Le nove sinfonie di Beethoven: capitolo III. Il Beethoven italiano.

Il nuovo capitolo di questa piccola rassegna beethoveniana, è dedicato ad un argomento difficile e particolare: il cosiddetto Beethoven italiano, ossia le avverse fortune di Beethoven in Italia. L’interpretazione beethoveniana, nel nostro paese, infatti, ha faticato, e fatica tuttora, a trovare una sua propria identità (non essendo sufficiente la nazionalità del direttore d’orchestra a definirla: a scanso di equivoci premetto che la mancata inclusione di Claudio Abbado trova la sua unica ragione nella sostanziale estraneità del direttore – per storia personale e sensibilità – alla tradizione italiana). La penetrazione e l’assorbimento nel nostro tessuto musicale, delle opere di Beethoven (in particolare del corpus sinfonico) sono stati lenti e difficili, segnati da diffidenze, incomprensioni, ritardi ed esasperazioni. Le ragioni sono molteplici, anche se possono riassumersi in tre principali fattori causali. Innanzitutto l’aspetto tecnico: in Italia, sino all’ultimo quarto del XIX secolo, non esistevano orchestre e interpreti in grado di affrontare con consapevolezza il repertorio beethoveniano (e in genere ogni costruzione strumentale complessa che richiedesse qualcosa di più rispetto ad un mero accompagnamento al canto: Donizetti, Bellini, Verdi, Rossini, e prima di loro Cherubini e Spontini, furono costretti ad “emigrare” – in Francia e in Austria – per realizzare i frutti più maturi del loro genio musicale). Il nostro, infatti, fu l’ultimo paese in cui si affermò il ruolo del direttore d’orchestra: mentre in Germania o in Austria la sua funzione era ben definita fin dai primi anni dell’800 e già contava grandi nomi e grandi tradizioni, da noi  l’orchestra era ancoraguidata dal primo violino (quando non dal compositore al cembalo) e tale situazione rimase sostanzialmente inalterata sino agli anni ’80 del secolo. Lo stato della musica strumentale in Italia viveva allora, una fase di forte decadenza – rispetto agli splendori del secolo precedente – schiacciato da una parte dall’incapacità di rinnovarsi nelle forme e nel linguaggio, dall’altra dal monopolio che l’opera – o meglio il melodramma – esercitava sull’intero mondo musicale della penisola. Proprio la centralità dell’opera è il secondo motivo del ritardo nella diffusione di Beethoven nel nostro paese. L’800, in Italia, è l’epoca del melodramma che invade con centinaia di titoli improbabili, i teatri della penisola: ogni città – piccola o grande – aveva il suo teatro d’opera e la sua stagione e un pubblico che pretendeva titoli sempre nuovi per poter applaudire i suoi cantanti favoriti. Comporre musica era un mestiere – anche redditizio – e i giovani appena usciti dai Conservatori (dove svolgevano regolari studi di armonia e contrappunto, del tutto assimilabili ai programmi svolti dai loro colleghi nel resto d’Europa) si affrettavano a “dimenticare” gli insegnamenti ricevuti per dedicarsi ad un artigianato spinto con ritmi da catena di montaggio, scrivendo gli accompagnamenti per le volatine e i rondò delle primedonne dell’epoca: fulcro del sistema, infatti, era il cantante ai cui capricci tutto veniva sacrificato. Tra gli applausi del pubblico, che proprio questo si aspettava. Lo spostamento del baricentro musicale dallo strumento alla voce, comportò il disinteresse verso la formazione di una generazione di esecutori che potesse confrontarsi con altri mondi musicali (che richiedevano specifiche abilità tecniche) e la superfluità del repertorio sinfonico, che, semplicemente, non interessava al pubblico del tempo. Il terzo motivo – al contempo effetto e causa dei due precedenti – va individuato nel fondamentale conservatorismo e tradizionalismo del mondo musicale italiano, ancora legato alle forme del secolo precedente, impermeabile quasi del tutto agli sviluppi dell’estetica romantica, e inchiodato ad un culto delle convenzioni che si traduceva in mero formalismo (modello rossiniano, nell’opera buffa, e avanzi dell’opera seria metastasiana): le poche eccezioni erano costrette ad emigrare per conquistarsi maggiori libertà espressive. In una situazione del genere non stupisce come nel 1827, la notizia della morte di Beethoven e il resoconto dei grandiosi funerali a Vienna, vennero accolti con indifferenza e meravigliata curiosità: pochissimi – anche tra i musicisti – conoscevano il nome del compositore. Del resto le sue opere iniziarono ad essere eseguite con una certa regolarità solo dopo il 1880. Mentre nel resto dell’Europa si diffondeva il culto beethoveniano (e addirittura venivano fondate orchestre allo scopo di eseguire al meglio il suo corpus sinfonico: i Wiener Philarmoniker vennero fondati da Nicolai proprio per questo), l’Italia restò ai margini. Le prime opere che penetrarono – e che per lungo tempo furono le uniche eseguite dell’autore – appartenevano al periodo giovanile ed erano quelle più riconducibili ad un’estetica settecentesca e formalmente conservatrice: i primi Quartetti (l’Op. 18), certa musica da camera (il Settimino, Op. 20 e gli ensemble per archi e fiati), le prime sonate, l’oratorio Christus am Ölberge, la Prima Sinfonia… Lavori, dunque, in cui si ravvisava – anche scorrettamente – la sola accademia e il rispetto per le buone regole tradizionali. Le prime esecuzioni della Settima e dell’Eroica avvennero solo nel ’33, a Firenze, mentre la Quinta dovette aspettare il 1843: in entrambi i casi le opere vennero eseguite in modo semidilettantesco, da parte di orchestre inadeguate che spesso leggevano a prima vista, di fronte ad un pubblico disinteressato e dileggiante. Non mancavano, poi, le rielaborazioni più improbabili (in un mondo musicale in cui il cantante non aveva alcuno scrupolo nel tagliare, variare, alterare senza alcun rispetto per l’autore, che si limitava a tollerare facendo buon viso a cattiva sorte, ancora meno ritegno poteva esserci nel trattare un repertorio che, sostanzialmente, non interessava a nessuno): si racconta, nel 1845 a Firenze, di assemblaggi fantasiosi di brani da sonate pianistiche, quartetti, trii trascritti per grande orchestra e spacciati per “musica di Beethoven”. Ad un certo punto le cose cambiarono: la prima esecuzione italiana della Nona Sinfonia (nel 1880! Più di 50 anni dopo la prima) segna la svolta. Almeno dal punto di vista della consapevolezza esecutiva (con compagini finalmente all’altezza: soprattutto Torino e Bologna), perché la battaglia critica “contro” Beethoven andrà avanti. Dai conservatori ad oltranza che ravvisavano in Beethoven un cattivo uso delle forme, ai danni causati dall’idealismo crociano (che tanti disastri ha causato e causa ancora nella nostra critica letteraria e artistica) sino alle esasperazioni nazionalistiche e scioviniste che si piccavano di trovare improbabili derivazioni da semisconosciuti autori italici dell’epoca da cui Beethoven avrebbe copiato e attinto a piene mani (discorsi analoghi si sentirono sino agli anni ’60 del ‘900 in occasione della rappresentazione di opere di Mozart, viste con sospetto dai pubblici più tradizionalisti o eseguite – mal volentieri – al solo scopo di mostrarne la presunta inferiorità rispetto ad una qualsiasi operina di Paisiello o Cimarosa). Altri si concentrarono, invece, nella demolizione di intere parti del suo catalogo – soprattutto l’ultima, ritenuta una bizzarria antimusicale – sino ad emettere sentenze inappellabili di condanna nei confronti dell’autore che “si ostinò a scrivere anche dopo aver esaurito l’ispirazione” o dei suoi ultimi capolavori: la Nona, ad esempio, fu liquidata come “imperfetta per vizio di ispirazione”. Sul fronte opposto – anch’esso, però, limitato ad una porzione soltanto del suo catalogo (il periodo centrale: le ouvertures Coriolano o Egmont, l’Eroica, la Quinta Sinfonia, la Sesta o la Settima, l’Imperatore, l’Appassionata o Al chiaro di luna…) – si assiste ad una esaltazione (sempre di matrice crociana) del carattere titanico di Beethoven, esasperando la visione romantica di Hoffmann, Grillparzer o Brentano, sino a trasformarlo in un epigono del ribellismo individualista o personificazione del romanticismo più grandioso. Né mancarono le interpretazioni “vitalistiche” incoraggiate – in epoca fascista – a rinvenire nel compositore un tratto anti germanico e anti romantico, in nome di una visione fortemente “volontaristica” (venne definito il più virile e mediterraneo dei compositori). Questo scontro ideale (sostanzialmente fuorviante), il ritardo e la difficoltà di assorbimento, portarono, come diretta conseguenza, alla mancata nascita di una vera e propria scuola interpretativa nazionale dedicata a Beethoven: non è un caso che i direttori italiani che hanno affrontato il corpus sinfonico l’abbiano svolto all’estero e con orchestre straniere. Questo ha portato, oltre ad un numero ristretto di testimonianze discografiche, ad un atteggiamento di “minorità” rispetto a tradizioni esecutive ormai codificate. Si nota, infatti, una sorta di cautela in Toscanini, De Sabata, Cantelli e Muti, nell’affrontare le Nove Sinfonie, quasi sentissero la necessità di trovare un punto d’appoggio, un precedente, un’auctoritas a cui rifarsi e a cui ricondurre le proprie scelte interpretative. Rinunciando all’originalità, però, si rinuncia anche ad una serie di suggestioni che proprio le particolari condizioni della storia musicale del nostro paese avrebbero potuto suggerire: paradossalmente, infatti, il Beethoven italiano è assai poco “cantabile”, non riflette, cioè, la lunga e gloriosa tradizione operistica nazionale. Eppure di spazio ce ne sarebbe stato: si pensi al distaccato umorismo dell’Ottava con le sue parodie di gusto classico che ben poteva suggerire un approccio rossiniano. O gli abbandoni malinconici di Bellini o l’ampio lirismo di Puccini. Nulla di tutto questo traspare nel Beethoven italiano, quanto piuttosto, il tentativo di “non sfigurare” di fronte alla tradizione austriaca e tedesca (nelle sue diverse accezioni: dal classicismo viennese al gusto romantico e tardoromantico). Il risultato è un Beethoven di seconda mano. Non si può non partire da Arturo Toscanini: direttore feticcio nell’italico immaginario collettivo, padre padrone dagli incontenibili furori, dittatore del podio con  fama di esegeta verdiano (di cui costituirebbe addirittura la “cassazione”) e con le carte in regola nel curriculum di antifascista (quello schiaffo che gli fece saltare tutte le fasi preliminari nel processo di canonizzazione). Di Toscanini restano due importanti integrali: entrambe realizzate in America con orchestre americane, ma piuttosto differenti l’una dall’altra, riflettendo periodi storici di diverso travaglio (l’esilio, prima, e il dopoguerra, poi). Infatti mentre il ciclo “ufficiale”, inciso in studio tra il ’49 e il ’53 con la NBC Symphony Orchestra, mostra una lettura piuttosto vigorosa, con solide accentuazioni ritmiche, ma tempi non velocissimi (in una lettura sostanzialmente romantica che richiama la tarda tradizione viennese), le esecuzioni dal vivo a New York nel 1939, rivelano un approccio più originale. Un Beethoven barbarico, quasi violento con tempi sostenuti e ritmiche martellanti: certo Toscanini non seguiva le chimere di una correttezza filologica che all’epoca non era questione all’ordine del giorno, ma è interessante notare come, da figlio del suo tempo che traduceva in urgenza drammatica gli anni convulsi degli eventi che portarono alla scoppio della guerra mondiale, anticipi certe scelte che caratterizzeranno le esecuzioni storicamente informate. Tuttavia rimarrebbe deluso l’ascoltatore in ricerca della veemenza verdiana (tipica di certi accompagnamenti a cui ci ha abituato il direttore), poiché Toscanini – per i motivi già esposti – si dimentica dell’opera e preferisce ricondursi a modelli sperimentati e accettati dal suo pubblico (Walter, Mitropoulos, Mahler). La medesima delusione susciterebbe l’ascolto del Beethoven di Victor de Sabata. Il raffinato wagneriano riflette – anche nella scelta delle opere (non ha affrontato il ciclo integrale) – i pregiudizi e la diffidenza verso il compositore: de Sabata incide solo la Terza, la Quinta, la Sesta e l’Ottava (tra il ’46 e il ’51), ossia le sinfonie centrali, quelle di cui si appropriarono i romantici. Quelle, cioè, che insieme alle ouverture drammatiche e alle sonate per pianoforte nr. 8, 14 e 23, costituirono il nucleo portante della fortuna beethoveniana in Italia sin dal tardo ‘800. E infatti de Sabata non si distacca da una lettura romantica e rassicurante: certo con maggiore raffinatezza e tempi più rilassati rispetto alla lezione toscaniniana, ma con identica rinuncia a trovare una via originale. Anche qui è assente il direttore d’opera e il canto. Lo stesso si può dire – per quel poco che ha potuto incidere – di Guido Cantelli (molto più interessante il suo lascito mozartiano e romantico). Diverso il discorso su Riccardo Muti (ultimo direttore di scuola italiana che ha affrontato il ciclo in disco e in teatro). E’ curioso come il più toscaniniano dei “moderni” (per autoporclamazioe) proponga una lettura del tutto diversa rispetto a quella del presunto maestro. Anche qui, però, l’originalità latita così come la semplicità del canto. Muti, infatti, cambia solo il punto di partenza: non più il Beethoven romanticizzato, ma quello classico viennese. Si sente un certo Haydn nel ciclo sinfonico di Muti (soprattutto quello inciso negli anni ‘80 con la splendida Philadelphia Orchestra), ma un Haydn levigato, accademico, gluckiano: un’integrale segnata da pulizia ed equilibrio, ma che non apre nuove strade interpretative (come, invece, Chailly e l’ultimo Abbado) nel rimanere con ostinazione nel solco ben tracciato di una tradizione rassicurante. Alla fine gli esiti del Beethoven italiano sono piuttosto deludenti…per mancanza di coraggio, verrebbe da dire: per una sorta di “pudore” nell’affrontare il ciclo sinfonico con il linguaggio che meglio si sapeva padroneggiare (l’ineludibile tradizione operistica che, non necessariamente costituisce un minus) e, probabilmente, trasformando in “valore aggiunto” il travagliato assorbimento di Beethoven in Italia e le sue alterne fortune. Ci si è accontentati, invece, di “non sfigurare”: peccato.

Gli ascolti:

Sinfonia Nr. 4 in Si Bemolle maggiore, op. 60 – Arturo Toscanini (1939)

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Sinfonia Nr. 6 in Fa maggiore, Op. 68 – Victor de Sabata (1947)

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6 pensieri su “Le nove sinfonie di Beethoven: capitolo III. Il Beethoven italiano.

  1. Complimenti per l’interessantissimo articolo, Duprez, è sempre un piacere leggere questa rubrica. Mi associo alle tue parole portando le seguenti affermazioni: “Beethoven ha avuto il “difetto” di aver creato sinfonie che sono diventate celeberrime, a discapito di altre, quali la Prima, la Seconda, la Quarta e un po’ la Sesta. […] Ma queste sinfonie “dimenticate” sono di una bellezza rara, nella Prima Beethoven inizia con una dissonanza, cosa insolita per l’epoca, cosiccome sono belle la Seconda e la Quarta, la Sesta, poi, è particolare, in quanto in questa sinfonia il compositore si spoglia di tutto quel potere dirompente quasi Berlioziano (se si dice così) per lasciar posto ad una musica che poi formerà quella di Schubert”.
    Ora, queste affermazioni (che mi pare siano di Noseda, ma non è niente di scritto, tengo a precisare che vado “a memoria”) secondo me sono vere solo in parte:
    Infatti a parer mio tutti i compositori che abbiano affrontato un repertorio sinfonico di una certa importanza hanno composizioni che (vuoi per motivi di qualità, vuoi per motivi di “popolarità”) sono diventate più celebri di altre, credo sia normale, e aggiungo che francamente in Beethoven non mi sembra che questa differenza sia così evidente, dato che stiamo parlando di un caposaldo della musica sinfonica di sempre, e quindi bene o male le sue sinfonie dovrebbero essere-in linea di massima, per carità- conosciute abbastanza bene tutte da una person che voglia ritenersi anche solo appassionata (come me, ad esempio). Sulla Sesta (che è la mia preferita insieme alla Nona e alla Terza) concordo sulla particolarità della musica, molto più sobria, ma sinceramente io vedo solo Beethoven nella suddetta composizione.
    Se volessi discuterne mi farebbe molto piacere, anche per imparare qualcos’altro.
    Cordiali Saluti.

  2. bel post molto interessante su questo Beethoven “italiano”,però sarebbe bello se come una volta ogni paese piccolo o grande avesse il teatro d’opera,e ci vanno in tanti,invece adesso sembra che ci sia vergogna di avere inventato il melodramma,o quasi

  3. Semplicemente, mi sembra molto difficile parlare di una tradizione italiana dell’interpretazione, come se questa si potesse cristallizzare in un’idea in sé e per sé; ogni tradizione è fatta di contaminazioni ed al suo interno è arduo fare distinzioni precise. Quello che tu, Duprez, dici di Abbado può in qualche maniera essere detto anche di tutti gli altri. De Sabata per esempio ha fortissime ascendenze nel decadentismo francese e tedesco. Il neoclassicismo di Muti, ammesso che di neoclassicismo si tratti (e su questo ho molti dubbi), è di matrice italiana? E perché mai, visto che secondo il tuo parere Gluck e Haydn sono alle sue radici? In effetti, se tu dici che Abbado è estraneo alla tradizione italiana, tu in questo modo affermi che la tradizione italiana ha una sua riconoscibilità. Ma questa riconoscibilità poi ti si sgretola fra le mani, dal momento che tu stesso riconosci che i suoi esiti e le sue premesse sono diversissimi e convergono solo nel fatto di una loro insufficienza; sono interpretazioni epigoniche, del tutto mancate. E allora? E Karajan, con i suoi meravigliosi colori luminosi e mediterranei, dove lo mettiamo? Anche Karajan fa parte di una tradizione contaminata, in un’ottica che sarebbe piaciuta ad un nostalgico e disperato ammiratore del sud come Nietzsche. E nulla è così tedeco come la “Sehnsucht nach dem Sueden”. E’ ovviamente vero che l’Italia dell’Ottocento era arretrata dal punto di vista strumentale. Ma questo lo sanno tutti; e, come le cose che sanno tutti, non significa niente. La musica italiana dell’Ottocento ha potuto sostenersi appunto perché fioriva da una tradizione viva, straordinaria; lo strumentale di “Norma” non ha nulla di inferiore a quello di Weber, neppure a quello avanzatissimo di “Euryanthe”. Appunto perché serve perfettamente allo scopo. E, ancora una volta, quando è servito la musica italiana si è contaminata; non per nulla “Agnes von Hohenstaufen” è una delle più belle opere che siano mai state scritte, in una delle più audaci fusioni fra tradizioni diverse che siano mai state tentate. Se poi si pensa all’altezza della risposta verdiana, realizzata da “Otello”, alla provocazione rappresentata da Wagner, si arriva a capire che la tradizione è sì riconoscibile, ma per vivere si innerva, e non può fare altrimenti, di deviazioni, strade secondarie, frasi fra parentesi, luci smorzate difficili da riconoscere e interpretare.
    Marco Ninci

  4. Caro Ninci, il “Beethoven italiano” è, ovviamente, poco più di un gioco: un appellativo di comodo, funzionale ad un certo tipo di discorso. Nessuna pretesa sistematica.

    Immaginavo che l’esclusione di Abbado avrebbe acceso inutili e pretestuose polemiche: ti rassicuro che il divo Claudio sarà oggetto (insieme ad altri direttori) di altra puntata. Peraltro – com’è noto – colloco la sua lettura delle sinfonie beethoveniane, tra le più interessanti.

    Ricapitolando:
    1) considero Abbado – per formazione musicale e storia personale – più legato al sinfonismo di area austro-tedesca, non per assenza di colori e calore (sarebbe una fesseria e poi c’è, giustamente, l’esempio di Karajan), ma per cultura e approccio ad un determinato repertorio;
    2) considero l’influenza del repertorio operistico (la pratica del melodramma) caratterizzante – pur nelle diversità – degli approcci direttoriali di Toscanini, de Sabata o Muti;
    3) ritengo che questi direttori – soprattutto nell’avvicinarsi a Beethoven – percorrano strade già segnate piuttosto che individuare percorsi originali: insomma il ciclo diretto da Toscanini non è certo imprescindibile (lo si ascolta per amore di completezza) e lo stesso si può dire di Muti…eppure entrambi sono gradevoli e interessanti. Il fatto è che – secondo me – scontano l’eccessiva presenza di modelli (è un discorso che riprenderò in occasione del Beethoven di Bernstein, nel senso opposto, ossia nell’emancipazione dalla tradizione sinfonica europea);
    4) riepilogare – per sommi capi – le avverse fortune di Beethoven in Italia e delle cause della sua ritardata penetrazione, non ha alcuna funzione valutativa, ma meramente descrittiva… Mi spiace averti annoiato con questioni a te già note… Peraltro non ho espresso alcun giudizio di valore sullo strumentale di Norma rispetto a Weber…
    5) infine, so benissimo che non esistono comparti stagni in cui inserire una materia sfuggente come l’interpretazione musicale: la mia è solo una proposta senza alcuna pretesa sistematica (ripeto).

  5. buon giorno, mi scuso da subito perchè potrei provocare violenti e incontrollati stiramenti di sopraccigli.
    preferisco il beethoven suonato e inciso da una piccola orchestra italiana del nord-est ( piccola solo per numero, ma Beethoven scriveva per un organico di 25-30 orchestrali al massimo o sbaglio?), diretta da un “adottato” Maag.
    Se devo guardare ai grandi numeri, trovo piu’ consona alla mia scarsa preparazione musicale G. Wand.
    grazie a presto

    • “Scarsa preparazione musicale” dici? Non direi proprio visto l’apprezzamento per Maag e Wand! :) Grande grandissimo direttore Peter Maag: le sue incisioni sono un vero modello (a me piace moltissimo il suo Mendelssohn che ritengo di riferimento). Quanto a Wand – uno dei miei direttori preferiti – ti anticipo che la sua interpretazione delle Nove Sinfonie sarà oggetto di una delle prossime puntate.

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