La prima versione di Ariadne auf Naxos, presentata a Stoccarda nel 1912, è stata in occasione del suo centenario riproposta a Salisburgo. Poche sere fa notavamo come allestire spettacoli, che esulino in tutti i sensi dalla routine, sia compito e scopo principale delle manifestazioni festivaliere, che non vogliano essere solo vetrina e “parco giochi” di divi, talvolta, o supposti tali, ben più spesso. La rappresentazione, affidata al regista Sven-Eric Bechtolf, ha avuto il merito di ripensare e riconsiderare liberamente, ma senza forzature (o per essere più esatti, con forzature che rientravano nei canoni cui siamo ormai assuefatti), il lavoro di Hofmannstahl e Strauss, concentrandosi in maniera più decisa sull’opera del drammaturgo che non su quella del musicista. Come appare legittimo, trattandosi, almeno nella versione originaria, di un testo teatrale all’interno del quale viene inserito, fra altri divertissement, un’opera.
Bechtolf ha fatto della commedia di Molière, convenientemente sfrondata, un’evocazione proposta da Hofmannstahl alla contessa Ottonie von Degenfeld-Schonburg, brillante vedova da lui vanamente (ma il punto è dibattuto) corteggiata per lungo tempo. Ai due piani di finzione previsti dagli autori (i personaggi di “Ariadne” e l’entourage di Monsieur Jourdain) se ne aggiungeva quindi un terzo, che si mescolava liberamente all’azione (segnatamente nel prologo recitato) e rifletteva con parallelismo ovvio ma non inefficace l’attrazione erotica, nucleo del duetto che conclude l’opera. Nella bella scena liberty di Rolf Glittenberg, i personaggi si muovevano agilmente fra abiti primo Novecento, parrucche settecentesche e qualche caduta di gusto (i costumi delle maschere, i bigodini – in altri tempi avremmo avuto, al massimo, una retina – e la mise leopardata riservata a Bacco, relitti di pianoforte a evocare con poca fantasia le rocce dell’isola deserta) e l’insieme, pur non brillando per originalità o particolare varietà di idee, funzionava (anche grazie alla recitazione spigliata di tutti gli attori e di molti dei cantanti) come un meccanismo perfetto, frutto di una riflessione sul testo che non puntava a sconvolgere o proporre chissà quali rivelazioni sul teatro di Hofmannstahl (o sulla sua vita privata), ma più banalmente a presentare in maniera sicura e professionale un testo, forse più ambizioso che risolto, ma ugualmente interessante rispetto alla versione definitiva posta in musica da Strauss. E proprio nel prologo, che comprende le musiche di scena per “Il borghese gentiluomo”, Daniel Harding, che sostituiva l’annunciato Riccardo Chailly, ha trovato i momenti più felici della serata, fondendo alla perfezione vivacità e raffinatezza, optando per un suono asciutto che ben si adattava alla grazia parodistica e all’umorismo bonario con cui Hofmannstahl ripensa la vicenda del goffo e presuntuoso Monsieur Jourdain (qui interpretato dall’attore viennese Cornelius Obonya). La bacchetta ha brillato meno nella successiva “Ariadne”, opera musicalmente sontuosa ma un poco monocorde, in cui occorre un’energia maggiore e un’autentica dimestichezza con il repertorio wagneriano, che costituisce, come modello di “opera seria” imperante ai principi del secolo scorso, il referente privilegiato per la scrittura orchestrale e vocale adottata da Strauss.
La protagonista, Emily Magee deputata specialista wagneriana occasionalmente prestata al teatro pucciniano, ha proposto nell’enfio e raschiato registro grave (eminentemente sollecitato dalla parte già nell’introduzione) una parodia dell’anziana Fedora Barbieri, tanto riuscita quanto involontaria. Al centro la voce è caratterizzata da un bel (si fa per dire) “buco” che impedisce un legato degno di questo nome e prepara una salita agli acuti, che si risolve in suoni fissi e stonati. E bastano i si bem e la nat che concludono il primo monologo a dare la caratura di una cantante, che pure vanta in repertorio personaggi come Tosca e Minnie, per i quali la sicurezza in alto è o dovrebbe essere un elemento essenziale. Sempre che non si voglia sostenere che si canta con le intenzioni e non con la voce. E anche sulle intenzioni ci sarebbe molto da discutere, atteso che questa Arianna non riesce, per limiti tecnici, a differenziare nel canto l’amarezza verso Teseo, la disperazione e quindi la rassegnazione, la gioia per l’arrivo di quello che considera il messaggero della Morte e successivamente l’estasi sensuale, che corona il duetto finale.
La Magee era in questa abulia perfettamente assecondata dall’indiscusso divo della serata, Jonas Kaufmann. La parte di Bacco non passa un si bemolle, ma insiste sovente sul passaggio superiore di registro, come nelle invocazioni fuori scena “Circe!” (peraltro Kaufmann era, a questo punto, già entrato in scena) e più ancora nella fase conclusiva del duetto, ad es. su “als sich in Flammen mein Vater ihr zeigte”. In questa zona la gonfia e bitumata voce del tenore, incapace di modulazione in tutta la gamma, si converte decisamente in un latrato, precludendo in questo modo al giovane dio tanto l’entusiasmo dell’adolescenza quanto il carattere regale dell’espressione. E tralasciamo le urla che si producono quando la tessitura sale anche solo di poco, come nella frase “Dann sterben eher die ewigen Sternen”, che attacca sul fa3 e tocca due volte il la bemolle acuto, o i suoni rauchi e ingolati in prima ottava alle parole “Sprach ich von einem Trank”, in cui il personaggio canta o dovrebbe cantare, con evidente riferimento a Tristano. La difesa d’ufficio parlerà di stanchezza da superlavoro (sabato sera Kaufmann è stato chiamato a sostituire Beczala, ufficialmente indisposto, nella Bohème), ma non certo per la prima volta udiamo, da parte del massimo tenore lirico spinto dei nostri giorni (volendo dar credito alle riviste del settore) questi suoni, negazione del canto lirico e, per conseguenza, di ogni possibilità espressiva nell’ambito del teatro in musica.
La parte di Zerbinetta è, in questa prima versione, più lunga (due interventi solistici aggiuntivi) e se possibile ancora più complessa rispetto a quella definitiva. L’aria, in particolare, è nella sezione conclusiva alzata di un tono, prevede due incursioni al fa diesis sovracuto e una spettacolare cadenza conclusiva, verosimilmente suggerita all’autore dall’audizione della prima interprete, Margarethe Siems. A Elena Mosuc va il merito di avere affrontato un ruolo così oneroso. Qui però finisce il merito e iniziano i problemi, perché la voce traballante, acidula e senescente (in una cantante che non tocca la cinquantina) dovrebbe suggerire in primo luogo alla diretta interessata un diverso ritmo di lavoro e più ancora un deciso ripensamento del repertorio. Bastava udire la Mosuc nel prologo recitato (ma in cui Zerbinetta, per ragioni ignote, canta anziché parlare) per avvertire difficoltà e stridori diffusi già su un semplice la bemolle acuto. Il pur larvale registro medio è, a conti fatti, quello meglio conservato, mentre sulle note che preparano il passaggio superiore e più ancora sui primi acuti si avverte l’impossibilità di eseguire le agilità in modo fluido (con conseguenti “intoppi” e ritardi nell’esecuzione delle fioriture ad es. nella cadenza al punto 130 in partitura) e di cantare piano e legato senza che la voce si spezzi o dia luogo a suoni schiacciati, sovente anche stonati, mentre per toccare le note estreme (peraltro emesse con regolari fissità, come nel mi naturale in chiusa dell’aria) la cantante è costretta a ricorrere a quei portamenti, che Edita Gruberova sembra avere reso obbligatori per tutte le cantanti di coloratura a lei successiva. Purtroppo, le presunte eredi non sembrano avere appreso dalla cantante slovacca la salda tecnica di respirazione, che consente anche in età avanzata di portare a termine, se non vittoriosamente, almeno senza clamorose disfatte le proprie sfide, anche quelle che sulla carta parrebbero destinate a fallire in partenza.
Male (ma non peggio dei tre succitati) gli altri cantanti.
Richard Strauss
Ariadne auf Naxos (versione 1912)
Ariadne – Hilde Zadek
Zerbinetta – Ilse Hollweg
Bacchus – Peter Anders
Harlekin – Douglas Craig
Scaramuccio – Alexander Young
Truffaldin – Bruce Dargavel
Brighella – Murray Dickie
Najade – Maureen Springer
Dryade – Majorie Thomas
Echo – April Cantelo
Royal Philharmonic Orchestra
direttore – Sir Thomas Beecham
Edinburgh International Festival
23/08/1950
Sottoscrivo. Harding e Wiener giustificherebbero ancora una gita a Salisburgo. Kaufmann un latrato continuo e indecente. Mosuc, poverina, una parte troppo impegnativa per le sue condizioni di respirazione e di impostazione. Regia e allestimento molto carini, per niente invasati e/o schizofrenici…, che a livello scenico presentavano un gradevole sguardo di insieme, e non un pugno negli occhi come altri allestimenti recenti…
Vero che questa Ariadne vantava una direzione d’orchestra di tutto rispetto con idee chiare e ben eseguite, diversamente da Gatti, vero che il mestiere di Bechtolf è emerso nella cura dei dettagli e dei movimenti scenici, tuttavia, nella sostanza le due produzioni si salisburghesi si assomigliano in quanto concepite con identico criterio, quello di creare un evento mediatico con cast di richiamo e regie innovative senza badare a costi e ma neppure a qualità. Concordo con la recensione di Antonio, la Magee era improponibile non solo per la voce disastrata ma per l’assoluta mancanza di fraseggio, la Musuc in tale difficoltà di fiato, gli acuti spinti, fissi e gridati, le agilità pesanti da farci rimpiangere la ormai mummificata Gruberova, poi, del tenore tonsillare inutile ridire…. Peggio con Bohème, senza la direzione felice di Harding, non ho resistito ed ho spento alla fine del secondo atto, spettacolo privo di suggestioni e incanti, canto pessimo.
Non so, è vero che Bechtolf non mi ha convinto fino in fondo, tuttavia non ha stravolto il testo e ha anche aggiunto qualche spunto interessante. Coi cantanti giusti (non dico perfetti, ma semplicemente adeguati alle rispettive parti) e una direzione un po’ meno “british” sarebbe stato un signor spettacolo, come se ne vedono raramente (difatti…).
Caro Antonio, sono stata sommaria e quando mi riferivo alla mancanza di qualità intendevo parlare del canto. Ho trovato lo spettacolo di Bechtolf ben realizzato anche se non ne ho apprezzato sempre le idee, vedi gli inserimenti dei personaggi delle opere di Strauss, e con la direzione ha rappresentato l’unica attrattiva, per me, della serata.