Non è un convento, né tantomeno un luogo di culto, quello in cui si aggirano Annick Massis e Massimo Giordano: è piuttosto un rivenditore di condizionatori d’aria di seconda mano e loro vestono i panni di due poveri commessi impacciati, goffi, e parecchio nervosetti.
E di aria ne circola molta nel duetto: aria condizionata di quelle che provocano sciaguratissime sinusiti e blocchi muscolari al collo.
Detto che lui canta tutto di gola, tutto rigido, tutto isterico, tutto fortissimo e al limite dell’intonazione resta da analizzare lei, la Massis, una delle carriere recenti, tra le più imperscrutabili dell’orizzonte operistico.
Timbro comunissimo in cui l’inconsistenza del colore la fa da padrone, voce sostenuta da appoggio pericolante e da fiato affetto da asma che fa traballare tutta la linea di canto fino a spezzarsi più volte e sconfinando con il parlato più estroverso già dal Sol centrale; registro grave non pervenuto, quello centrale debole, fioco, registro acuto tendenzialmente affetto da vibrato e calante di intonazione. E’ il trionfo dello “slegato”.
E l’emozione? Ma quale? I diminuendi di “Oui… C’est moi!” sono parlati, i legati prescritti a “Oui! Je fus cruelle e coupable” avrebbero bisogno urgentemente di una sarta, il Mi sul primo rigo lo sente solo lei, il crescendo delle frasi successive è di monotonia lapidaria. Si, cerca di rispettare le forcelle, ma solo quelle che prevedono un rafforzamento del suono quando la scrittura si inarca verso l’acuto; il tempo agitato e le richieste di infondere disperazione nel canto per donargli quel senso di supplica tesa e sensuale si trasformano nella richiesta di andare nel retrobottega a controllare se è finito l’ultimo ventilatore; le frasi che introducono “N’est-ce plus ma main” che vorrebbero un suono in piano sono sostituite da una specie di trillo senescente ed il resto compresi i brevi vocalizzi, più che sedurre, sono il risultato di troppa aria condizionata; la voce manca, si parla tanto, l’asma aumenta, i colpi di glottide aiutano ogni tanto a tenersi su ed il finale in cui pare esalare l’ultimo respiro è un inno al Parkinson vocale. Basta così!
Spostiamoci in Francia dove ci accoglie nella Église de Saint-Blaise di Vichy la “Manon” di Nathalie Manfrino, deliziosa e vibrante di gioventù.La voce prima di tutto: il timbro è da soprano leggero, fresco, dalla naturale dolcezza che quindi calzerebbe come un guanto al personaggio onde definire una Manon credibile: il colore è chiaro, l’estensione ed i fiati sono controllati, la mezza voce è padroneggiata, le tantissime intenzioni espressive (sue e di Massenet) utilizzate con molta intelligenza; eppure la voce è minata da una fragilità che “sporca” la linea di canto facendola vibrare non poco al centro: colpa di un appoggio perfettibile, di un passaggio risolto male in quanto appena sopra al Fa iniziano i dolori con note dalla sgradevole fissità che pur se trasformati in pianissimi risultano o crescenti o calanti oppure vetrosi e oscillanti, mentre in basso la voce si assottiglia fino a scomparire quasi.Ha il pregio, la Manfrino, di impegnarsi nell’inseguire tutte le prescrizioni previste in partitura: certo siamo al “vorrei, ma non posso”, poiché si paga il pegno di suoni raggiunti, ma non dominati a dovere e di un legato che vorrebbe essere qualcosa di più, ma che il vibratino non permette la piena realizzazione.
E allora se dobbiamo fare a meno del Legato, ci potremo accontentare con la forcella onorata nella frase discendente “Ah! Rappellez-vous tant d’amour” e del pianissimo sul rallentando successivo, oppure la compita disperazione che investe “Hélas! L’oiseaux qui fuit” anche se i La ed i La bem che si trova ad affrontare, anche se smorzati o camuffati da pianissimi sono strazianti o quando la frase si inabissa al Mi o al Re sotto il rigo la voce, pur udibile, perde mordente e si ingrigisce.
Molto ben riuscito l’ “Ecoute-moi! Rappelle-toi” che introduce “N’est-ce plus ma main” che si concentra sull’emissione di un’unica nota, il Do 4, emesso sempre più dolce, sempre più in rallentando, sempre più in pianissimo fino ad una nota coronata che introduce l’Andante dell’aria con un effetto che davvero ci immerge in un’aura sensuale nella regione centrale della voce della Manfrino. I problemi arrivano dopo, poiché se l’interprete è attenta e sensibile, la cantante è deficitaria a causa del Legato trascurato, delle note dal Sol4 in poi, in cui la voce diventa una lama affilata e dolorosa come il semplice vocalizzo che segue che risulta un po’ arruffato.
Con la Manfrino ci possiamo accontentare delle intenzioni… per ora!
La Manon della Fleming non è la fanciulla frivola immaginata da Prévost e Massenet: la Manon della Fleming è l’incarnazione di Madame de Saint-Ange de “La Philosophie dans le boudoir” del Divino Marchese de Sade, impegnata a corrompere l’animo umano con enfatici discorsi, grandi evoluzioni tra i canapé, sevizie di varia raffinatezza e inebrianti bottiglie di liquori.
Dimenticate la partitura, il libretto, il romanzo, il francese, la trama, TUTTO: la Fleming è oltre da tutto questo, ed è deliziosamente irrecuperabile!
La bella Renée sovrappone la SUA Manon a tutto: via la ragazzina, avanti una donna matura, matronale, dal timbro ingolato, cremoso, miagolante peggio di una gatta in fregola, oltre la soglia del lezioso, del costruito, del manierato, dell’enfatico, ogni parola che le sgorga dalla gola deve esprimere non sensualità, ma sessualità, non desiderio, ma perversione, non disperazione, ma blasfemia, non Romanticismo (nemmeno Decadentismo), ma Verismo, il più a buon mercato, non estasi, ma ebbrezza a parecchi volumi.
E allora non ce n’è per nessuna; nel 2008 si presentò al Gala del Met nel massimo fulgore del suo “divismo”: il terzo “Oui, c’est moi” è biascicato, il secondo “Oui” e “Rappellez-vous” con le vocali spalancate la gattona inizia a far le fusa e ormai travolta dal personaggio scambia “cruelle” con “coupable”; è l’unica delle tre cantanti analizzate che riesce a far udire chiaramente la frase centrale “Si je ne repetais”, ma per paura di smentirsi rantola amabilmente “Est-ce que tu n’aurait pitié”; quando arriva ad “Hélas” farfuglia parole innominabili, allarga nuovamente all’inverosimile le vocali, biascicandole pure, di “Pardonne moi”, “Ecoute-moi” e “Rappelle-toi”, trasforma “N’est-ce plus ma main” in un sussurro stremato; il La di “Tout” si trasforma in un miagolio sinistro, meglio allora i Sol ed i La decisamente più cristallini; successivamente per la gioia dei fans ha una crisi orgasmica, un momento tra i più alti e poetici che prepara alla rottura del fiato della scena successiva; il vocalizzo le viene invece bene stranamente, dando dolcezza ad ogni nota, ma per paura di far troppo poco conclude l’aria buttandola in Verismo.
I suoni poi che introduce nella ripresa sconfinano con la blasfemia o con una serie di sgommate di gomme lisce sull’asfalto, e ciò ci conduce ad un finale ad alto contenuto alcolico!
Certo, nel 2001 a Parigi è leggermente più in forma rispetto alla serata del Met: anche qui l’ingresso è biascicato, il Fa di “Mais repelle-vous tant’amour” ed il La della ripresa non sono un esempio di fermezza; la compessa frase “Hélas” viene espressa in maniera più morigerata ed attenta nel dare peso al significato musicale delle parole senza enfatizzarle con effetti da Gran Guignol; la successiva e limpida frase “D’un vol désespéré” e più curata, libera e quindi esprime meglio la tensione drammatica vissuta da Manon, addirittura su “Rappelle-toi” onora il pianissimo prescritto; l’aria purtroppo è sempre miagolata fino al diabete ed infatti i La ed i Si naturali hanno più d’un sospetto di fissità e di poca solidità, poi i portamenti aggiungono altro zucchero fino alla saturazione; eppure Renée è più trattenuta, l’espressività è meno caciarona ed esteriore, ma la femminilità è troppo esposta, insistita e debordante.
Dei due partner meglio Marcelo Alvarez nel 2001, ancora in grado di cantare dignitosamente, che Ramon Vargas parecchio sforzato, nasale e “capriccioso”.
Rimane in entrambi i casi una roba divertentissima!
Annick-Massis-Massimo-Giordano
Con piacere apprendo che il ‘Fleming-Vargas’ è un ‘Fleming-Alvarez’ certo non per lei che, con i suoi miagolii e le vocali colorite in modo felino, ho sempre mal sopportato, ma per la freschezza di voce del tenore.
Mai sentito Massis o Manfrino dal vivo ma immagino soffrano di ‘modernitite’ al punto che forse sarebbe meglio non sperare di trovare una nuova Sills!
Nel caso della Massis una “nuova Strills” 😉
la Manfrino l’ho ascoltata dal vivo qui al Regio di Torino è mi ha fatto un buona impressione,mi ricordo che anche Donna Grisi ne parlò bene nella sua recensione
l’opera era Thais..
Secondo me è un buon elemento, ma dovrebbe raffinare il legato e curare il registro acuto.
L’interprete è molto sensibile e onora con gusto gli incisi espressivi segnati in partitura.