel natio…In alto mare e battuto dai venti –Bruno Carmassi, Mario Frosini, Gino Sarri, Aldo De Paolo, Lido Bettini, Mafalda Masini, Maria Callas, dir. Erich Kleiber (1951)
D’ira fremo all’aspetto tremendo – Maria Callas, Gino Sarri, Mafalda Masini, Enrico Mascherini, Giorgio Kokolios Bardi, dir. Erich Kleiber (1951)
Qual è il tuo nome? – Nicolai Gedda & Cornell MacNeil, dir. James Levine (1974), Veriano Luchetti & Renato Bruson, dir. Riccardo Muti (1978)
Atto II
O patria, o cara patria…O tu Palermo – Bonaldo Giaiotti, dir. Thomas Schippers (1970), Ruggero Raimondi, dir. Riccardo Muti (1978)
Miei fidi amici…Quale, o prode, al tuo coraggio – Paolo Washington, Leyla Gencer, Gianni Raimondi, dir. Gianandrea Gavazzeni (1970)
Cavalier, questo foglio…Il rossor mi coprì – Robert Goodloe, Nicolai Gedda, Montserrat Caballé, Justino Diaz, Andrij Dobriansky, Nico Castel, Cynthia Munzer, Douglas Ahlstedt, Paul Franke, dir. James Levine (1974)
Atto III
Sì, m’aborriva – Giuseppe Taddei, dir. Tullio Serafin (1957)
In braccio alle dovizie – Carlo Tagliabue, dir. Mario Rossi (1955), Giuseppe Taddei, dir. Tullio Serafin (1957)
Sogno, o son desto – Mario Filippeschi & Giuseppe Taddei, dir. Tullio Serafin (1957)
Quando per te parlava – Mario Filippeschi & Giuseppe Taddei, dir. Tullio Serafin (1957)
Lo spettro di mia madre – Mario Filippeschi & Giuseppe Taddei, dir. Tullio Serafin (1957)
Balletti – Orchestra del Teatro Comunale di Firenze, dir. Riccardo Muti (1978)
O splendide feste – Coro del Teatro Massimo di Palermo, dir. Tullio Serafin (1957)
Di tal piacer per te novelli – Giuseppe Taddei, Mario Filippeschi, Bernard Ladysz dir. Tullio Serafin (1957)
Colpo orrendo, inaspettato – Antonietta Stella, Mario Filippeschi, Bernard Ladysz, Giuseppe Taddei, Sergio Tedesco, dir. Tullio Serafin (1957)
Atto IV
E’ di Monforte il cenno – Mario Filippeschi, dir. Tullio Serafin (1957)
Giorno di pianto – Mario Filippeschi, dir. Tullio Serafin (1957), Gianni Raimondi, dir. Gianandrea Gavazzeni (1970)
O sdegni miei tacete…Arrigo, ah, parli a un core…E’ dolce raggio – Anita Cerquetti & Mario Ortica, dir. Mario Rossi (1955), Leyla Gencer, dir. Gianandrea Gavazzeni (1970), Renata Scotto & Veriano Luchetti, dir. Riccardo Muti (1978)
Amica man…Addio, mia patria…O mia sopresa! O giubilo – Boris Christoff, Anita Cerquetti, Mario Ortica, Mario Zorgniotti, Carlo Tagliabue, dir. Mario Rossi (1955), Bonaldo Giaiotti, Martina Arroyo, Gianfranco Cecchele, Giovanni Antoini, Sherrill Milnes, dir. Thomas Schippers (1970)
Atto V
Si celebri alfine – Coro del Teatro Metropolitan di New York, dir. James Levine (1974)
Mercé, dilette amiche – Anita Cerquetti, dir. Mario Rossi (1955), Christine Deutekom, dir. James Levine (1974)
La brezza aleggia intorno – Nicolai Gedda & Montserrat Caballé, dir. James Levine (1974)
Al tuo cor generoso…Ecco, per l’aura spiegasi – Boris Christoff, Maria Callas, Giorgio Kokolios Bardi, Enzo Mascherini, dir. Erich Kleiber (1951), Justino Diaz, Montserrat Caballé, Nicolai Gedda, Sherrill Milnes, dir. James Levine (1974)