Ciro in Babilonia, mai rappresentato prima a Pesaro, ha inaugurato ieri sera la trentatreesima edizione del ROF. Ciro, a differenza di molti altri titoli rossiniani, non ha conosciuto riprese e circolazione in epoca di Rossini renaissance ed anche nell’800, le rappresentazioni furono limitate all’Italia. Credo che il fatto debba essere ricercato in Rossini stesso che li giudicava lavori preparatori al proprio e più alto periodo, quello napoletano, ed alla Semiramide. Abbiamo già detto che della “prima covata” di titoli tragici rossininiani il solo che circolò per l’Europa fu Tancredi, ma per merito di Madama Pasta e della sua personale versione dove di Rossini non ne restava molto.
Eppure questo Rossini di vent’anni, debuttante nel genere serio, contiene nelle forme e nell’inventiva melodica quello che sarà di la a poco il grande Rossini. Sotto questo profilo Adelaide è di gran lunga inferiore. Mi limito a segnalare il duetto Amira-Ciro al secondo atto che si trasforma in terzetto Ciro-Amira-Baldassarre, ma che nel 1815 diverrà il duetto Elisabetta-Matilde ed il seguente terzetto con Leicester di Elisabetta, ossia del primo titolo napoletano rossiniano. Considero i due momenti solistici di Ciro, non semplici arie, ma già “scene con coro” ovvero la struttura più complessa, che da Ciro sino Semiramide verrà riservata al contralto o, talora ad Isabella Colbran. Certo dobbiamo anche tenere conto che di questa struttura musicale l’origine è precedente Rossini, come esemplificato dalla “gran scena del sotterraneo” di Curiazio cimarosiano. A Cimarosa come impianto musicale, Rossini è tributario anche nella scena di pazzia di Baldassarre, che, però stranamente preannuncia l’analoga scena –la pazzia di Assur- , che sarà l’addio di Rossini al melodramma serio italiano e il finale dell’opera.
Se aggiungiamo l’aria concertante di sapore mozartiano ed i cori che ci ricordano come l’adolescente Rossini divorasse i testi musicali appena acquisiti dalla biblioteca del conservatorio di Bologna concludiamo che la parte più ardua nel proporre Ciro spetti al direttore e si vorrebbe, soprattutto concertatore. Ma di questi tempi e non solo con Crutchfield, ma anche con il direttore della passata Adelaide, l’impresa è divenuta impossibile. Pare che la foia del rifiuto di qualunque richiamo all’800, il desiderio di separare Rossini dai musicisti successivi (che ritenevano il pesarese il PADRE), l’idea che si sia dinnanzi ad un uomo della Restaurazione, ossia dell’ultima stagione del neoclassicismo e chi più ne ha , più ne metta imponga colori, pesi orchestrali da farsetta, esecuzione meccanica e metronomica degli andanti, bando a qualunque slancio orchestrale. Cito un solo esempio, ma tale nel vero senso del termine, ovvero l’esecuzione del coro “intorno fumino”, che comparirà al finale primo del Tancredi e che per il testo e la situazione scenica (il banchetto) dovrebbe evocare lussuria e seduzione e che invece si risolve in un acido suono orchestrale e meccanico batter di solfa. Ne le cose vanno meglio con la successiva scena di follia, ovvero con la situazione più ottocentesca e romantica dell’opera.
L’essere studioso di storia dell’interpretazione vocale e competente filologo, l’accettare e, credo, scrivere di propria mano varianti e diminuzioni per le parti (anche se ci sarebbe qualcosa da dire in punto) non significa essere un direttore e più ancora un concertatore. Titoli come il Ciro non stanno in piedi solo in forza di un corretto accompagnamento al canto e di sapienti interventi sul testo, impongono una libertà ed una varietà di tempi, un continuo allargare e stringere all’interno della medesima frase che ieri sera mancavano, come mancavano colori orchestrali appropriati alla situazione scenica, soprattutto nelle introduzioni orchestrali.
In difetto no aiutiamo questo primo lavoro tragico rossiniano a non essere considerato inferiore al Tancredi.
Quanto al cast. Non nascondo lo stupore destato l’anno passato quando si seppe che Ewa Podles sarebbe stata la protagonista del Ciro. Ewa Podles, una delle reiette del festival che le preferì, Scalchi, la Prudenskaja, sino alla Ganassi ed alla Barcellona, la cui presenza al Rof, per numero di titoli e riprese, supera quella di Horne, Valentini e Dupuy, messe insieme. Ewa Podles passa i sessant’anni. Ad un certo punto della carriera il mezzo acuto (vedasi una Rosina 1984 dal festival di Aix) si è trasformata in un contralto dai gravi sonori e maschili, dal centro tubato e presto affetto dal cosiddetto “scalino” e dagli acuti strano, ma vero sempre facili addirittura sino al do5 perché quella era la zona facile in natura della cantante e dalla vocalizzazione veloce piuttosto facile e fluida, oltre che sempre molto accentata e scandita. Con questo imposto vocale i personaggi en travesti rossiniani sono sempre stati eroici e guerrieri. Pare che lo stesso accadesse con Rosmunda Benedetta Pisaroni, che praticava questa accentuata emissione di petto al centro con ovvie conseguente prima interpretative e poi di durata della voce.
Se aggiungiamo un repertorio estraneo al bel canto e il trascorrere del tempo lo stupore per la scelta ed il sospetto che la stessa fosse il coraggio della disperazione, altre volte esibito dal ROF, magari incentivato dalla misera prova della Barcellona l’anno passato quale Ottone di Adelaide erano giustificati, se non scontati. Come scontate le perplessità sull’effettiva resa della cantante polacca, tenuto anche conto che il ruolo, scritto per la Marcolini, insiste nella zona centrale della voce da sempre la meno facile della cantante ed è lungo ed oneroso. Professionista solidissima ed amata dal pubblico per una carriera costruita con le sole proprie forze al di fuori di ogni imposizione delle major e di potentati la Podles alla resa è stata ben superiore alle aspettative e previsioni.
Ha, quindi, esibito appena il testo lo prevedeva o gli inserimenti lo consentivano il proprio sonoro e poderoso registro grave, ha faticato moltissimo a legare in zona centrale, ossia nell’andante del duetto con Amira “Di questo sen fra palpiti” e nelle sezioni centrali delle arie solistiche (marcatamente “T’abbraccio ti stringo” e E lieto e contento” dove ha evidenziato anche problemi di intonazione) dove l’interprete è risultata piuttosto enfatica, anziché elegiaca ed accorata, come parte e poetica del travesti rossiniano richiedono. Aggiungo che ha eseguito con proprietà i recitativi anche se i problemi e limiti vocali hanno determinato un’articolazione poco naturale e spontanea.
Ma una cosa è certa con pesanti limiti vocali e conseguenti obbligate scelte interpretative il contralto polacco ha reso l’idea del canto, dell’accento e dell’interpretazioni rossiniane, quand’anche con enfasi ed eccessi post rossiniani. Quelli che oggi si aborrono, ma che destano l’applaudo del pubblico.
Il meglio fra i soprani assoluti d’agilità Jessica Pratt, che abbigliata da diva del muto, imponente nell’aspetto fisico come le star del melodramma del primo novecento ha sciorinato nella prima parte, che Rossini scritte per l’amica e coetanea Elisabetta Manfredini (l’altro prototipo di soprano rossiniano insieme alla Colbran) agilità facili e fluide, grande estensione in alto ( e si sa da tempo) ed anche in basso (dove, credo, la cantante si sia divertita a riproporre certi suoni di petto, che le registrazioni oggetto di studio da parte del direttore documentano), legato in ogni zona della voce, accento: scandito e perentorio nei recitativi e nello scontro con Baldassarre, patetico e sognante nel duetto d’amore e nelle arie (applaudita quella con strumento obbligato) , ed ogni sorta di formula melismatica ( terzine, quartine, trilli ed anche staccati e picchettati che nella vocalità rossiniana sono riservati quasi alla sola Manfredini)
Altro cantante di nuova generazione e debuttante a Pesaro Michael Spyres nella baritonale scrittura di Baldassarre. Dubito che sia un vero tenore baritonale di quelli in grado di eseguire le parti di Nozzari o il Bravo di Mercandante , Pollione di Norma o don Pedro della donizettiana Padilla, perché il centro manca di quella ampiezza e di quella cavata, che sono le caratteristiche di questo tipo vocale. Tale carenza discende non solo da limiti naturale ( in natura Spyres è un tenore lirico di bel timbro), ma da limiti tecnici che si appalesano nella gamma acuta che suona talora al limite del falsetto, ma , ad un attento ascolto già presenti al centro dove compaiono suoni ingolati ed anche nasali, che dell’immascheramento corretto è un succedaneo. Questo si ripercuote sull’accento e sui colori – pochi- e sulla dinamica –limitata- e sulla vocalizzazione che è facile, ma non fluida e fosforescente come quella autenticamente rosssiniana e praticata solo da altri tenori made in USA.
Come tutte le opere giovanili di Rossini Ciro presenta numerosi comprimari tutti beneficiati di arie ( servivano per dare respiro alle prime parti e consentire il cambio di scene, perché queste arie in genere venivano eseguite al proscenio e davanti ad un fondale). Spettrale e non scenicamente il Daniele (Daniello per esigenze metriche) di Raffaele Costantini, modelli di voce ingolata Mirko Palazzi quale Zambri e Robert McPherson quale Arbace. Una chiosa per l’Argene di Carmen Romeu: canta un’aria su una sola nota, il si centrale, scelta determinata, stando a Rossini stesso, dal fatto che la seconda donna della prima avesse decente solo quella nota. Da un filologo mi sarei atteso un accompagnamento orchestrale, che vivificasse la omofonia vocale e soprattutto la ricerca nella voce della scritturata Argene dell’unica nota buona, provvedendo all’opportuno trasporto.
DD
Molto bello l’allestimento di Davide Livermore, che prende spunto dalla non-trama del Ciro in Babilonia per rendere omaggio al cinema muto dei primi anni del secolo XX (sulla scena – illuminata in bianco e nero – vengono proiettati fondali e scene tratte dai kolossal del primo ‘900): il coro che durante la sinfonia rappresenta il pubblico dell’epoca si ritroverà ad interagire con i divi del muto e i loro gesti caricatissimi. Una bella idea ottimamente realizzata, con molto gusto e senza inutili e stupide provocazioni (quelle sono appannaggio dei “geni” che van di moda oggi). Splendidi i costumi (rigorosamente in bianco e nero) e ricchissimi nel loro fascino vintage, a mezza via tra belle époque con le sue dive decadenti e l’architettura assiro-milanese della Stazione Centrale.
Gilbert L. Duprez
Che dabbenaggine: solo perchè Rossini, forse in un momento di noia o di ipercriticismo (non lo sapremo mai…) l’ha definita un “fiasco”, quest’opera non è stata presa in considerazione! Forse esagero, ma per me l’opera è stata M A G N I F I C A ! In fondo Rossini era un genio, e quello che si fa a 20 anni quando si è un genio rischia di essere un capolavoro (vogliamo vedere nel Köchelverzeichnis cosa c’è fino al 1776?). In questo caso non parliamo di capolavoro, ma sicuramente di un’opera d’arte oltremodo meritoria e bella, davvero bella. L’unica delusione almeno per me è stata proprio l’aria di Argene, ma sappiamo perchè alla fine “si è costretto” a scriverla in quel modo.
Per quanto riguarda la recensione, la sottoscrivo in pieno e non ho nulla da aggiungere se non impressioni: alla Podles va l’onore delle armi, ha lottato e ha portato a casa, con momenti anche pregevoli, ma nel complesso il suo timbro giocoforza senescente non mi ha coinvolto più di tanto. Che dire di Spyres, in radio il suono arrivava saldo e corposo, in tv meno, vorrei sapere in teatro… In effetti sulla sua aria e in genere sugli acuti è stato in difficoltà, ma almeno qualcosa si è sentito. La Pratt è stata brava, è chiaro che da lei almeno io mi aspetterei il “bravissima”, che non c’è stato, però siamo sempre al solito discorso: chi farebbe meglio? Oltre al fatto che è una delle poche che in questo tipo di repertorio sbaglia poco e ti piazza sempre delle punte di eccellenza.
Ma passiamo alle “dolenti note”… Chi era il gelataio di turno? Lo so che non era vestito in bianco, come di solito d’estate, ma il direttore è stato tristissimo… No, dico, hai tra le mani qualcosa di “nuovo”, che la gente non può sentire su youtube, ma perchè invece di nasconderti impaurito dietro una maniera insignficante, il metronomo della tristezza, non cerchi di dare dei colori, una lettura, un significato? Per quanto riguarda l’allestimento e la regia, a me sono piaciuti. Certo, la forzatura della commistione tra spettatori del cinema muto e personaggi forse se la potevano risparmiare, perchè ha reso un po’ incomprensibile un allestimento che per il resto è stato tutto sommato garbato e azzeccato. Il regista e gli avventori che cantano insieme ai babilonesi, e anche l’abbraccio finale della mamma con il bambino che ritorna da Babilonia sono stati dei semplici non-sense un po’ stupidotti, soprattutto perchè non ce ne era davvero bisogno… Anche perchè almeno questo spettacolo aveva una cosa che tantissimi altri non hanno: un’estetica plausibile e gradevole. Forse perchè l’ispirazione non proveniva dalla tv trash dei reality, ma da un cinema di un certo livello (ripreso negli ultimi tempi anche dal film “The Artist”). Che fosse questa una chiave per produrre degli spettacoli belli e non insulsi, ispirarsi alla bellezza del cinema e non alla bruttezza della televisione?
Mi spiace frustrare le altrui isterie rossiniane, ma tra quel che c’è nel Köchelverzeichnis, sino al 1776, si contano capolavori assoluti: dalla Finta Giardiniera ai 5 concerti per violino e orchestra, Mitridate, Lucio Silla, Ascanio in Alba, La Betulia liberata, Re Pastore, Il sogno di Scipione, La finta semplice, Bastiano e Bastiana, 13 quartetti per archi, musica sacra assortita (compreso l’Exultate jubilate), oltre a 30 sinfonie, tra cui le splendide KV 183 e KV 201… Ora capisco (fino a un certo punto) il fanatismo di chi ritiene che Rossini sia il nec plus ultra, ma mistificare la realtà è un po’ troppo… Che il Ciro non sia una schifezza è pur vero (lo trovo al medesimo livello di Tancredi o di Aureliano), ma che diventi un capolavoro degno di stare a fianco della sinfonia n.29 di Mozart (o della n. 25) mi sembra più che altro il desiderio del fan…
Caro Duprez, ma rileggendo il mio post davvero non ritrovo un paragone tra il Ciro e il KV… Ci tengo a dirlo perché nella mia personale Trinità il ruolo del Padre è sempre stato di Mozart, quello del Figlio di Rossini (giusto per completezza, lo Spirito Santo è Donizetti e via via a scendere nelle schiere angeliche…)! Come prova – e gli amici della chat lo sanno bene perché si sono sorbiti nelle scorse sere la mia contrizione… – adduco il fatto di aver scelto come regalo estivo di quest’anno invece che il Rof “Il re pastore” e il “Flauto Magico” a Salisburgo… nonostante avessi dei forti dubbi – tutti confermati, per la verità -, ma proprio per il bisogno “fisico” di sentire Mozart dal vivo. Anche perché in questo modo si va irrimediabilmente a finire nel campo dei paragoni improponibili, di un “chi è meglio di chi” che di fronte a personaggi di questo livello semplicemente non regge… È chiaro che scrivere in un blog quelle che sono osservazioni che nascono di getto, a mo’ di conversazione, può far travisare le intenzioni dello scrivente. In tal caso nel mio post in realtà io volevo solo evidenziare la magnifica sorpresa del Ciro, opera che, ripeto, non è un capolavoro, ma che secondo me è davvero meritoria e non andava messa nel dimenticatoio, e il riferimento al KV era puramente retorico: se il problema è che l’opera è stata scritta a 20 anni (e per questo forse marginalizzata…), andatevi a vedere cosa è stato capace di fare un altro genio a quell’età! Era questo il senso del mio discorso. Quindi “isteria” come termine io non lo avrei usato, non perché poco gradevole ma perché poco elegante (il che è peggio…). Avrei usato più che altro “entusiasmo”!
Certo, dopo la mia “confessione” salisburghese (a mia discolpa dico che almeno la Bohéme l’ho vista solo in tv…), mi aspetto di essere tacciata di masochismo… Beh, in tal caso le anticipo che ha perfettamente ragione!
Ho assistito allo spettacolo in TV, su rai5, e trovo i vostri commenti piu’che appropriati, a me sembra che questo spettacolo si situi sul versante opposto alla Bohème salisburghese: ovvero ha coerenza drammaturgica. Qualche particolare da ” meno esperto”: a volte i difetti della Podles sembravano funzionali alla caratterizzazione del personaggio, come nella scena della prigione, la voce di Spyres , almeno con il suono di rai5 , a volte esibiva in timbro sgedevole,ma bisogna sentirlo dal vivo per giudicare, invece un lettore della chat ha segnalato, nel primo atto, una “stecca” della Pratt , io confesso di non averla percepita ( orecchio-il mio-non allenato o errore del lettote ?)Infine , da medico, la Podlessmi sembra abbia problemi alle anche, ma, di nuovo “ci stavano” con al caratterizzazione di Ciro
una cosa è certa, che la Pratt è la numero uno nel suo repertorio. Ogni volta che canta il pubblico che dalle altre tollera ogni genere di difetto, e di alcune pure le nefandezze, trova che debba migliorare, che possa fare sempre di più, mentre sulle altre non ha mai nulla da dire ed ingoia supino. E’ un bene o un male oggi saper cantare come diocomanda?
Donna Giulia, che diamine! Averne cento come la Signora Pratt oggi come oggi e – aggiungerei – pure come il Signor Spyres. Suvvia, con le dovute differenze questa rappresentazione l’avessero fatta a Salisburgo se non altro il livello del belcanto sarebbe stato immensamente più alto.
A me Spyres è piaciuto esattamente come la Pratt…cioè+, che si pretende da un tenore rossiniano???
che giri gli acuti, ad esempio. A me piace molto spyres perchè lo trovo musicale, con idee ed un certo gusto. E vorrei che smettesse di vantarsi di essere un autodidatta e di pensare di potersi sottrarre ad una disciplina tecnica perchè senza quella non potrà mai convincere. In scala quel modo di cantare gli è costato caro nella donna….la voce no si sentiva. Ha una bella voce che è troppo gonfia sotto e sopra si stringe troppo, manca di incisività e ele agilità non sono di forza. A furia di giocare al baritenore in quel modo ne pagherà presto conseguenze. Per questo si fa la digressione se stia cantando o meno nel suo registro……
Verissimo, donna Giulia, e l’intervista di Di Stasio, riportata sul foyer da Misterpapagheno dimostra quanto Lei asserisce.
Detto molto prosaicamente: a me la Podles piace una cifra!!!! 😀
E sono curiosissimo di ascoltarla il 22, visto che non ho seguito lo spettacolo ieri sera se non gli ultimi 20 minuti in tv!!!!
Un saluto a tutti!
ieri sera vederla entrare li….finalmente, dopo tanto tempo, mi ha emoziomato. Ingiusta tanta indifferenza per tanto tempo. Può piacere o non piacere sempre, in certe cose o in altre, ma è una professionista di grande valore che ha sempre onorato il pubblico. Chapeu alla sign Ewa !
Concordo con chi giudica l’ opera degna di interesse. Non giudico fino in fondo l’ esecuzione perchè il suono della ripresa radiofonica era addirittura peggiore dell’ infimo standard qualitativo tipico delle dirette RAI.
Vero: la ripresa audio della RAI era davvero pessimo (difficile giudicare l’orchestra)…senza contare i fastidiosi rumori (pure un allarme che ha trillato per 5 minuti d’orologio) che si sovrapponevano alla musica
Sissignori, la Pratt in gran forma, l’ho trovata anche meglio della Sonnambula veneziana e su un terreno a lei più congeniale; la notina che ricordava massimo.fazzari c’era, ma nulla toglie a una prova davvero maiuscola! e tanto di cappello alla signora Podles, grande professionista. L’unica volta che l’ho ascoltata dal vivo sostituiva l’inizialmente prevista Horne in Semiramide, alla fenice nel ’92, accanto alla Devia. Sapevo che stavo perdendo l’ultima occasione per sentire la Horne dal vivo ma Ewa Podles fu eccellente e non la fece rimpiangere, e scusate s’è poco! Concordo anche con quanto scritto sulla regia di Livermore, un idea, ma realizzata molto bene; con una cura dei particolari in uno spettacolo tecnicamente complesso come questo davvero notevole e splendidi i costumi di Gianluca Falaschi!
si i costumi erano bellisssssssssssimi ! dobbiamo ricordare il suo nome, una volta tanto.
Piccolo pedigree dei meritatamente lodati costumi del Ciro:
1) Aubrey Beardsley (1872-1898)
Illustratore Inglese
2) Leon Bakst Sheherazade. Ballet Russes
Parigi 1910
3) Paul Poiret Festa “La Mille e Deuxième
Nuit” con 300 invitati in costumi persiani.
Parigi, 24 giugno 1911
4) Salome Film con Alla Nazimova, scene
e costumi Natasha Rambova.
Hollywood, 1923
5) La Traviata Freni-Giulini-Visconti
Costumi Vera Marzot.
Londra 1967.
Aggiungere uno spruzzo di Erté, shaekerare e servire ben fresco. Ottimo risultato.
Nonostante i miei numerosi impegni non manco d leggervi in casi come questo in cui ero curiosissimo di conoscere il vostro parere. La Podles è stata stratosferica, pur dall’alto dei suoi sessant’anni compiuti (e non passati), e tenendo conto del fatto che mai ha avuto una voce squillante o timbricamente bella. Gli scalini che sovente lamentate sono fisiologici della vocalità contraltile pura, della cui esistenza spesso e volentieri vi dimenticate: se si ascoltano i pochi contralti profondi che hanno registrato (su yt c’è qualche bella incisione di Clara Butt, ad es.) nonché i pochi veri contralti esistenti (io ne ho sentiti un paio tra cui una parente di vecchia scuola) si vede come il gradino tra il Re ed il Fa centrale a differenza delle vocali è non solo fisiologico, ma desiderabile, o non riescono ad appoggiare i mezzi e gli acuti. È solo per questo, tra l’altro, che la Podles ha o aveva quella mostruosa estensione in acuto. Il tenore è stato piacevole, ma del tutto fuori ruolo, nessuna credibilità nei gravi, è un tenore acuto e qui i voleva un Chris Merrit primi anni ’90; acuti un po’ capponeschi, voce da Almaviva insomma, però bravo assai. Daniello ha solo sputato in scena. Orrore. Orchestrazione scarsissima, a tratti disastrosa (almeno per quel che ho sentito: mene techel fares… Altro che meraviglia ed attonito stupore, non s’è capito un tubo!). Costumi meravigliosi, regista alquanto ignorante: i vasi di Nabuccodonosorre (cit. Diodati) non sono di certo i vasi da fiori mostrati in scena (e misteriosamente rotti)! Sono le coppe sacrificali rubate dal Tempio di Gerusalemme, coppe da cui Baldassarre bevve. Dei comprimari Arbace è stato davvero bravo e tecnicamente ineccepibile: voce non bella, ma perfettamente calzante; poteva e forse doveva fare Baldassarre. Il basso invece mostrava una certa difficoltà nelle fioriture, in generale sembrava totalmente fuori repertorio, voce grossa e rigida, ma non malposta. La mia impressione è che il pubblico colto fosse lì per la Podles più che per un’opera che a conti fatti fa acqua da tutte le parti a livello drammaturgico, benché mostri molti punti di contatto con Norma e La sonnambula (soprattutto nei cori ed in certe melodie). Rossini non annoia mai, ma la Podles lo ha reso vivo più che mai! Quei gravi, quei gravi! Si era tutti in attesa… Adesso scende, adesso scende! Donna barbuta è sempre piaciuta! XD
… ma cosa stai dicendo?! Scalini fisiologici della vocalità contraltile pura? E cosa avrebbe il contralto di diverso dalle altre voci per avere la necessità fisiologica di fare jodel?! E la Podles secondo te sarebbe un contralto profondo?! Gradino desiderabile?! Cioè tu desideri sentire una vociaccia grossa e pompata nei gravi e poi repentinamente vuota e falsettante nel centro? E poi che è, un fenomeno da baraccone forse? “Adesso scende adesso scende”?!?! … Non ho parole… (La Podles comunque è un mezzosoprano acuto, giammai un contralto).
attendevamo Mancini per la dovuta risposta. Incomparabile il suono della parte centro alta della voce della podles con la parte grave. Sopra aveva brillantezza ed ortossia di emissione. Gli scalini sonodifetti, soprattutto quando non consentono di cantare al centro. Le più grandi della storia erano esenti da scalini……..a cominciare dalla diva stignani risalendo alla più grave schumann heink…
utatorbas …la Pratt non ha cantato ?
@Pasquale ho scritto il mio primo post di getto, mi si perdoni se non ho “criticato” la Pratt ;-). Bella voce, molto, troppo timorosa in acuto, piani e smorzature mi sono sembrate scuse per non affrontare coraggiosamente quel che la parte richiedeva. L’interpretazione eccessivamente patetica, un po’ appiattita sull’immagine della casta consorte in balia degli eventi, mi è parsa scontata. Ottima tecnica, usata in maniera a mio credere troppo scolastica per il livello della recita; nonostante tutto uno dei migliori soprani sentiti ultimamente, devo dire che non me l’aspettavo, una bella sorpresa davvero. Contento? 😉
Io e Mancini abbiamo notoriamente idee tecniche differenti. Sta di fatto che grazie alla mania di fare classificazioni strampalate (mezzosoprano acuto, baritenore, basso leggero) non si capisce più niente. La Podles è un contralto con una grande estensione per la stessa ragione per cui De Lucia non era un baritono acuto (né tantomeno un “tenore corto” come vedo ripetere, ma un tenore giusto, come avrebbe sostenuto il Lamperti padre, per il quale il tenore oltre il La non doveva andare). Lasciando perdere questo, la zona sotto il Do# centrale nel contralto vero (che stando a quello che i maestri combinano oggi esisterebbe solo sui libri) mostra frequenze armoniche talmente differenti rispetto al medio che il gradino è inevitabile; poi l’arte, come si dice, lo lima, tenta di renderlo omogeneo creando l’illusione armonica del registro unico (che l’età inevitabilmente sconquassa), ma il gradino timbrico, riflesso di una contrazione muscolare totalmente differente a livello propriamente meccanico, resta sempre là e non è eliminabile. Soprattutto, ribadisco, nel contralto, che attualmente in Italia è trattato come mezzo (noduli a parte, ovviamente, ragione del ritiro di tantissimi mezzi), e che quindi resta pressoché sconosciuto alla didattica (non così negli USA ad es., come sento ripetere ai convegni cui i maestri italiani per definizione NON partecipano e leggo nelle pubblicazioni che per definizione in Italia NON vanno lette – esiste solo Juvarra e qualche orrenda traduzione di Garcia – pena la perdita dell’aura stregonesca della didattica nostrana). Tra l’altro ho l’impressione a volte che voi confondiate le acciaccature che la Podles spesso e volentieri interpola (ad imitazione di Moreschi) con dei veri e propri slittamenti di registro, ma può essere un’impressione mia. La Podles ha il Sib grave che io da tenore non ho, non ho idea per voi chi sia un contralto profondo. La Schumann-Heink ai tempi non era nemmeno considerata universalmente tale (ho letto svariate pubblicazioni in cui la si definiva mezzo tout court). Benché so che poi finiamo come al solito al muro contro muro, caro Mancini, il contralto è diverso dalle altre voci per mere ragioni di frequenza dei suoni: mentre il Basso gestisce frequenze comunque ricomprese in un intervallo agevolmente gestibile dalla laringe umana (maschile, sottolineamo), il contralto ondeggia tra intervalli grandemente diversi, sottoponendo l’intero apparato vocale a tensioni totalmente differenti (cantare il Do grave di un tenore, alias medio del basso, ed il Fa acuto di un soprano non è uno scherzo per la stessa muscolatura). Inoltre se è vero ciò che ormai quasi universalmente si crede, cioè che i “passaggi” stiano alle stesse altezze (frequenze) per ragioni fisiologiche, è certo che il contralto ne debba maneggiare mediamente di più ed in punti assai più delicati rispetto alle altre voci, ritrovandosi con quella nota angustia del registro medio che è nota a tutti i compositori.
Ho visto la quasi diretta TV e propongo le mie riflessioni (oltre a quelle sullo spettacolo, già comprese nell’articolo):
– innanzitutto sulla Podles: è evidente come il mezzo sia usurato, la voce spezzata in due tronconi e gli anni di carriera si sentano tutti…però si intravede la grande virtuosa (a mio gusto superiore alla Horne, di cui non ho mai tollerato certe “sguaiataggini” yankee). Purtroppo il ROF arriva tardi e si è perso gli anni migliori (penso alle sue incisioni di Tancredi e di Orfeo ed Euridice). Oggettivamente non è stato un bel sentire…tuttavia, almeno in alcuni brani (penso al bel finale II) si è intuito la grande rossiniana degli anni passati.
– non concordo con il giudizio così negativo su Spyres: ma insomma, come dev’essere il tenore rossiniano? Io ho ritrovato il cantante che mi era tanto piaciuto nell’Otello di Wildbad (e non solo a me): snocciala con grande naturalezza le complicate colorature della spericolata parte di Baldassare, andando sopra e sotto il pentagramma con estrema facilità e con voce sicura e saldamente emessa. Il ruolo non è quello da “baritenore” classico (sarà registro sfruttato nelle opere scritte per Napoli) e quindi non ha senso giudicarlo in base a presunte mancanze in tale registro. Neppure ha senso invocare Merritt, cantante che – seppur dotato di maggiore spericolatezza in acuto – aveva un’intonazione assai ballerina (anzi, diciamola tutta: era spesso stonatissimo…). Spyres è, invece, molto più intonato e la voce è emessa assai meglio. Non comprendo davvero le critiche.
– Splendida Jessica Pratt nell’impegnativo ruolo della sposa di Ciro, Amira (due arie-monstre e complessi pezzi d’insieme): tecnica ormai matura e sicura, trova in Rossini il suo repertorio ideale (e lo sarebbe anche Mozart, se solo lo eseguisse più spesso).
– Pure non concordo col giudizio negativo sulla direzione d’orchestra: premesso che il Ciro non è la Nona di Mahler, ho trovato molto buona la direzione di Will Crutchfield (che accompagna anche i recitativi al fortepiano), ma che ha dovuto fare i conti con un’orchestra – quella bolognese – non certo ineccepibile, soprattutto nella sezione degli archi (il solo di violino nella prima aria di Amira era del tutto sballato sia nell’intonazione che nel solfeggio). Però la scelta dei tempi, la leggerezza degli accompagnamenti, l’intesa col palco sono stati più che buoni. Ancora mi chiedo cosa si vorrebbe… Si tratta di un’opera da inquadrare in un certo stile musicale, in cui gli effetti o gli affetti non dovevano prendere il sopravvento sulla compostezza ideale: in tal senso la direzione è stata giustamente elegante. Certo non ho sentito – per fortuna – le mazzate di piatti e timpani o le solite volgarità che segnano le direzioni di certi presunti specialisti del belcanto (dai vari Parry, Benini, Carella, Fogliani sino a Bonynge).
– sull’opera non mi dilungo: basti dire che a fronte di un intreccio fragile e una materia drammatica praticamente inesistente, Rossini fatica a rendere del tutto credibile la veste musicale (e non per inesperienza – il compositore già padroneggiava assai bene i ferri del mestiere – piuttosto per intrinseca debolezza del libretto), tuttavia non lesina di dispensare saggi del suo genio sia nella scrittura orchestrale (molto rifinita e, per certi versi, sperimentale) che in quella vocale (e infatti molti brani saranno riutilizzati, come era costume dell’epoca, soprattutto laddove il titolo originale cadeva senza ottenere lo sperato successo).
– Molto molto bello l’allestimento (di cui già ho detto), che riesce a rendere credibile una non-trama mal organizzata e maldestramente stereotipata.
Ho ascoltato questo Ciro alla Radio, visto il secondo tempo alla Televisione e martedi’ scorso ho visto la prova generale, ovviamente dal vivo. Mi e’ piaciuta l’ Opera, ma non l’esecuzione. In Teatro la cinepresa che instancabilmente, dall’inizio alla fine proietta su cantanti e scene migliaia e migliaia di strisce l’ho trovata insopportabile. I vari sculettamenti, stettamenti e sbigolamenti che compaiono anche qui’, come nella maggior parte degli odierni spettacoli sono ridicoli , esattamente come negli spettacoli sopradetti. I continui cambi di di seggiole seggioline e seggioloni da parte del coro e delle comparse infastidiscono ed annoiano. Il carrettino che parte a spron battuto stile bee beep nel finale si commenta da solo, e i blocchi traballanti che portano in scena i vari personaggi, non so bene quale senso possano avere, di certo non mettono a proprio agio gli artisti, che palesemente faticono a mantenere l’equilibrio. Nota positivissima invece i costumi : splendidi. Il direttore sembra essere rossiniano di grande fama, sara’, io l’ho trovato inerme e inconcludente. L’orchestra non ha suonato bene, ed il coro a volte se ne e’ andato per i fatti propri. Sono stato per parecchio tempo ammiratore della Podles, e sono contento che il ROF si sia alla fine deciso a rendere quanto meno omaggio ad una serissima professionista, tale omaggio giunge pero’ troppo tardi. La sua voce e’ divisa in tre tronconi differenti, il suo legato e’ scomparso, i fiati accorciati, la pronuncia orribile, i gravi esibiti platealmente . Ha 60 anni? Non e’ colpa di nessuno. Nonostante tutto questo, e non solo per l’affetto e l’ammirazione che ho sempre nutrito nei confronti di Ewa Podles, devo constatare che nessuno, oggi, e’ in grado di offrire secondo me una prova superiore alla sua in questo tipo di repertorio. Si, perche’ se durante la serata si sono ascoltate alcune roulades di forza, se durante la serata si e’ udito un fraseggio non monotono, se durante la serata c’e’ stato qualche tentativo di smuovere catatonia musicale imperante , lo si deve solo a lei, che oltre a tutto, mantiene un registro superiore di una certa facilita’. Baldassarre, il ruolo piu’ importante dell’opera dopo quello di Ciro era cantato da Spyres, che e’ stato deludentissimo. Dopo aver ascoltato il suo recital in cd, ero gasatissimo, pensavo di ascoltare chissa’ che cosa, e invece mi son ritrovato un tenore problematico in alto, in basso e nel medium, dal colore bello ma anonimo, spesso falsetteggiante, non in grado di eseguire un piano dico uno, con scale semitonate discendenti stile ascensore. E, in teatro c’era chi lo dava per nuovo Merrit. la Pratt e’ l’unica del cast ad avere, eta’ giusta, voce giusta, tecnica giusta e gusto giusto per poter affrontare il personaggio da interpretare. Conferma di essere cantante alterna cantando cosi’ cosi’ la generale e piuttosto bene la prima rappresentazione, pur rimanenedo lontana dal risultato dell’Adelaide dello scorso anno secondo me, conferma anche di essere uno dei pochissimi soprani al mondo ad avere la voce “avanti” in quanto ad emissione, e conferma in fine di essere piuttosto impacciata scenicamente. Non ha brillato, sempre secondo me, come virtuosa, perche’ le ho sentito far di meglio, e quindi lo puo’ fare, di meglio intendo. A livello interpretativo poi, non c’e’ una volta che mi abbia coinvolto, ma quelli son gusti. Terribili i due bassi ed il secondo tenore. Volonterosa la seconda donna. Alla fine, vista in televisione, con la telecamera sempre su costumi o primi piani, l’allestimento sembrava quasi bello. Aspetto i commenti di chi andra’ a vederla a teatro. Ciao a tutti.
Per Udatorbas –
Ciao, Uda. Scusami ma non ho capito bene. Perche’ non dovresti poter criticare un artista che non ti ha convinto? (Pratt o mica Pratt e’ lo stesso). Non ha convinto neanche me, anche se canta piuttosto bene, e se non mi ha convinto lo dico, dov’e’ il problema?
Nessuno mi ha convinto, nessuno in questo Ciro, e nonostante cio’ Podles (finita) e Pratt (che qualsiasi cosa canti mi annoia profondamente, e scenicamente sembra che abbia la colla sotto i piedi) sono il meglio che oggi si possa ascoltare in questo repertorio, vedi tu come sian messi. Altre persone, come hai letto, han trovato bravissime entrambe, ed addirittura hanno ascoltato nella Pratt un fraseggio scandito e perentorio, e allora? Saremo o no liberi di esprimere il nostro parere? Io non trovo la Podles un contralto ma un mezzo soprano, poiche’ il contralto non ha bisogno di snaturare la propria voce quando scende, e neppure di forzare sempre quando scende, e si trova a suo agio nella tessitura grave, secondo te invece e’ un contralto, ma non mi faccio problemi. Insomma, siamo qui’ per poterci scambiare delle opinioni no? Ciao.
A me la Podles piace(va) moltissimo: poco mi importa che sia un mezzosoprano che fa il contralto o che la sua emissione sia più o meno ortodossa…il suo recital di arie rossiniane è e resta una delle più belle incisioni di Rossini. Francamente la preferisco alla Horne (anche in Tancredi). Certo questo Ciro arriva tardi, tardissimo e il plauso va, più che altro, alla carriera…
Perfettamente d’accordo sulla prima parte, Duprez, e il fatto che io preferisca invece la Horne, non cambia la sostanza : e’stata una gran brava artista, ed il suo disco naxos diretto da Morandi e’ uno dei migliori recital rossiniani mai apparsi. E aggiungo, il suo Orfeo cantato a Perelada era a tratti entusiasmante.
beh adesso non passiamo il segno delle cose.uda ha sempre scritto ed è sempre stato pubblicato come pubblichiamo tutti qlnque cosa affermino, salvo gl insulti. Voleva scrivere soprattutto di altro e non del soprano. Non esageriamo nemmeno con l’ecumenismo, caro miguel, perchè sai benissimo che ognuno di noi ha dei limiti in fatto di tolleranza sulle altri opinioni in fatto di voci.
Qualcuno mi illumini su cosa sia successo perché non ho capito… forse l’ironia con cui ho risposto a chi notava non avessi sputato sentenze su tutti gli interpreti è stata male interpretata… Lungi da me il voler dire male di una cantante che tra l’altro mi è piaciuta, probabilmente il tono è stato frainteso e me ne scuso, non mi pare di essere indisponente abitualmente, né di esserlo stato in questa sede; per ogni cosa impropriamente detta, comunque, chiedo venia.
???? Alludevo agli insulti di uno che è stato bannato l’altro giorno per overdose di messaggi contro un utente…..pensavo avessi letto la polemica su boheme…. Ed ho ribadito che se non hai scritto di qlcsa o qlcno sarà perchè non ti andava di farlo, dato che pubblichiamo tutto, e che non serve che altri utenti rassicurino circa il diritto di esprimere le proprie opinioni perchè pubblichiamo sempre anche quelle contrarie o che non cpndividiamo…tutto qui
Ma perché ti scusi? Hai tutto il diritto di dire male o bene di un cantante che non ti ha convinto. Io non voglio ci siano censure o autocensure: quanto alla tolleranza…ognuno ha le sue opinioni. E non ce ne sono alcune più uguali delle altre…
e infatti non ci sono censure, salvo ai troll che insultano……ma il post di fleta fa sembrare che ci siano, dunque ho precisato..
Non ero informato riguardo questi fatti, avevo percepito una strana tensione che mi sembrava ingiustificata, tutto qui. Grazie per avermi risposto!
no no…hahha…l’ecumenismo era per fleta, che conosco da una vita e che ritengo un amico. Si sforza di vincere la propria natura melomane……fa l’ecumenico qua ma anche a lui, quando gli scappano i cavalli…gli scappano eccome! Cerca il saggio distacco dei veterani ma……fa fatica come noi a non farsi prendere……hahhahha…..la melomania è una unfezione gravissima ed inguaribile!
Ah, questa me l’ero persa. Ti sbagli Grisi, i post di Fleta dicono solo quello che e’ stato scritto. Ti piaccia o no. E ti ridomando cosa sono i troll.
un troll è un nick di disturbo.
Bene, non esageriamo con l’ecumenismo. Bene, ognuno di noi ha dei limiti in fatto di tolleranza, e l’ho sempre detto. (Ma non ognuno di noi due eh! Proprio ognuno) . Ciao.
Cito MiguelFleta:
“Io non trovo la Podles un contralto ma un mezzo soprano, poiche’ il contralto non ha bisogno di snaturare la propria voce quando scende, e neppure di forzare sempre quando scende, e si trova a suo agio nella tessitura grave”
Esattamente. E aggiungo, inoltre, che nessun contralto potrebbe salire agli acuti del soprano sfogato, come fa o faceva la Podles, la quale canta con due emissioni completamente diverse, due diverse voci, ed è appunto un mezzosoprano acuto che ha voluto atteggiarsi da contralto per crearsi una propria caratteristica cifra stilistica e vocale. A me sinceramente non è mai piaciuta, è tutta tubata, la trovo finta e pure grottesca.
In ogni caso la parola “contralto”, nelle opere rossiniane, è solo convenzionale, e sta ad indicare, di fatto, quello che oggi è il mezzosoprano, più o meno grave o acuto. La vera voce di contralto, di cui credo non esistano documentazioni tra i cantanti d’opera che hanno inciso dischi, è quasi tutta di petto, è poco più di un tenore, non sale che alle primissime note di testa (re, mib, mi, massimo fa4) e solo toccandole appena, sfuggite. Per trovare ruoli scritti davvero per contralto bisogna tornare all’epoca barocca.
Sono d’accordo ovviamente, Mancini. Pero’ dei fenomeni contraltili che salivano al si ed al do ce ne sono stati dai. Per quanto riguarda la nostra Ewa, invece, ripeto che a me piaceva, anche con i suoi difetti, ….gusti. Ciao e buona vacanza.
Mancini, ma tutto questo non ti sembra strano? Stiamo parlando quindi di una voce… Che nessuno avrebbe mai sentito! Il tutto per rimpolpare le fila del pressoché inesistente registro di mezzo, che come quello baritonale è di dubbi confini ed indefinibile contenuto. Siamo d’accordo sul fatto che l’attuale contralto operistico non abbia molto a che vedere con quello monteverdiano, ma la ragione è presto detta: se qualcuno si fosse preso la briga in Italia di leggersi le testimonianze di Fornari, cantore della Sistina dal 1716 in avanti, avrebbe capito da dove sorge il problema, dato che egli distingue i contralti naturali da quelli castrati, dicendo che questi ultimi “più tosto mezzi soprani che contralti dovrebbero chiamarsi”, aggiungendo che i primi un tempo cantavano anche nella musica profana, e furono sostituiti dal contralto castrato per via dell’innalzamento delle tessiture, “per comodo de’ contralti castrati”, che aggiunsero note “prima non costumavansi” e che i contralti naturali non potevano raggiungere. Siccome fino ai tempi di Pio XII (con qualche residuo attuale) i contralti della Sistina, “musici voce acuta”, furono indefettibilmente falsettisti (oggi bambini e ragazzi, con i disastrosi effetti che si possono sentire), possiamo dire con quasi certezza che di quel tipo dovessero essere le voci contraltili seicentesche che tu citi. Il contralto successivo non è quindi tenorile perché non fu fatto da tenori che cantavano in falsetto, ma da castrati e, quindi, da donne che – evidentemente – hanno una vocalità più simile ad un castrato che ad un uomo sano. Ultimamente abbiamo avuto, anche nel campo della musica leggera, dei contralti profondi interessanti, mi riferisco in particolare a Dot-Marie Jones che canta nel teen drama Glee, la quale ha inciso la sua personale versione di Jolene, famosa canzone degli anni ’70; quello è di certo un contralto profondo, siccome non sta in Italia non c’è chi tenta di farla cantare da mezzo. In Italia abbiamo la Mingardo che è abitualmente trattata come contralto, canta da contralto e se non fosse che adopera una tecnica molto più morbida per un repertorio tutt’altro che sfiancante, suonerebbe esattamente come la Podles (a meno che pure la Mingardo sia un mezzo!). Tra l’altro, Mancini, il cosiddetto “contraltone” di cui si servono i mezzi (in realtà soprani giusti che per non avere il Mib sovracuto non possono in Italia essere considerati soprani…..) è totalmente diverso dai gravi della Podles, io l’ho sentito fare spesso ed è solo più armonico dei gravi ostentati dalla Pratt. Insomma, il problema mio non è certamente difendere la Podles che è una grande cantante e basta, la cosa che mi sconcerta è il vedere come si trattino per certi e tradizionali dati che non sono certi fisiologicamente né tantomeno sono tradizionali, perché poi si scopre che questa presunta tradizione è assai più recente di quanto non si creda (vogliamo parlare della Pasta, soprano giusto, che cantò da “contralto” ad inizio carriera, tanto per concludere?). In fine nessuno ha notato, in tema di vocalità, la strambezza fatta dal direttore che ha messo Baldassarre più “acuto” del tenore comprimario, avallando una prassi molto più tarda che ha fatto divenire Rosina soprano (per non stridere con Berta) e Adalgisa contralto; invece Baldassarre, l’anziano re (e la vecchiaia è l’unico segno caratterizzante vocalmente che la nostra scuola abbia sempre accettato) doveva avere una voce assai più “seria”, mentre in comprimario-aiutante più elegiaca. Capisco che qui però sono dispute bizantine! 😉
posso dire la mia?
un tempo sino a Rossini i mezzosoprani erano le seconde donne e sotto il nome di contralto o musico circolavano mezzi acutissimi come la Pasta o voci ben più gravi come la Pisaroni e questo lo sappiamo tutti. I cronisti del tempo parlavano di suoni “corruschi e non perfettamente levigati” con riferimento a quest’ultima e questo evoca a noi proprio la Podles. Frau Ernestine si definiva contralto (vedi un’intervista che presto pubblicheremo) precisando che saliva al si nat. e, aggiugno io, cantava Ortruda o Waltraute, che sono quasi soprani.
Non credo che il contralto debba avere lo scalino, in natura. La solita Frau Ernestine o Sigrid Onegin ( che se mai lo scalino lo aveva in alto) in basso suonavano anche scure, ma non erano scomposte o appunto affette dallo scalino. Lo scalino le esibisce ( e so di fare arrabbiare Mancini) con una vocalizzazione tutt’altro che di scuola Guerrina Fabbri, che ben presto e non solo per l’opulenza delle forme cantò parti di caratterista Quickly e Madame de L’Haltiere di Cendrillon.
Anche io credo che il contralto del mondo barocco utilizzassero eminentemente il registro di petto, dubitando un poco perchè non sono documentati gli inserimenti ed abbellimenti di queste cantanti.
Posso anche condividere le perplessità di Mancini e come non potrei, atteso che tutti sanno che come travesti rossiniani ho la passione per due soprani inventatisi contralto, ma ad Ewa Podles devo riconoscere una carriera tutta guadagnata con le proprie qualità , che oggi pochissimi possono vantare.
ciao dd
Ho letto solo dopo aver risposto a Mancini. Io credo che dovremmo per un istante mettere da parte la “tradizione” recente e tornare a Francesco Lamperti, ingiustamente dimenticato, che ci dà la calzante (e perduta) definizione di “soprano giusto”. La Pasta era un soprano giusto (non acuto, ergo giusto, come era definito anche Moreschi se contrapposto al collega Cesari, acuto), non un “mezzosoprano acuto” che non solo non ho idea di cosa possa significare materialmente (che corde avrebbe?), ma striderebbe con l’evidenza di essere una definizione sovrabbondante, sovrapposta pressoché totalmente al soprano ed al “falcon” (anche questa categoria, alquanto risibile a mio credere). Il danno vien fatto non tanto sulla scena, ma quando tutta questa confusione esce dalle nostre conversazioni ed entra in conservatorî e scuole di canto! Ottimo il riferimento alla Fabbri, che volevo fare ma mi è sfuggito, aggiungo che anche la Calvé mostra i salti di registro, talvolta con ostentazione non facilmente comprensibile. In ogni caso non possiamo tarare i nostri giudizi su casi particolari, che per definizione non rientrano in alcuna categoria; probabilmente la Podles è un caso di questi.
Ah, sono d’accordo anche con te, Donzelli, la Podles si e’ veramente guadagnato tutto con le proprie capacita’, e con la propria serieta’, senza ombra di dubbio. Pero’ per me i contralti ci sono stati Domenico, anche nel nostro secolo, e guarda caso sono quelle cantanti che, piacciano o meno, tipo la prima Levko, la Forrester, la stessa Ferrier o la Zbruyeva, che cantavano con voce chiara, senza forzare anche le tessiture molto gravi. Ciao, a presto.
Un cronista francese che ascoltò la Pisaroni parlò pure di una voce che in acuto pareva una gatta… e con ciò? Non mi sembra una operazione corretta ricorrere alle descrizioni dei cronisti dell’epoca per ricavare come quelle parti debbano essere eseguite… Di come cantasse la Pisaroni, sinceramente, non me ne importa niente. Il canto è UNO e stop, non mi serve immaginare come cantasse la Pisaroni per saper discernere oggi tra un Rossini ben cantato ed un altro mal cantato. E poi il massimo pregio della Pisaroni – che prima di ammalarsi aveva iniziato la carriera da soprano… altroché contralto – stava nel suo essere una grande dicitrice, aspetto che nella voce costruita e artificiosa della Podles è inevitabilmente deficitario.
La Schumann Heink e la Onégin erano pure loro due mezzosoprani, certo con una estensione ragguardevole. Il contralto puro, che nell’opera ottocentesca non ha repertorio, e che è pertanto una classe vocale inesistente tra i cantanti d’opera degli ultimi due secoli, ha una estensione compresa quasi del tutto nel registro di petto, riesce ad attaccare il registro acuto di falsetto-testa solo per eseguire rapide volate verso l’acuto, che canonicamente non supera il fa4. Provocatoriamente – ma neanche tanto – si potrebbe affermare che le parti veramente contraltili in Rossini sono quelle di scritte per i suoi tenori contraltini.
lo diceva anche stendhal che gli eredi di velluti fossero david e la pisaroni, che era stimata anche una grande virtuosa. Io credo che fossero voci costruite, ma che la costruzione e l’ artifizio fossero molto occultati e non cosi percepibili. Insomma e questo devo dirlo nells onegin nella schumann heink ed anche nella stignani o nella matznauer l’ artificio c’é, ma non é cosi smaccato
No, Donzelli, questi sono concetti sbagliati e pericolosi, che se sviluppati fino alle loro estreme conseguenze portano ad avallare le odierne imposture. Artificio è sinonimo di arbitrio, indi il canto non è più l’unico possibile canto, ma solo un canto tra tanti, da cui la legittimità di inventarsi oggi un modo di cantare diverso, del tutto finto e buono solo per i dischi, vedi la Bartoli o i vari Kaufmann. Cantare bene significa cantare secondo la propria natura, educando e sviluppando il fiato. Guardiamoci bene dalle elucubrazioni che vogliono fare del canto qualcosa di complicato e costruito. E’ di fondamentale importanza comprendere la differenza tra artificio e Arte, altrimenti tutto l’intento di tutelare la vera arte di ben cantare perde inevitabilmente di significato.
Scusate l’ignoranza, ma insomma, questi troll benedetti, chi sono?
Non me ne vogliate … ma … cacchio … a volte sento pareri che mi lasciano perplesso e dubbioso sulla qualità del “gusto da melomane” di alcuni. Cioè nel senso che leggendo alcuni commenti ho il dubbio sulla quantità e qualità di ascolto di opere di alcuni che si reputano “melomani” nel senso dell’assiduità di ascolto operistico protratto nel tempo. Se non mi sbaglio in questo forum la maggior parte sono melomani e hanno, spero e presumo, decenni di ascolto operistico alle spalle (io più di un ventennio). Ma con tutte le interpretazioni delle opere rossiniane che ho (e credo abbiate più di me) sentito, da più o meno grandi cantanti di questo repertorio, quanto può un ascoltatore del genere resistere ad ascoltare un Ciro (o una qualsiasi altra opera rossiniana) eseguito così. Mi dispiace. Ma con tutte le infinite interpretazioni delle opere rossiniane sentite, questo è poco più che mediocre e lo direbbe qualsiasi melomane credo, a meno che voglia compiacere i cantanti, il direttore o qualcuno del teatro, per carità, lode al loro impegno e fatica, ma non vuol dire che gli deve uscire per forza un’appropriata e sentita esecuzione. Ce l’hanno messa tutta ma Amen. Il direttore, a mio avviso, assume gran parte della colpa del livello di riuscita di una qualsiasi opera. N’abbraccio a tutti i lirici.
Guardi, a mio avviso benvengano assolutamente le critiche-lo spettacolo perfetto, almeno ai giorni nostri non esiste-ma di tutto ci si può accusare tranne che di essere benevolenti, mi scusi. Io (che evidentemente condivido con lei la passione smisurata-per quanto mi riguarda a volte che va anche a mio discapito-per Rossini, io ho passato 30 anni della mia vita ad ascoltarlo, ed è attualmente il mio compositore preferito) ho trovato questo Ciro di un livello medio, ne buonissimo ma neanche mediocre, visto l’andazzo che Pesaro ha preso negli ultimi anni. Certo, non era una roba da strapparsi i capelli per la bellezza, ma mediocre non lo definirei.
Cordiali Saluti.
il primo atto non mi è molto piaciuto,ma nel secondo atto la recita si è alzato di livello,il direttore ha di molto assecondato i cantanti.
penso che sia stata una buona recita,la Pratt a me non mi annoia,riguardo alla Plodes onore alla sua carriera…
PODLES*
sempre sulla Podles una citazione stralciata da Wikipedia “La Podleś è dotata di più di tre ottave di estensione (le sue note limite attestate su supporto fonografico sono il si basso, nella Fille du régiment del 1996[1] e il re sovracuto nell’Ariodante del 1997[2]) e possiede altresì un’agilità vocale davvero ragguardevole, collocandosì così sicuramente tra le maggiori vocaliste a cavallo tra il XX e il XXI secolo.”
Ho visto il Ciro a Pesaro ieri sera, ed ecco le mie personalissime opinioni.
– Lo spettacolo è molto originale e ben fatto, l’idea del film muto anni 20 è convincente e realizzata piuttosto bene, ma a essere sinceri dopo la prima mezzora di entusiasmo, inizia a essere un po’ ripetitiva e noiosa. Come mi è stato fatto notare, lo spettacolo è molto piatto per quanto riguarda l’uso delle luci, mentre i costumi – ma l’hanno detto in molti – sono davvero molto molto belli;
– sarei un po’ meno severo con la direzione d’orchestra, che anzi aveva un certo mordente e ben sottolineava lo sviluppo drammatico dell’intreccio;
– del cast quello che più mi ha impressionato e convinto è stato Spyres; a parte il dubbio che le voci fossero amplificate artificialmente, la voce in sala gira davvero bene, il cantante ha bel timbro e sgrana con una facilità impressionante e travolgente tutte le agilità della scrittura rossiniana andando da un estremo all’altro del pentagramma con omogeneità;
– la Pratt ha cantato molto bene, anche se in diversi punti ho avvertito qualche stonatura, qualche acuto o sovracuto assomigliava più a un urletto, e a volte nella voce sembrava passare l’aria; in generale però, questa artista mi ha lasciato (come sempre finora) pressoché indifferente, non riesce a coinvolgermi più di tanto, né con le sue meraviglie tecniche (il gioco dinamico è stato come al solito molto sfaccettato) né con la sua interpretazione;
– alla Podles va l’onore delle armi: quasi a volersi giustificare per la propria età ormai abbastanza avanzata, la cantante ha voluto inserire nel programma di sala alcune osservazioni sulla sua interpretazione di Ciro che stanno a metà tra una captatio benevolentiae e una professio modestiae; la voce è effettivamente senescente, soprattutto in alto (ma nel corso della recita questa impressione è andata diminuendo), e piuttosto pompata (ma non sempre) in basso; alcune frasi, poi, le ha proprio “parlate”. Interpretazione in ogni caso molto curata e approfondita, che però neppure nel suo caso mi ha lasciato granché (forse sono proprio incontentabile);
– abbastanza bene i comprimari con l’eccezione del Daniele di Costantini, dalla voce non ben emessa e cavernosa.
Nel complesso mi rimane l’impressione di un bello spettacolo tradizionale e originale allo stesso tempo, ben fatto ma un po’ noioso, e quella di un cast molto buono (per i tempi attuali) che forse, impiegato in altro titolo (sinceramente non capisco l’entusiasmo per questo titolo del catalogo rossiniano, benché esso contenga indubbiamente dei brani più che pregevoli) sarebbe stato capace di emozionare e lasciare di più.
mamma mia… rossini amplificato artificialmente… :(((
non ne sono sicuro, eh… però mi è venuto questo dubbio perché si sentiva davvero troppo, troppo bene, chiunque cantasse e ovunque si trovasse sul palcoscenico!
buffo quello che dici. Un vecchio melomane mi ha detto che spyres ha voce bella e grande ,a che non corre. Secondo me nicola hai sentito per una volta voci abbastanza grandi o che corrono, anche perchè il rossini non è grande. Spyres a roma aveva buon volume al centro, in scala da baritono non si sentiva in donna mentre nel viaggio si. Se ha una dote vera è il mezzo, ma a furia di sentir vociucole, se uno fa sentire qlcsa che si possa definire voce lo pensiamo amplificato?….La podles poi non ha mica bisogno di farsi amplificare in nessun teatro del mondo, perchè ne ha e in ogni registro. La pratt l’hai sentita da te e lì ha gia cantato anno passato. Dunque….
Ripeto, si tratta di un sospetto e spero tanto di sbagliarmi. Mi dirai cosa ne pensi dopo aver visto lo spettacolo dal vivo!
In un teatro piccolissimo gente che non ha problemi a farsi sentire si amplifica…vabbè…ha una sua logica… Di solito la domanda me la pongo quando in un teatro grande sento gente che non mai saputo cantare e si sente moltissimo ( vedi Grigolo nel Romeo alla Scala..)
Non sospettare Nicola: a Roma nel Candide Spyres aveva un bel volume…altrochè….
amplificare delle voci e l’ortchestra senza che il pubblico non se ne accorga non è possibile,a meno di usare apparecchiature molto sofisticate,ma si sente lo stesso l’amplificazione,spesso in una sala ci sono dei punti dove il suono arriva di meno e in altri piu forte,e magari fa nascere dei dubbi,quindi penso che uno sospetta,ma non ha la certezza, non c’è l’amplificazione
http://www.youtube.com/watch?v=SINdjfucKFA
Pasquale hai ragione a dire che il pubblico (non tutto, ma la maggior parte) se ne accorge, se il suono viene amplificato, ma guardate questo video del Ciro, mettendo in pausa precisamente al min. 9:47.
Sulla spalla destra (la sua destra) della Pratt si nota chiaramente un filo con a metà una specie di “cilindretto”, tipo quello degli auricolare per il cellulare. Ora, non vorrei fare gaffe cadendo nel ridicolo (magari è solo un pezzo del costume, non credo), ma quello sembra proprio uno strumento che con la Babilonia e gli anni 20 non ha proprio a che fare, sembra un microfono. Io la penso così, ripeto, però, magari mi sbaglio…
sono i microfoni della ripresa rai… io ho avuto il sospetto dell’amplificazione quando ho ascoltato opere allestite nello spazio dell’adriatic arena, ad esempio lo squallido Mosè dell’anno passato o la Zelmira del 2009, ma ritengo improbabile che venga amplificato pure il teatro Rossini, anche se niente è impossibile, considerato che ho udito con le mie orecchie un intero Don Giovanni clamorosamente microfonato nella sala del Bibiena di Bologna!!!
Sì, sono microfoni che servono per l’audio della ripresa televisiva, non per amplificare.
stefix ..se non c’era il microfono come facevi ad ascoltarla per radio o per tv ?
pensavo li avessere messi sul palcoscenico, a terra, io ero rimasto a quelli.
visto che siamo in argomento per me tanti problemi sulla qualità audio,e lo squilibrio che si crea nella ripresa audio è dovuto a questi benedetti microfoni posizionati sui cantanti,era molto meglio prima degli attuali microfoni radio trasmittenti( per capirci quando ai microfoni era collegato un cavo) si faceva uso dei microfoni ambientali posizionati secondo degli schemi ben precisi,e creava il giusto equilibrio tra le varie voc, il coro,e l’orchestra,ci sono registrazioni audio di opere dal vivo o concerti degli anni 50 e 60 di qualità superiore all’attuale,eh si che in quegli anni la tecnologia era ben indietro rispetto adesso,poi certi ingegneri del suono credono che un concerto o un opera lirica sia come fare una ripresa audio di un concerto pop..e assistiamo a certe oscenita di ascolti..
Scusate se mi intrometto ma anch’io trovo che la Pratt non mi emozioni (intendo, non vado in delirio): ne apprezzo tutto il bagaglio tecnico, la voce “avanti” e proiettata, gli acuti (!) che dispensa sempre, l’uniformità verticale, se mi passate il termine, però non riesco ad emozionarmi, e mi dispiace, perchè vorrei veramente entusiasmarmi per questa cantante (se non per questa, per quale?).
Forse una ragione è legata al fatto che riesce ad eseguire il tutto senza sforzo apparente, e non si percepisce l’eccezionalità della sua esecuzione; però questa era anche una caratteristica della Sutherland…
Se poi confronto, ad esempio, il “Luce di quest’anima” della Pratt (recital Venezia), della Sutherland (recital 1959) e della Scotto (recital DGG), mi sembra che le ultime due abbiano un suono più, come dire, pieno (con tutto che la Scotto non è proprio nel suo repertorio)…non so come spiegarmi.
E’ una questione di vibrato?
C’è qualcos’altro?
Grazie dello scambio di opinioni!
….beh la paragoni ai dei supermostri, mica gente qlnque…..
Mi riallaccio al blocco di commenti riguardanti la qualità e valutazione dell’interpretazione e dico che nelle opere italiane (ma anche in generale in ogni lingua), sopratutto quelle del periodo classico e romantico, in cui la vocalità pare sia imperante rispetto all’orchestra, se la dizione italiana non è perfetta, proprio come pronuncia italiana (che non tutti i cantanti, anche se bravi, riescono ad avere), l’opera parte inesorabilmente penalizzata e non c’è modo di salvare purtroppo a mio avviso un’esecuzione che difetta da questo punto di vista. Il cantante può essere bravo, con la voce a posto, in avanti, timbrata, forte, agile, limpida, squillante, che corre, robusta, acuta, ma se la pronuncia delle parole e delle frasi dei recitativi e arie è meccanica e non risponde all’espressività della lingua italiana, tutti i pregi svaniscono e risulta come se non li avesse più perché il fraseggio e l’arioso diventa irrimediabilmente monotono. Pochi sono quei cantanti stranieri che rendono l’italiano perfettamente dando “personalità” ad una determinata esecuzioni di una determinata opera del repertorio ottocentesco italiano.
Per tanti interpreti funziona così:
Scarsa conoscenza dell’italiano = interpretazione monotona (ripeto, nonostante tutte le qualità vocali che potrebbe avere di questo mondo. Perché – scusate la ripetizione – sono pochi (rarissimi) i grandi cantanti che riescono a cantare bene nelle diverse lingue, anche non conoscendole perfettamente, ma conoscendo perfettamente e magicamente le parole e frasi del ruolo che stanno interpretando, quasi fossero madrelingua!). Buon Ferragosto.
Sono comunque pochissimi i cantanti a noi documentati che dispongano di un vero canto sulla parola e di un efficace recitar cantando. La decadenza della vocalità lirica ha portato ad emissioni sempre più incuranti del “dire” ben pronunziato, la pronuncia è considerata per lo più quale accessorio da “appiccicare” esteriormente sul suono. Le cronache dell’epoca rossiniana ci descrivono quei cantanti prima di tutto come formidabili dicitori, fraseggiatori, attori, giacché l’opera era teatro in musica, e il pubblico doveva riuscire a seguire e comprendere la vicenda rappresentata sul palcoscenico. La stessa scrittura di Rossini è fatta apposta per valorizzare la parola, essendo tutta incardinata nel centro ove il cantante – con la voce in ordine s’intende, ricordiamo che oggi le donne non sanno come si canta nel centro – è chiamato a fraseggiare e ad articolare le parole (di qui l’equivoco sulla Colbran presunto mezzosoprano…), mentre le note acute vengono toccate giustamente solo mediante il vocalizzo e mai nel canto sillabico, come avviene invece con la vocalità verista che utilizza il declamato nella prima zona acuta… Comunque la cosa più scandalosa oggigiorno è il modo in cui vengono trattati i recitativi, farfugliati meccanicamente, a metronomo, e in gran fretta. Ma questi direttorucoli hanno mai ascoltato un disco di Mattia Battistini? A questo punto, tanto vale tagliare i recitativi ed eseguire solo una selezione di numeri musicali in forma di concerto, no? Così almeno si risparmia pure sulle strampalate idiozie degli odierni registi…
Esatto. Stesso dubbio che ho avuto. Ma questi direttori sono appassionati di opera lirica o dirigono per lavoro. Cioè sembra che non se ne intendano proprio di opera. Capisco che spesso ad un determinato direttore s’impongano determinati cast e determinati repertori, in determinate condizioni (bilanci in rosso, spending reviu), ma un po’ di fantasia e genialità, ma non tutti purtroppo possono aver innata genialità e fantasia.
Bene. Tu togli all’opera italiana ottocentesca (parlando di quella ottocentesca) il recitar cantando (che presume chiaramente essere madre lingua italiana, per forza di cose, altrimenti devi fare affidamento alle eccezioni e rarità) ed ecco che l’opera non c’è più! Svanisce! S’inabissa! Tu la commenti, la critichi, la elogi, ne discuti, ma stai commentando, criticando il nulla! Cioè una volta abbattuto quel recitar cantando, quella dizione che fa nascere l’espressione del tutto, cosa significa commentare la bella voce, il chiaroscuro, la potenza, le agilità? Saranno grandi interpreti, ma in un opera del genere fatta per il suo 50% di recitativi e quindi di comunicazione e dialogo diretto, decadono miseramente e confezionano un prodotto da digerire in fretta e via! Quindi, nelle nostre critiche positive e negative, io credo che debbano partire sempre comunque e ovunque da questo imprescindibile presupposto, da questa “scure” che non risparmia grandi e piccoli cantanti dell’attuale scenario. Meglio criticarli e massacrarli di critiche questi cantanti, piuttosto che elogiarli. Pochi, pochissimi elogi per favore.
Ma caro Syrio, non è che “sembra che non se ne intendano proprio di opera”, non se ne intendono, punto. Una volta un direttore d’opera arrivava al podio dopo anni di gavetta come ripassatore, assistente, sostituto di direttori più anziani, così si trasmetteva sapere, tradizione, conoscenza della vocalità, mestiere. Oggi non si capisce cosa succeda, basta un diploma di conservatorio in direzione orchestrale (e a volte neanche quello) per fare un direttore? che formazione hanno avuto? Corsi? Masterclass? 2 settimane qua, 2 mesi là? cosa possono insegnare ai cantanti che si trovano davanti? Toscanini dirigeva a vent’anni, ma all’epoca si respirava opera, si mangiava opera, si ascoltava opera tutti i giorni, adesso…. si mangia da McDonald’s e l’opera è una roba che devi cercare, volere! Oggi vai a Pesaro a sentire il Ciro in Babilonia , domani a San Sepolcro per vedere Piero della Francesca….. uguale. L’opera è diventata un esperienza “museale”, non è più nel sub-strato culturale di questo paese eppure oggidì, bastano una decina di titoli macinati in tre/quattro anni e puoi dirigere alla Scala!
Nella mia esperienza di ascoltatrice – basata su conoscenze empiriche piuttosto che scientifiche – c’è stato un caso che mi ha colpito molto; un Giulio Cesare di Haendel, stessa produzione, stesso direttore, diverse protagoniste: Jennifer Larmore a Madrid, Daniela Barcellona a Bologna.
Bene: la Larmore (madre lingua inglese) – nonostante gli sforzi del metronomico baroccaro alla guida dell’orchestra – riusciva a risultare più incisiva proprio nel recitar cantando – pronuncia scolpita, vocali purissime, colori appropriati ai valori semantici del testo – mentre la Barcellona (madre lingua italiano) esibiva una sorta di ostrogoto, chiaramente dovuto all’impossibilità di pronunciare alcune vocali, spesso sostituendole con altre o riducendole a dittonghi (cosa appartenente alla lingua inglese ma non a quella italiana).
Clamorosa la differenza tra le due signore nella scena iv del III atto: “Dall’ondoso periglio…”
All’epoca mi venne fatto di attribuire quella grave magagna dell’artista triestina a problemi tecnici non risolti. Mi sbagliavo?
Non mi piacciono né la Barcellona né, per quel poco che ho sentito in disco, la Larmore. Nessuna delle due può essere innalzata ad esempio per quanto riguarda la naturalezza, la spontaneità, la sincera espressività del “dire”, poiché hanno entrambe una vocalità piuttosto costretta. Buoni esempi sono state invece la miglior Berganza, la Dupuy, tra i cantanti più antichi la Supervia o la Schumann-Heink.
Sarà pure come dici, Giambattista, che Berganza e Dupuy siamo più espressive e spontanee delle altre due citate da LilyBart, ossia Larmoor e Barcellona. Senz’altro le qualità son qualità, ma non muta il fatto che le opere inglesi di Handel è meglio che le canti un cantante di alta classe e di madrelingua inglese piuttosto che un cantante (es. Berganza) non madrelingua inglese. Sarà pure come dici tu che Berganza è più naturale e spontanea di Barcellona, ma il loro recitar cantando in inglese sarà irrimediabilmente artificiale e poco naturale e spontaneo.
La nostra discussione è su questa specifica compromettente lacuna. Non discuto, ripeto, di qualità e sfumature vocali.
….syrio, la larmore avrà anche un miglior inglese ma fa poi dei tali versi…..!
Scusate, ma Lily mi sembra parlasse di Giulio Cesare, che io, se escludo un film inglese con la Baker, non ho mai ascoltato in inglese, perche’ e’ scritto in italiano, o no? E, sempre Lily intendeva che la Larmore, pur essendo inglese pronunciava ed accentava meglio l’italiano che non la Barcellona, e naturalmente aveva ragione.
E sembpre Lily asseriva che non poche pecche della Barcellona erano dovute alla sua preparazione tecnica tutt’altro che corretta, ed aveva ragione anche in questo caso.
E , Berganza in Handel, soprattutto la prima Berganza, non accetta proprio paragoni con nessuna Larmore o Barcellona. In qualsivoglia lingua canti. Questo non l’ha detto Lily, ma immagino proprio che che lo pensi.
anche in inglese. pensavo alludesse a semele , hercules etc della larmore etc..
Pardon (mille fois pardon), ma la Larmore non è inglese (brittanica) ma americana.
Sì, infatti, alle opere inglesi di Handel mi riferisco. Ma potrebbero essere quelle tedesche o italiane dello stesso. Ok, esatto, d’accordo, il Giulio Cesare è in italiano. Bene. Capovolgi il mio discorso e varrà lo stesso. In questo caso Barcellona e Berganza, essendo madrelingua neolatine, avranno la meglio su Larmore o altre cantanti anglosassoni. Come dicevo, c’è sempre l’eccezione, ma sempre per confermare la regola. Bene. Larmore fraseggerà e interpreterà, per dire, il Semele o l’Acis e Galatea meglio che Berganza e Barcellona, a prescindere dalla bellezza della voce o le doti vocale. Questa è la regola (non mi parlate di eccezioni. Lo so. Esistono).
Buongiorno a tutti,
pur essendo sostanzialmente d’accordo con voi sull’importanza fondamentale di pronuncia chiara e dizione scolpita nel teatro d’opera, non posso fare a meno di pensare a un brano della “Vita di Rossini” di Stendhal.
L’autore cita l’affermazione di una nobildonna italiana, secondo la quale, a teatro, l’importante non era tanto conoscere a perfezione l’intero testo di un’aria, ma solo il primo verso, dove è indicata la passione descritta dall’aria stessa: sarà la musica, continuava infatti l’aristocratica, a dipingere e rappresentare meglio di tante parole i sentimenti provati dal personaggio a quel punto della vicenda.
Questo mi induce a pensare – ma forse si tratta di una conclusione arbitraria e affrettata – che neppure nel primo Ottocento gli spettatori fossero in grado di intendere a perfezione e nella sua totalità il libretto di un melodramma, e che molto fosse affidato alle capacità evocative della musica e all’interpretazione dei cantanti nella loro globalità (e non stiamo certo parlando di un’epoca di decadenza del canto, così come di certo l’amica di Stendhal non sarà stata del tutto priva di cultura e a digiuno di opera lirica).
Mi interesserebbe sapere come interpretate voi questa informazione che Stendhal mi sembra offrirci.
Ciò detto, e detto, se me lo concedete, che Semele era una donna (non un uomo), figlia di Cadmo, compagna di Zeus e madre di Dioniso… non c’è nessun altro che abbia visto questo Ciro a teatro e ci dica le sue impressioni???
Più che impossibilitati (vuoi per limiti propri, vuoi per problemi di dizione dei cantanti) a intendere a perfezione e nella sua totalità il libretto di un melodramma, credo che gli spettatori dell’epoca di Stendhal fossero disinteressati a farlo. E questo per la banale ragione che, memori del teatro degli affetti dell’opera settecentesca (metastasiana in particolare), ritenevano fosse essenziale cogliere, di ogni scena o aria, il senso drammatico, l’affetto per l’appunto, evocato dalla musica. Del resto, con le dizioni impastate e aleatorie che oggi vanno per la maggiore (e magari magnificate da taluni come “risorsa espressiva”), dubito che si sarebbe potuto comprendere anche solo il primo verso di un’aria.
Beh, se le parole non contano niente, tanto vale metterci un violino o un flauto al posto della voce, lo strumento infatti esegue le note con più precisione, intonazione, mordente… Che farsene della voce se le parole non servono?
Insomma, i brani di Stendhal come solito lasciano il tempo che trovano… basti pensare al modo in cui fa a pezzi la Colbran, chiaramente per ragioni di mera antipatia politica. Ben più significative, a proposito del problema della pronuncia (che evidentemente anche allora doveva essere un ostacolo che solo pochi fuoriclasse sapevano risolvere al meglio), sono le opinioni contenute nei più accreditati manuali di canto del Settecento e di tutto il primo Ottocento. Per esempio così sull’argomento sentenzia il Tosi:
“Dopo, che lo Scolaro si sarà impadronito francamente del Trillo, e del Passaggio il Maestro gli dovrà far leggere, e pronunziar le parole senza
quegli erroracci ridicolo d’Ortografia in cui molti tolgono a qualche vocabolo le due doppie consonanti per regalarne un altro, che le ha semplici.
Corretta la pronunzia procuri, che proferisca le medesime parole in maniera, che senza affettazione alcuna, sieno così distintamente intese, che non se ne perda sillaba, poiché se non si sentono, chi canta priva gli ascoltanti d’una gran parte di quel diletto, che il Canto riceve dalla loro forza; Se non si sentono, quel Cantore esclude la verità dell’artificio; E se finalmente non si sentono non si distingue la voce umana da quella d’un Cornetto, o d’un Haute-bois. Questo difetto, benché massimo in oggi è poco men che comune con notabile pregiudicio de’ Professori, e della Professione; E pur non dovrebbono ignorare, che le parole son quelle, che li fanno prevalere a Sonatori, quando sieno d’eguale intendimento. Il Maestro moderno sappia servirsi dell’avviso, perché la correzione non è stata mai tanto necessaria come adesso.
Gli faciliti quella franchezza, che si ricerca in sillibar sotto le note, acciò non intoppi, né vada tentone.”
Oppure Mancini, a proposito degli “affetti”:
“Un attore non potrà mai con naturalezza esprimere questi affetti, né con chiarezza farne conoscere agli spettatori gli effetti, s’egli non comprende la forza delle parole; se non sa il vero carattere della persona che rappresenta; e se non parla una buona Toscana favella, e sopra tutto una pronunzia esatta, chiara, e perfetta delle parole, non però caricata. Mi è stato riferito la diligenza e lo studio grande che faceva il celebre Pistocchi nell’insegnare ai suoi scolari, acciò la pronunzia fosse perfetta, del che ne veniva, che essi facevano intendere tutte le parole agli uditori, col far distinguere, quando occorreva di proferirle, certe lettere raddoppiate, come due tt, due rr, due ss, ecc…”
E per sbugiardare una volta di più ciò che scrive Stendhal, si consideri che i francesi per la chiarezza di dizione avevano una cura ancora maggiore. Consiglio di leggere ad esempio il trattato di Jean Antoine Berard, e come esempio di perfetto parlar cantando si ascolti il baritono Lucien Fugère oppure il solito Vanni Marcoux.
Visto il 22…..spettacolo emozionante, come non ne vedevo da qualche anno a Pesaro!
Ovazioni da stadio per Podles, Pratt e Spyres (…non uno scroscio di applausi ma di urla) a gratificazione di prestazioni quasi “circensi” (nell’accezione positiva del termine, vuoi per la musica, vuoi per le esecuzioni) come dovrebbe essere Rossini secondo me. Certo qualche difetto si trova, ma ci sono così tante cose belle da passare volentieri sopra i difetti, e lasciarsi emozionare. Questo vale sia per lo spettacolo per sé, sia per i singoli.
Anche l’idea registica non era male e sviluppata con coerenza, senza esagerare. È buffo che all’opera quasi si vada a vedere un film a questo punto!
La Pratt dal vivo (era solo la seconda volta che la sentivo dal vivo, dopo l’Adelaide) qui mi ha proprio convito, mi ha colpito soprattutto l’esecuzione della prima aria, mentre in audio avevo apprezzato di più la seconda (che confrontata con le uniche registrazioni disponibili…parla da sé!!). Pure molto simpatica nel firmare gli autografi!!
Un cast del genere poteva anche essere impiegato in un’opera più nota e più “bella”.
L’ultima replica, a cui ho assistito, è stata variata l’aria di Argene, in una misura tale che sembrava addirittura un’altra aria!
X Nicola: anche secondo me c’era una forma di amplificazione, dovuta alle scelte registiche, diciamo così, perchè – soprattutto nel primo atto – han fatto cantare alcuni recitativi, in alcuni brevi momenti, completamente di spalle al pubblico; c’è un punto evidentissimo di Argene, mi sembra dopo il duetto dell’inizio del I atto Baldassarre-Amira…. Al tempo stesso non credo che siano stati amplificati i cantanti nelle arie, che cantavano quasi tutte al proscenio, all’altezza delle barcacce!
Rispetto alla ripresa audio radiofonica il suono dei bassi era meno cavernoso e più “umano”. Queste riprese effettuate con i microfonini a bordo di ognuno danno un pessimo risultato; è secondo me un tema che potreste approfondire qui sul Corriere, magari coinvolgendo un ing. acustico e un elettronico….questi microfonini ovviamente captano il suono diretto del cantante, ma in sala uno spettatore ascolta il suono riverberato; ora, questo suono diretto di ognuno, una volta captato non verrà poi riverberato artificialmente (con gli esiti nefasti che sentiamo spesso alla radio…qui invento sulla base dei miei ascolti) prima di essere mixato con gli altri? In alcuni casi sembra vevngano fuori dalle caverne…..
Ieri sera han trasmesso anche in Piazza del Popolo il Tancredi in forma di concerto….il mio primo pensiero è stato: ma che variazioni….confusionarie!
dai, raccpntaci anche del Tancredi: fai lPinviato speciale per noi
Mah…ho un po’ di metus reverentialis….e poi ho sentito solo dei pezzi (le arie di Amenaide…quasi nulla di Tancredi !) in Piazza del Popolo, con la diffusione sonora nella piazza (venuta bene devo dire), i bambini che piangevano, le biciclette che sfilavano veloci….
In generale sono d’accordo che i cantanti si facciano preferire quando cantano nella loro lingua madre, ma il mio però è un discorso leggermente diverso, attinente al rapporto tra suono, emissione e parola nelle organizzazioni vocali degli odierni cantanti, più che alla mera correttezza di dizione, aspetto pure questo, peraltro, non trascurabile. Se un cantante ha una organizzazione vocale che non gli permette di articolare chiaramente la parola e di differenziare le vocali, il suo canto sarà del tutto incomprensibile sia che canti in una lingua straniera sia che che canti nella propria lingua madre.
E’ esattamente quanto ho cercato di ventilare nel mio – forse un po’ goffo – intervento; intervento per altro compreso appieno da Miguel, che riesce sempre a decifrarmi.
Certo, avrei dovuto specificare che la lingua madre di Larmore è l’inglese americano, ma ciò non avrebbe fatto differenza alcuna riguardo alle mie conclusioni.
Che la nostra adorata Teresa abbia operato a ben più alti livelli delle due signore in questione è cosa che solo un sordo dalla nascita potrebbe negare.
Giambattista ha scritto “Se un cantante ha una organizzazione vocale che non gli permette di articolare chiaramente la parola e di differenziare le vocali, il suo canto sarà del tutto incomprensibile”.
Ma questo è il minimo. Un problema di questo tipo comprometterebbe la dizione anche ad un madrelingua. Il non madrelingua che non difettasse in vocali o avesse problemi di articolazione, avrebbe comunque problemi di dizione e fraseggio nella lingua straniera.
Ora segui questo ragionamento, per dirti a volte… no… come stanno le cose diversamente in base a chi interagisce con chi e si capovolgono i parametri al cospetto dello stesso fenomeno:
A) Grande interprete straniera esegue un’opera italiana:
a) due melomani italiani insoddisfatti del fraseggio e dizione:
1) uno boccia la cantante in toto perché ha peccato nella più importante dei fattori per lui: il fraseggio e dizione e quindi espressione
2) l’altro, affascinato all’esteriore e le qualità muscolari e magari acrobatiche, elogia la cantante (ma quasi quasi la boccia, poiché è scaduta a causa della comunicazione in italiano)
b) due melomani stranieri rimangono estremamente soddisfatti dell’interpretazione:
1) uno è esaltato e la definisce addirittura diva dell’interpretazione di quell’opera italiana.
2) l’altro promuove l’interprete e addirittura ne critica l’interpretazione in base ad una sua visione interpretativa astratta.
(Tutti e tre, interprete e melomani stranieri, stanno fuori come un balcone perché non capiscono una (H) di italiano ed è come se discutessero di un’altra opera che non ha nulla a che vedere con quella originale italiana.
B) Discreta cantante italiana esegue un’opera italiana:
a) entrambi i melomani italiani esultano più di quanto non abbiano esultato all’altra recita con l’interprete straniera. L’italiana, nei limiti della sua vocalità, fraseggia e articola dando vita al personaggio “cantante parlante dialogante” sopratutto quando abbondano i recitativi parlati diciamo.
b) il melomane straniero rimpiange la sua interprete, (ma può tranquillamente piangere fiumi di lacrime. La sua bella interprete straniera, più intelligente di lui, sta cantando il proprio repertorio nella sua lingua nel suo paese riscuotendo grande successo).
Il melomane straniero giudicherà l’esecuzione dell’opera italiana da parte della famosa interprete straniera, migliore di quella della buona e/o discreta cantante italiana, contrariamente al giudizio dei due melomani italiani che preferiranno di gran lunga l’interpretazione appropriata dell’italiana… e così via..
Onestamente non sarei così categorico sull’essere madrelingua: il cantare sul fiato, e la conseguente “magia” di far passare oltre l’orchestra ogni singola consonante e vocale non c’entra con la corretta pronuncia del cantante, che può avere delle imprecisioni dovute al fatto che non canta nella sua lingua e quindi storpia alcuni suoni non per lacuna tecnica. Al netto dei “trucchi” usati nella pronuncia per motivi “estetici”. Personalmente sarei lieto di applaudire un siffatto cantante al giorno d’oggi, ma è merce molto più che rara.
Dove il cantante ha deficit linguistici, ci pensa la musica a dargli una considerevole mano; se poi ha una tecnica abbastanza salda da potersi permettere colori e sfumature adeguati al testo, sono disposto a perdonargli qualsiasi strafalcione… non butto certo via un Bjorling solo perché a volte si imbroglia in qualche parola, né spacco il disco della Carmen con Corelli (cantante che tra l’altro non amo) per il suo francese imbarazzante…
Vorrei inoltre far notare che i commenti ineccepibilmente documentati da Mancini vanno anche contestualizzati: il discorso sulla conoscenza esatta della lingua e della corretta dizione fa riferimento non tanto a questioni di ricercatezza tecnica, quanto a requisiti di pura conoscenza linguistica dell’italiano. Un bagaglio non certo comune a quei tempi.
Ribatto alcune tue frasi:
“Dove il cantante ha deficit linguistici, ci pensa la musica a dargli una considerevole mano”. (Non c’è musica che possa dare una mano ad un cantante che canta in “straniero”).
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“… se poi ha una tecnica abbastanza salda da potersi permettere colori e sfumature adeguati al testo, sono disposto a perdonargli qualsiasi strafalcione”. (Proprio qualsiasi no! Anzi, potrebbe scadere più di chi è inferiore a lui o a lei, vedasi la Podles che, sebbene le doti vocal – muscolari e acrobatiche, non esprime quanto a fraseggio italiano nulla).
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“Non butto certo via un Bjorling solo perché a volte si imbroglia in qualche parola”. (Allora. Stai forse parlando di un eccezione a cui si perdona in via del tutto eccezionale, ma del tutto eccezionale, quasi tutto?).
In conclusione … penso che il limite del cantante e del melomane (salvo eccezioni) è quello linguistico. Del cantante ne abbiamo già parlato. Il melomane è lo stesso limitato dalla lingua, perché finché si tratta della propria lingua e della seconda lingua (o massimo terza) che conosce (ma si presume una conoscenza, se non da madrelingua, quantomeno profonda, preferibilmente se si tratta di lingue per un italiano, ad esempio, neo latine (francese, spagnolo), per un inglese saranno quelle anglosassoni. Il melomane ideale in un certo qual senso è quello bilingue, magari che ha vissuto un sacco di anni in un paese e altrettanti anni in un altro, al punto da aver sviluppato una profonda conoscenza di ogni particolare di entrambi le lingue. Questo esempio di persone ci sono. Io ne sono uno. Conosco l’italiano praticamente da madrelingua e ne percepisco le più profonde cadenze linguistico – musicali o quasi, quindi mi rendo conto della resa “linguistica” del cantante che canta l’opera italiana, rimanendo all’italiano. Più o meno mi succede lo stesso per il francese. Appena la pronuncia non è in un impeccabile francese, bello, pulito, cadenzato come solo un francese può fare, me ne accorgo subito e credetemi … non c’è più difficile di rendere il francese in canto. Se sento opere in altre lingue (tedesco, lingue varie, ma anche lo spagnolo) già non giudico più, cosciente del mio andicap legato alla non perfetta percezione del “recitar cantando, dizione, espressività originale” di queste lingue e delle stesse poste in canto. Il discorso può andare avanti, avere sviluppi ma sembra complicato e bisognoso di riflessione. Riflettere sul perché un individuo (un cantante ecc.) riesca a diventare madrelingua di più una lingua (credo massimo due lingue, prendendo me stesso per esempio), laddove altri magari non ci riescano e così via insomma.
Importante rimane il “giudizio” che scaturisce quando si realizzano le due circostanze che io chiamo “magiche”: 1) grandi o bravi cantanti che cantano un’opera nella propria lingua 2) ascoltati da melomani appartenenti a quella stessa lingua. Non ci saranno più, o quasi, equivoci legati a “limiti” vari. N’abbraccio.
Trovo solo una parola per definire questo tuo “ragionamento”: LIMITANTE!
Secondo me invece la musica può dare una mano eccome e, anzi, spesso la pronuncia si piega a esigenze musicali proprio perché le sfumature della voce sono tanto importanti quanto il testo: è il caso dell’apertura/chiusura di alcune vocali a prescindere dalla corretta dizione, del raddoppio di consonanti ove ve n’è una sola, dell’arrotamento esagerato delle R o dell’attenuazione di alcune consonanti scomode al cantante. Tutte prassi molto antiche e tutt’ora usate dai madrelingua italiani. Non per nulla i brani ariosi del melodramma italiano raramente mettevano in moto l’azione, ruolo assegnato per lo più ai recitativi, dove certo la dizione la fa da padrona, come segnalato in precedenza. E infatti nei recitativi la musica “si ritira” – passatemi questa espressione – per far spazio a una maggiore chiarezza dell’eloquio.
Seguendo il tuo discorso alla lettera, taglieremmo fuori dal melodramma italiano generazioni di cantanti provenienti da paesi che non hanno alcuna tradizione operistica, eppure sono stati interpreti di un certo spessore. O vogliamo catalogarli tutti come eccezioni?
Un’altra via d’uscita al tuo ragionamento sarebbe quella di riprendere l’usanza di tradurre i libretti, ma oggi verrebbe bollata come pura “eresia”: tu che ne pensi a tal proposito?
Comunque il fatto che la pronuncia debba “piegarsi ad esigenze musicali”, o essere sacrificata ad esigenze vocali di copertura del suono, oscuramento ecc, è un limite del cantante e non certo un pregio. La capacità di cantare facendo comprendere all’uditorio tutte le parole è un metro importante per giudicare la bravura di un vocalista. Ripeto, se le parole non contano, tanto vale eliminare la voce e metterci un violino o un violoncello.
Mancini, i “trucchi” non sono solo espedienti per mascherare limiti tecnici, lo sono forse diventati oggi per ragioni che questo blog ha più volte giustamente sottolineato; un tempo l’alterazione della pronuncia, facilmente percepibile nei primi metri (quindi purtroppo captata chiaramente in alcune registrazioni) sortiva l’effetto di rendere più a fuoco il suono e più netta la dizione al di là del muro orchestrale: non va dimenticato che le consonanti non “viaggiano” come le vocali, né tutte hanno lo stesso peso all’interno della parola ai fini della comprensione della stessa.
E poi non capisco la sortita finale sul violino e violoncello: non esiste solo il bianco e il nero, il canto già di per sé usa un livello di grigio rispetto alla dizione di un attore di teatro (che non ha da preoccuparsi di fiati e intonazione) e i compositori, ripeto, ne erano ben consapevoli: fioriture, abbellimenti e passi acrobatici non aiutano certo la comprensione del testo, infatti in genere venivano usati su poche parole, spesso già dette in precedenza in modo più lineare, proprio per – scusate la semplificazione elementare – aggiungere qualcosa al testo che la nuda parola in sé non ha.
Quindi le parole contano, ma contano quanto la musica: e come tutto ciò che è in simbiosi, l’equilibrio tra le reciproche esigenze è di tipo dinamico, a volte una parte cede un po’ all’altra, per poi recuperare valore qualche attimo più tardi.
L’alterazione della pronuncia nei cantanti soprattutto lirici risponde all’esigenza di propiziare l’emissione su certe note critiche, come ad esempio quelle in cui avviene il passaggio di registro, sulle quali diventa difficile riuscire a pronunciare e differenziare le diverse vocali, risultando molto più comodo l’uso di vocali oscurate generalmente tendenti alla U. E’ però segno di bravura del cantante riuscire a superare l’ostacolo del passaggio senza bisogno di alterare la pronuncia. Il canto è questo: la parola intonata. La voce è fatta per questo, altrimenti, ripeto, basta una viola o un flauto.
Se il canto è esclusivamente parola intonata, allora lo Sprechgesang di Alban Berg e Arnold Schönberg ne è l’ espressione più compiuta.
Secondo me ha pienamente ragione Veriano. Il canto artistico è qualcosa di più della parola intonata, allo stesso modo in cui la danza classica è qualcosa di più del semplice camminare.
Il paragone con la danza classica ed il camminare se non ricordo male è di Celletti, il quale sosteneva che nel canto debbano adoperarsi solo suoni intervocalici e che la pronuncia del parlato non debba appartenere alla sfera del canto. Mi chiedo su quali fonti abbia verificato simili fantasie, e sopratutto come conciliasse tali convinzioni con la grande stima che nutriva per Schipa, massimo esempio di canto sulla parola, padre del detto “si canta come si parla”.
Rileggi ciò che scrive il Tosi:
“Dopo, che lo Scolaro si sarà impadronito francamente del Trillo, e del Passaggio il Maestro gli dovrà far leggere, e pronunziar le parole senza
quegli erroracci ridicolo d’Ortografia in cui molti tolgono a qualche vocabolo le due doppie consonanti per regalarne un altro, che le ha semplici.
Corretta la pronunzia procuri, che proferisca le medesime parole in maniera, che senza affettazione alcuna, sieno così distintamente intese, che non se ne perda sillaba, poiché se non si sentono, chi canta priva gli ascoltanti d’una gran parte di quel diletto, che il Canto riceve dalla loro forza; Se non si sentono, quel Cantore esclude la verità dell’artificio; E se finalmente non si sentono non si distingue la voce umana da quella d’un Cornetto, o d’un Haute-bois. Questo difetto, benché massimo in oggi è poco men che comune con notabile pregiudicio de’ Professori, e della Professione; E pur non dovrebbono ignorare, che le parole son quelle, che li fanno prevalere a Sonatori, quando sieno d’eguale intendimento.”
P.S. parlare di “canto artistico” è come parlare di “acqua bagnata”… il canto è uno e basta, se è canto è pure artistico, è un pleonasmo ribadirlo. Essenzialmente, cantare è intonare parole con la musica: il nocciolo è questo. Poi è ovvio che a partire dal nucleo essenziale si sviluppi molto altro…
Veriano afferma:
“Seguendo il tuo discorso alla lettera, taglieremmo fuori dal melodramma italiano generazioni di cantanti provenienti da paesi che non hanno alcuna tradizione operistica, eppure sono stati interpreti di un certo spessore. O vogliamo catalogarli tutti come eccezioni?”
(Guarda, secondo me, quando è così, cioè che raggiungono livelli di recitar cantando e dizione in perfetto italiano, per me, non possono essere che eccezioni. Diversamente sono cantanti non italiani che hanno cantato opere italiane e sono piaciuti a molti melomani).
Poi Veriano aggiunge:
“Un’altra via d’uscita al tuo (mio) ragionamento sarebbe quella di riprendere l’usanza di tradurre i libretti, ma oggi verrebbe bollata come pura “eresia”: tu che ne pensi a tal proposito?”
(Magari si riprendesse l’usanza di tradurli. Sarei uno dei promotori, sopratutto per quelle lingue molto distanti dal neo latino (nel mio caso). Una volta sentite in italiano, poi magari le sento anche in lingua originale in un reciproco stupendo apprezzamento. E poi c’è repertorio e repertorio operistico più o meno eseguibile nelle traduzioni ritmiche dei libretti. Se anticamente lo facevano mica erano scemi. Avevano capito questo molto bene. Il repertorio operistico russo lo apprezzo e capisco, e ho avuto accesso a esso grazie alle interpretazioni in italiano. E che interpretazioni. Solo un esempio così, al volo. V’invito a sentire l’Eugenio Onegin cantato in italiano da Amalia Pini, Rosanna Carteri, Eugenia Zareska, Giuseppe Taddei, Cesare Valletti e Raffaele Ariè, diretta in studio da Nino Sanzogno nel ’53. Un capolavoro d’interpretazione. Un capolavoro di fraseggio, di recitar cantando all’italiana e nel contempo una finestra per conoscere l’ineguagliabile capolavoro di Tchaikovsky per i non parlanti in russo. Il problema non l’eseguire le opere straniere nella lingua propria del melomane o ascoltatore, il problema è chi le esegue e come. Si deve essere Grandi Cantanti e Grandi Direttori e Orchestre per eseguire certe operazioni come quella delicata di eseguire opere straniere nella lingua propria. Mica è alla portata di tutti e di chiunque e ovunque poterlo fare! E ho fatto solo un esempio per tacere su altre impressionanti esecuzioni di opere straniere in italiano, una per tutto, per rimanere in Russia, la Kovancina di Mussorgsky cantata in italiano neanche a farlo a posta da uno di quelle eccezioni a cui si perdona persino la dizione e il fraseggio (completo anche in esse per altri motivi) ossia Boris Christoff (gli altri del casto: Mario Petri, Michele Malaspina, Amedeo Berdini, Mirto Picchi, tutti eccellenti fuoriclasse), diretta da Arturo Rodzinski che dirigeva il Coro e Orchestra di Roma della RAI, giusto per fare un altro esempio.
Che bollino pure “pura eresia” il tradurre libretti e interpretarli da lingua a lingua. Per me è un grande orizzonte che… ahimè… hanno precluso, regredendo laddove credevano di progredire in questo genere di spettacolo, anzi, di sublime arte.
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Perfetto e sommamente esaustivo l’ultimo e il penultimo ragionamento di Giambattista (*.*)
Riguardo alle puntualizzazioni di Mancini: non capisco perché parli di scurimento delle vocali in U, che più che un trucco è un’impostura, quando io invece ho appositamente parlato di consonanti a proposito di “trucchi”…
Concordo su Tito Schipa quale sommo dicitore, eppure… li sento solo io i trucchetti quali “le belle forme diSIogliea dai veli”? E la C dov’è? O per esempio in De Lucia, Ecco Ridente in Cielo… le H frapposte ad alcuni abbellimenti sulla vocale I o l’esasperazione della consonante N in parole tipo “momeNEto” o la completa omissione della N in “tormento”…
Ripeto, oltre l’orchestra non ce ne accorgeremmo, ma i microfoni prendono la voce a pochi metri e denudano il trucco, che è funzionale alla dizione nel canto, simile ma non uguale a quella del parlato…
Un’ultima nota sul “si canta come si parla” di Schipa: si parla in vari modi… quando una vecchietta parla sul balcone a un’altra vecchietta posta a molti metri da lei, “imposta” il parlato, più o meno come fa un vero attore di teatro, alterando anche leggermente la dizione. Un tempo questa maniera di parlare era molto comune, per ragioni così banali che non vale la pena elencarle; se vi è mai capitato di chiacchierare a tavola in un ristorante con un cantante della vecchia guardia, avrete notato che in tutto il locale non si sente che lui.. Oggi invece si tende a parlare in maniera più schiacciata, di gola, emettendo suoni che non devono varcare che pochi metri: la voce impostata viene subito soffocata nei bambini (“perché gridi?”) e questo modo di parlare non è esattamente vicino né al recitare (che presuppone voce impostata) né tantomeno al recitar cantando…
Infine, riguardo a Syrio; la domanda sulle traduzioni era volutamente provocatoria, in quanto anche io sono tra quelli che considera importante un approccio nella propria lingua per opere meno conosciute o magari in lingue e libretti ostici… Ovviamente un approccio non vuol dire che poi le si debba sentire SOLO in italiano, ma che quantomeno si abbia la possibilità di farlo… Però ogni volta che ho accennato a questa opzione mi hanno sempre guardato come un alieno o come un restauratore di preistorici vizi capitali…
Che una maniera di risolvere il passaggio sia quella di oscurare il suono è faccenda arcinota a chiunque, lo fa, bene o male, la totalità dei cantanti.
Il discorso sulle consonanti non capisco cosa vorrebbe dimostrare. E’ ovvio che si canta sulle vocali, l’abilità del vocalista sarà quella di imparare a pronunciare le consonanti in maniera netta ma fluida così da non rompere il legato.
Vuole solo dimostrare che la pronuncia si piega eccome alle esigenze musicali: musica e testo nel melodramma si intrecciano diventando qualcosa di diverso dalla somma di “parole+musica”; quindi, per tornare agli albori del discorso, anche un non madrelingua, con qualche stortura linguistica ma con tecnica salda, sfumature e colori adeguati a ciò che il testo vuole trasmettere, rimane a mio avviso un grande interprete.
Riguardo all’oscuramento, che giustamente identificavi come un tendere “vagamente” alla U, l’ho chiamata impostura in quanto è cosa ben diversa dal cercare l’aiuto delle vocali “miste”, che a seconda dei casi possono essere più scure ma anche più chiare… E questo non è un “trucco”, fa parte della tecnica vocale…
Veriano: “…quindi, per tornare agli albori del discorso, anche un non madrelingua, con qualche stortura linguistica ma con tecnica salda, sfumature e colori adeguati a ciò che il testo vuole trasmettere, rimane a mio avviso un grande interprete”.
Infatti, per me, questo grande interprete che dici te, è, appunto, l’eccezione che conferma la regola e cioè che tanti pur avendo queste qualità avranno una resa comunque artificiale, in cui cadono cantanti del calibro di Shuterland, che è un fenomeno del canto lirico in generale, ma non della dizione italiana né del recitar cantando in italiano (nemmeno ovviamente in francese). Vi sono invece quelli, rarissimi, a cui si perdona tutto, ma veramente tutto, e che hanno una proprietà tale da penetrare persino il “recitar cantando” in generale, proprio per una proprietà nella loro voce, versi e piegamento che ha dell’ultra raro, ma questi casi non sono praticamente nemmeno da prendere in considerazione né come metrica.
Usare le vocali miste per agevolare il passaggio! Orrendo! Tipo quei cantanti che cantano “con l’uovo in bocca” per un’intera recita!
Ma le vocali miste non c’entrano nulla con la voce non sfogata o con “l’uovo in bocca”… Non confondiamo una pratica abituale con la sua degenerazione o con altri difetti solo attribuibili al non corretto uso della respirazione.
Secondo me, per esempio, Kraus non cantava con l’uovo in bocca, eppure… http://www.youtube.com/watch?v=EcjLJ5kgfhQ
ehm… eppure cosa?! Tu vorresti dimostrare che nel canto la pronuncia deve “piegarsi ad esigenze musicali e vocali”, e poi mi posti come esempio Kraus, ossia uno dei pochissimi che possono vantare davvero una pronuncia chiara, nitida, sonora, di cui si può capire ogni sillaba?? I cantanti come Kraus dimostrano proprio che per cantare bene bisogna anche pronunciare bene, e viceversa. E, tra parentesi, è meglio limitarsi ad ascoltarlo quando canta, come insegnante è a dir poco discutibile, e questo video lo conferma.
Caro Mancini,
permettimi di dire che il tuo intervento mi sembra un po’ prevenuto: non ogni post deve forzatamente fare polemica o entrare in contrasto, esistono interventi che servono a chiarire o a fare da esempio rispetto a un concetto prima enunciato. E questo è il caso del mio ultimo intervento, che ha il solo scopo di fare un esempio di vocali miste, proveniente per l’appunto da chi risultava avere una dizione impeccabile, segno che la vocale mista non produce certo la sensazione che il cantante abbia l’uovo in bocca.
Dato però il puntiglio, mi duole farti notare altrettanto puntigliosamente che Kraus fa giungere alle nostre orecchie una perfetta dizione, ma se pronuncia A al posto di O nella parola SOL, questo vuol dire che non canta esattamente come parla (SOLE e SALE sono addirittura due parole con significato piuttosto diverso in italiano), ma appunto che tra pronuncia parlata e pronuncia cantata una qualche differenza c’è, ergo la pronuncia si piega in questo caso a un’esigernza musicale, quella di liberare correttamente la voce del corpulento ragazzo.
A me pare di usare solo argomenti logici per giungere a questa conclusione, che poi non mi sembra una grande scoperta. Se poi tu intendi il termine “piegare la pronuncia” come chissà quale orrenda impostura (tipo chi fa suonare tutte le vocali come “e” o altri pastrocchi di questo tipo), si potrebbe argomentare che dai alle parole italiane un peso semantico che in sé non hanno.
Sugli acuti deve accentuarsi l’apertura della bocca, in Kraus questa apertura avviene soprattutto orizzontalmente (l’allievo provando a seguire i suoi suggerimenti ovviamente spoggia e stecca… ih ih), ed è inevitabile quindi che la O diventi A. Ma non è sugli acuti che il cantante è chiamato ad articolare le parole. La pronuncia è ben intellegibile solo quando non viene alterata, basta la minima imprecisione e non si capisce più nulla.
PS: tra l’altro mi pare che se si voglia dimostrare che la pronuncia viene piegata nel canto ad esigenze musicali, il portare come ho fatto gli esempi di alterazione della dizione in Kraus, Schipa e De Lucia (ovvero tra chi aveva una dizione encomiabile) sia una pratica che abbia un che di logico… Ma dov’è la stranezza?!
Quando accenno al “canto coll’uovo in bocca” lo scrivo tra virgolette apposta. Con questa definizione mi riferisco proprio a quel tipo di canto intubato, dalle vocali miste in ogni sua altezza e sfera, in confronto al quale la (O) pronunciata (A) di Kraus in zona acuta è una cosetta da niente, robetta, nulla insomma. Cioè il pronunciare una vocale mista di Kraus in casi estremi come nell’esempio di YouTube, per uno che ha la dizione e il recitar cantando di Kraus, non è nemmeno da considerare “uso di vocali miste”. Io quando parlo del “canto coll’uovo in bocca”, mi riferisco proprio ad un altro livello di pessimo canto, in cui solo il tirar in ballo Kraus risulta un insulto al canto lirico. E Kraus non è il top se paragonato a certi Divi del recitar cantando. Immagina dover citar questi ultimi! Ah ah! C’è da farsi du’ risate!
Emettere vocali “miste” ossia intervocali non implica necessariamente che il suono sia arretrato e tubato. Altrimenti dovremmo concludere che, cantando in quelle lingue che a differenza dell’italiano presentano fonemi misti, la voce debba essere intubata. Il che è falso, se consideriamo quali eccellenti frutti hanno prodotto in passato le scuole di canto francesi o tedesche.
Il problema delle intervocali, quando utilizzate per alterare la vera pronuncia e propiziare l’emissione di talune note, è che distruggono la comprensibilità del testo. Un vero artista della voce dovrebbe saper emettere con la stessa qualità di suono tutte le vocali su cui è chiamato a cantare, mantenendone la corretta pronuncia. Usare suoni misti è un compromesso, uno stratagemma, un trucco che, se da un lato può facilitare l’emissione, dall’altro impoverisce il canto in termini di comprensibilità, teatralità, espressività.
Esattamente. Non aggiungo altro.
leggendo l’articolo del sciur donzelli non mi resta che condividere e quantomeno manifestare il rimpianto per la scarsa frequentazione dei nostri teatri da parte della Podles. Condivido le riserve che si possono avere per una prestazione resa a sessant’anni, ma la classe e il carisma della Signora Podles si sono potuti a mio avviso cogliere anche dalla trasmissione radiofonica della serata.-
Mi é piaciuta anche la Pratt che pure é stata come sempre impersonale, ma sentirla nell’aria che Beverly Sills inseri nell’edizione in studio dell’Assedio di Corinto é stata una grande emozione…piglio e fantasia non le mancavano certo. Ah il tenore…beh dovrò sentirlo dal vivo…mi pare abbia Merrit come fonte d’ispirazione, non credo avesse di quest’ultimo quelle accellerazione da 0 a 100 chilometri all’ora che ti incollavano al sedile (anzi alla poltroncina visto che non l’ho mai ascoltato in platea…)
più che Merritt direi Bruce Ford. Merritt sta su un altro pianeta per il signor Spyres.
caro albertoM non hon gradito le tue insinuazione contenute nel messaggio precedente che hai mandato. Ti pubblico questo per il momento, ma non illuderti di poter venire qui a scrivere e a fare illazioni squallide. di troll ne abbiamo tanti e metterti assime ai precedenti è questione di un attimo.
Rispetto a Merritt, Spyres è meno spregiudicato in acuto, certamente, ma la voce è assai più bella, l’intonazione più controllata e la pronuncia nettamente migliore.
e più piccola, e meno sonora, e meno squillante, e più imprecisa nelle agiilità….
non sono nemmeno paragonabili. nemmeno lo stesso imposto hanno.merritt con spyres non c’entra nulla, perchè spyres è un amateur, merritt un tenore con una tecnica professionale
Anche le stonature fanno parte della tecnica? Amateur sarà il mio panettiere, Spyres – che ho apprezzato molto in Otello e che non mi ha deluso in Ciro (ascoltato solo via etere, purtroppo) – è cantante con buona tecnica, ha voce decisamente più bella, è certamente meno funambolico nelle agilità, ma più controllato nell’emissione, per non parlare della pronuncia italiana, che seppur perfettibile mi pare più ordinata di quella di Merritt…non intorpolerà dei Re o dei Mi sopracuti, ma almeno non oscilla di mezzo tono.
Peraltro ammiro molto Merritt (anche se preferisco Ford, nel complesso), tuttavia certi difetti restano innegabili.
non è mica sempre stato stonato. lo è diventato. tu il grande merritt non lo hai mai sentito. spyres nonfarà mai quello che ha fatto merritt fin che é durato….a cantare così stai certo che no canterà molto. ti consiglio l’audio della Muette oscena di parigi dove urlava e calava e stonava alla grande. o del tell. ascoltalo lì poi mi dici… secondo me non sai di che parli. inn scala no si sentiva niente. a pesaro tutta la prima scena del dueto col soprano non ha fatto che stonare….
Merrit già nell’Ermione stonava ma prima no. Quando fece Benvenuto Cellini molti pronosticarono in lui una versatilità infinità. Non fu così dopo uno splendido Tell a Verona (successivo a quello di Milano dove -io vidi solo la prima- era straimpaurito e tarpato dal Maesctro) la sua parabola discendente fu vertiginosa contribuendo al buco generazionale nel panorama tenorile.-
Merritt è durato pochissimi anni…non raccontiamoci balle: l’ho sentito, dal vivo nel Tell, nella Donna del Lago, nei Vespri…oltre in diverse registrazioni. L’intonazione è sempre stata problematica. La pronuncia oscena. Appena fuori dal repertorio rossiniano era in pieno disagio (penso ad Elisir). Se poi vuoi dire che Spyres fa schifo a prescindere perché canta oggi e “osa” cantare Rossini…vabbé..non vale più la pena di discutere, perché tanto non ammetti opinioni differenti dalle tue. Prendo atto di “non sapere di cosa parlo” ed eviterò, per il futuro di intervenire o di scrivere in merito a certi argomenti. Buon proseguimento