Fratello Streaming: le nuove incrostazioni de “Il Trovatore” da Bruxelles

“Incrostazioni”.
Questo vocabolo applicato all’opera riassume in sé una certa mala tradizione dura a morire fatta di tagli, caccole espressive, acuti aggiunti e da tenere su un arco temporale variabile e tendente all’infinito, mancanza di ripetizioni o da capo, omissioni di variazioni scritte, capricci e arbitrii gratuiti dei cantanti e dei direttori d’orchestra; pratiche queste da vituperare in maniera sacrosanta, costanti in certi periodi storici, e che da sempre hanno fatto storcere il naso e provare moti d’orrore a molti puristi, a molta “intellighenzia” nostrana e non, perché occorre depurare, prosciugare, purificare, essere ligi alla pagina scritta onde percorrere nuove strade e riportare lo stile del compositore alla primigenia purezza perduta da tale stratificazione di “incrostazioni”.
Mi verrebbe voglia di suggerire loro un buon sgrassatore a base di sapone di Marsiglia, ottimo per tutti gli usi e per far brillare le superfici; eppure questi signori, questa “intellighenzia” che si eleva così in alto e deplora tali artifizi, ha un difetto: accettare di buon grado, anzi promuovere in una grottesca gara di onanismo mentale e paranoie metafisiche, le nuove “incrostazioni” che subdolamente si sovrappongono a quelle sopracitate, poiché nate sotto l’egida dell’ “integralità”, della bacchetta più alla moda e meglio pubblicizzata, e ammantate da una aura intellettuale o filologica.
Senza nulla togliere alla bravura di tali bacchette, c’è da chiedersi se certi esperimenti in mano loro abbiano in effetti senso soprattutto se spingono verso la direzione opposta!
Ed ecco allora che assurdi verdicidi come “Il Trovatore” diretto dal baroccaro Michael Hofstetter a Ludwigsburg e interpretato dalla vestale del trash, Simone Kermes, per loro assume una valenza quasi mistica, un punto di svolta epocale, una lettura finalmente priva di “incrostazioni”: in fondo cosa importa se il direttore sia convinto di dirigere un mostruoso ibrido abortito a metà strada tra il peggior Vivaldi ed il miglior Stockhausen; cosa importa se l’orchestra suona da fare pena con sonorità al limite del gesso sulla lavagna o del vetro pestato; cosa importa se i cantanti siano dei poveri relitti vocali dal gusto pessimo e dallo stile pedestre che reinventano lo spartito attraverso patetiche contaminazioni, perché “qualcosa di nuovo bisogna pur dirlo”?
Certo, se lo ascoltassimo sottoforma di parodia verdiana questo “Trovatore”  sarebbe divertentissimo, realmente da sbellicarsi, un toccasana contro la depressione; se volessimo invece prenderlo sul serio significherebbe ammettere un fallimento, ammettere che l’opera la si conosce poco, la si è capita male e la si è ascoltata punto.
Come dicevo il “Trovatore” DI Hofstetter possiede almeno il pregio di essere divertente; lo stesso titolo allestito a Bruxelles e diretto da Minkowski, con la regia di Tcherniakov semplicemente NO.

Pubblicizzato come punto di svolta epocale dell’interpretazione verdiana, come pietra miliare da seguire e  futuro dell’opera, e incoronato Minkowski come autore di una rivoluzione di immane potenza, questo “Trovatore” è semplicemente l’ennesima montagna che ha partorito un topolino… morto.
Minkowski non dirige male, ma nemmeno tanto bene e non perché la sua sia una lettura di chissà quale verità cosmica da assimilare, ma perché la sua direzione, con un’orchestra appena sufficiente, è semplicemente “normale”!
E’ così “normale” che per ascoltare una direzione del genere basterebbe andare in qualsiasi teatro italiano di media-bassa provincia e non troveremmo differenza alcuna con il gesto di Minkowski.
Solo perché l’opera è stata diretta a Bruxelles da un nome altisonante o blasonato, o per degli inutilmente pompati intenti epifanici, un allestimento non diventa automaticamente qualcosa di storico: non conta il nome, conta l’esito e contano i fatti.
Minkowski ha dalla sua un’orchestra dal fraseggio freddo, dagli impasti sonori secchi, inespressiva nel gusto, ma anche degli archi molto curati e messi in primissimo piano che alternano momenti splendidi a taluni stridori poco gradevoli.
Parte con un piglio asciutto e veloce la scena con Ferrando, per poi stemperare la foga nella presentazione di Leonora attraverso un tempo rallentato, anemico malgrado gli splendidi archi cerchino di superare la poca espressività dell’accompagnamento; il suono degli altri strumenti resta poco curato e l’accento assume una connotazione spiritata durante tutta la cabaletta che vorrebbe forse essere visionaria o carica di tensione, ma è soltanto generica; con l’arrivo del Conte di Luna iniziano le defaillances con scollamenti tra gli strumenti e poca coesione con i cantanti, tanto da trasformare il terzetto in qualcosa più affine ad una commedia, mentre il finale d’atto è risolto attraverso una serie di sonore mazzate orchestrali che forse vorrebbero evocare il fuoco verdiano, ma che in realtà sono un inno alla  disorganizzazione.
Il pestaggio sonoro continua nervoso e sbrigativo nel II atto con la canzone del coro; ma la promessa di tanta energia non viene mantenuta afflosciandosi in una fiacca  “Stride la vampa” e in un duetto Manrico-Azucena dimesso, flaccido e superficiale come il seguente “Balen”, ma terminato con un’orchestra a tutto volume ben poco coerente con i toni della scena: se l’arrivo di Leonora è talmente sfumato da sfiorare la carta velina, il finale d’atto è talmente caotico da far pensare a 5 opere messe insieme senza soluzione di continuità.
Minkowski ci stupisce risvegliandosi al III atto, centrando sia l’andamento allegro e disilluso del coro, sia il racconto di Azucena reso con i giusti accenti allucinati, giungendo a creare un’ ottima tensione dolceamara nell’ “Ah si ben mio”; ma arrivati alla “Pira”, per non smentirsi, il Maestro  trasforma l’orchestra in una fucilazione sbandando vistosamente con i tempi e con il palcoscenico.
Il IV atto è secco, gelido, faticoso privo di qualsiasi atmosfera, interminabile nell’insistita spigolosità completamente involuta.
Tutto qui? Si, il “Trovatore” diretto da Minkowski sconvolge per la sua banalità, per la sua prevedibilità, per essere una interpretazione talmente “normale”, talmente qualunque che potremmo trovare letture simili dappertutto anche qui in Italia senza fare dispendiosi e inutili viaggi della speranza alla ricerca di profetiche epifanie che nel 90% dei casi si riducono in sonori bluff da giustificare in qualche modo fino a quando i gonzi abboccheranno: come in questo caso.
Per ascoltare interpretazioni davvero moderne, attuali, che il tempo non scalfisce perché partono dal mestiere e dall’onestà musicale della partitura, andiamo ad analizzare cosa riuscivano a  a plasmare con la musica un von Karajan o uno Schippers tutti fuoco, delicatezze notturne e romanticismo (con le loro “incrostazioni”); un Mehta dalle sfumature accese, preziose, conflittuali, ma fedeli a Verdi; un Giulini che partiva da una filologia spinta all’estremo per arricchirla con accenti di corrusca potenza; un Muti, il quale. non diversamente da Giulini, usava la filologia per cristallizzare, prosciugare, analizzare la partitura e ridonarle una essenzialità del tutto inattesa, intimista; e questi solo per fare qualche esempio di interpretazioni vere, autentiche, palpitanti di teatralità.
Minkowski magari fosse stato solo barbarico, bandistico, o quanto meno “borghese”: è solo gelidamente “normale”.

E lo spettacolo di quel “genio” di Tcherniakov?
Un tempo c’erano i “Bidelli del Walhalla” genia di iracondi melomani che si battevano per il rispetto assoluto della drammaturgia operistica wagneriana e non; oggi, in vista della loro estinzione, si è fatta avanti una nuova stirpe: i “Badanti dell’Eurotrash”, indefessi signori che difendono attraverso giustificazioni astruse, cervellotici contorcimenti, apologie del delirio, esaltazioni della banalità, allucinati elogi alla dissoluzione librettistica, certe soluzioni registiche in nome dello sconvolgimento a tutti i costi, dell’originalità più spasmodica, dello shock più perverso.
I “badanti” di cui sopra, attraverso questo allestimento, hanno finalmente ottenuto un Verdi riletto in chiave “teatro di regia”?
Hanno ottenuto finalmente una dimensione intima e borghese?
Hanno assistito ad una regia elettrizzante e di portata talmente dirompente da avere come unico metro di paragone il Ring di Chéreau a Bayreuth?
Loro pensano di si!
Peccato che prima di Tcherniakov “Il Trovatore” fosse già passato nelle mani del “teatro di regia”, quello che devasta la drammaturgia per ricrearne una totalmente diversa e più becera: basti pensare a Neuenfels il cui nefasto allestimento si basava sulla distruzione dei simboli borghesi e della profanazione di quelli religiosi; basti pensare a Vick che al Met aveva già rivisto l’opera in chiave borghese con tanto di casetta di Azucena e proponeva lo scontro Manrico-Conte di Luna come un conflitto tra l’uomo ed il suo Doppelganger; basti pensare a certi esperimenti “pittorici” che introducevano in un ambiente onirico e astratto le colorate e stranianti geometrie di De Chirico; oppure alla chiave di lettura che Ronconi propose a Firenze quando il suo “Trovatore” si giocava in una dimensione intima e raccolta tra riflessi di fuochi e di specchi che moltiplicavano labirinticamente la scena ed i personaggi.
Tcherniakov da questo punto di vista non fa nulla di nuovo, il suo allestimento è un fallimento sotto ogni punto di vista.
La solita casetta, vista, rivista, stravista, ritrita mille volte, in mille allestimenti, compreso il ripugnante “Don Giovanni” di Aix dal quale prende il concetto di base: una pruriginosa questione familiare che diventa un micidiale gioco al massacro con l’aggiunta “geniale” di risolvere le tensioni “inscenando” il “Trovatore” e lasciando che il gioco di ruolo prenda il sopravvento fino alla tragedia finale che non risparmierà nessuno.
Ad Aix Don Giovanni reggeva le fila della trama restandone vittima, qui è Azucena e come nell’opera mozartiana il tutto sembra partorito da una orrida puntata di “Beautiful”.
Magari Tcherniakov risolve le questioni familiari ed i litigi con gli amici mettendo in scena nel salotto di casa sua un’opera per poi assistere allo sterminio finale così da prendere spunti per la prossima “regia”, ma il pensiero che questa patetica ideuzza tenuta in piedi da fragili stampelle possa essere presa sul serio o risolvere le incoerenze (che poco o nulla interessavano Verdi) del libretto del “Trovatore” è un’ipotesi che è un insulto all’intelligenza.
Non è questione nemmeno di accendere o spegnere il cervello per capire e comprendere, perché il tutto non sortisce il minimo interesse, ma solo noia dettata dalla ennesima banalizzazione di un’opera.
Si sghignazza molto, ci si alcolizza altrettanto, si striscia a terra, si rantola, si parla, si strappano parrucche, si levano camicie, stivali, autoreggenti, ci si dispera tarantolandosi sul palcoscenico, si assiste a controscene avvilenti, ci si bacia, si fa sesso, ci si umilia, si canta contro un muro (Leonora nel IV atto) e finisce tutto in un bagno di sangue a colpi di pistola, tavolini rovesciati e abiti moderni.
Questo è tutto.
Insomma la messa in scena non tradisce i 25 punti da me elencati in un precedente articolo.
Ah, dimenticavo, i badanti accettano di buon grado anche l’ “incrostazione” di far cantare i ruoli secondari ridistribuendoli tra i 5 protagonisti e che il coro venga nascosto o dietro le quinte o nella buca, perché è cosa “nuova e giusta”.
Da sbellicarsi!

Il cast radunato non sarebbe meritevole nemmeno del ruolo di cover in caso di indisposizione dei protagonisti di un “Trovatore in Piazza”.
Il Ferrando di Giovanni Furlanetto usa con profitto il registro di stomaco e brilla per l’emissione disordinata e priva della minima intonazione di base; Marina Poplavskaya ha sempre cantato male, ma qui siamo oltre la decenza: timbro senile è privo di alcun fascino; il baricentro talmente basso che la proiezione della voce è indietro, intubata, ingolata, impastata, durissima incapace di ogni modulazione; gli acuti sono strazianti nel loro essere striduli, acidi o urlati, il registro grave sconfina con il parlato più lamentoso; fantatecnica pura la risoluzione delle colorature; accento ovunque schizofrenico con bava alla bocca: un’ oscenità. Il “baritono” Scott Hendricks ha bloccato in gola un foglio di cartavetrata, è di rozzezza incommensurabile e di tecnica nulla; il “tenore” Misha Didyk, che ascoltai in una orribile produzione di “Tosca” al Comunale di Firenze (che mi rifiutai di recensire), ha anche lui voce indietro, gorgogliante poggiata sul nulla, emissione “destrutturata” e strangolata, timbro terribile, proiezione e pronuncia da ergastolo; l’Azucena di Sylvie Brunet “canta” in sancrito, con una voce spaccata in tre tronconi uno più straziante dell’altro, dotata di emissione tutta aperta per fingere ampiezze che non possiede.

“Il Trovatore” da Bruxelles o il millantato credito.

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13 pensieri su “Fratello Streaming: le nuove incrostazioni de “Il Trovatore” da Bruxelles

  1. “Il Ferrando di Giovanni Furlanetto usa con profitto il registro di stomaco”
    Marianne ci spieghi meglio questo registro di stomaco….ha che fare con la digestione..quindi emissione ruttevole…magari mi sbaglio

  2. Cast imbarazzante, direzione buona (ma non certo straordinaria: non che qualsiasi cosa faccia Minkowski sia automaticamente trascendentale), regia che rifà il verso a sé stessa e scambia Il Trovatore per Carnage di Polanski, trovate di comicità involontaria (tipica del “genio” Cerniakov) in modo da non correre il rischio di tralasciare nessun luogo comune dell’eurotrash…
    Ebbene sì – e lo dico ai “blablaologhi” che gestiscono altro sito d’opera (ci definite “bla-bla-blog” pertanto non ve la prenderete di certo per questo scambio di cortesie, anche se siete totalmente privi d’ironia) – state tranquilli: avevamo capito benissimo che questo Trovatore era una porcheria prima di scoprire che a voi è piaciuto moltissimo…

    Ps: mi scuso per l’uso privato dello spazio, ma i continui riferimenti (sempre dall’alto di piedistalli autoeretti) dopo un po’ di tempo stancano e scocciano…

    Pps: lo scrivo al loro “professore”…non è vero che Cerniakov interviene solo sul pre-testo, ma eliminando tutti i personaggi minori e affidando le loro battute ai 4 rimasti in scena (con i pasticci che si possono immaginare) interviene in modo assai più invasivo e scorretto rispetto al mancato da capo di una cabaletta…

  3. Non ci sono parole: penso che a questo punto andrebbero rivalutate e per la loro sostanziale genuinità e per l’indiscutibile “badate ella ci crede” applicabile ad entrambe, la mitica Foster-Jenkins e la mia adorata Natalia De Andrade.
    In quanto allo spettacolo… taccio, taccio, più nulla.
    E pensare che incontrando Filippo Crivelli, l’altra sera alla Scala criticavamo il criticabile di quella pallida e squallida MANON.
    Qui siamo ben oltre “ogni umana idea”.
    Saluti

  4. Lasciando stare le polemiche personali – e faccio ammenda per l’uso “privatistico” – vorrei tornare su quella che è considerata la maggior riuscita musicale della produzione: ossia la direzione di Minkowski.

    Personalmente l’ho trovata deludente rispetto alle aspettative. Per varie ragioni:
    1) Minkowski è direttore tra i più importanti dell’odierna ribalta musicale. Formatosi col barocco francese ha trovato nell’800 musicale (francese in particolare) il suo vero terreno d’elezione: il suo Offenbach è straordinario (direi di riferimento), così come la sua esplorazione del grand-opéra (finalmente eseguito con attenzione allo stile e alle proporzioni). Attendo il suo Berlioz (e non mi dispiacerebbe che affrontasse il ciclo sinfonico beethoveniano). Lecito aspettarsi un Verdi rivelatore: avrò problemi io, ma mi è parso solo “ben diretto” (che è molto, ma non abbastanza).
    2) Mancava, nella sua concertazione del Trovatore, una cifra interpretativa: bastano i tempi rapidi o il suono brillante per “sgrassare” certa retorica risorgimentale? Non credo…anche perché se non si è sostenuti da una compagine più attenta (l’orchestra della Monnaie è decisamente routinier) si rischia di risolverla in banda…intendiamoci, sono il primo a dire che l’elemento “ruspante” e contadino è presente in Verdi e che ha poco senso edulcorarlo con una raffinatezza estenuante, però non si può risolvere il tutto in “caciara orgasmica” nelle fasi concitate (sempre in “forte”) e rallentare nei momenti meditativi in corrispondenza del segno “piano” (un trucchetto degno del più provinciale dei praticoni, non degno di un musicista come Minkowski). Non basta neppure l’integralità della partitura a segnare una “svolta rivoluzionaria”: molti prima di lui hanno eseguito la partitura integralmente (e, come sapete, io sono un assoluto sostenitore dell’assoluta completezza). Neppure è una novità l’adozione dell’edizione critica (anche il tanto vituperato Muti fece lo stesso: e il suo Trovatore “notturno” ha un fascino decisamente particolare).
    3) Mi stupisce, poi, che un direttore tanto attento alla filologia (e giustamente) abbia accettato il coro nella buca e la soppressione dei personaggi minori (le cui parti vengono affidate ai 4 protagonisti, con esiti non solo tragicomici sul piano drammatico, ma anche disastroso su quello musicale).
    4) Infine mi sorgono tanti sospetti (non voglio accusare nessuno): forse oggi chi applaude, legittimamente, la direzione di Minkowski, nel 2000 ha “ridicolizzato” le scelte di Muti in merito agli acuti aggiunti, all’edizione critica, all’eliminazione di certe incrostazioni tradizionali…e allora di che stiamo parlando?

    • Anche Giulini, Mehta e Muti sono filologici e integrali, con orchestre e cantanti migliori (credo anche Humburg lo sia), ma perchè per loro non si urla al miracolo e non si citano nemmeno?
      Perchè? Non solo abbastanza blasonati e alla moda? Sono troppo vecchi e superati anche se fanno le cose in maniera più seria?
      Minkowski nel “Trovatore” ha solo il pregio di essere integrale e poi?
      Tirando le somme: regia orribile, cantanti agghiaccianti, direzione d’orchestra “normale”… in cosa consiste questa rivoluzione verdiana?
      La parodia che ne ha fatto Hofstetter o la banalità di Minkowski sono il “futuro”?

      PS Duprez non scusarti, va tutto bene 😉

    • Tempo fa ascoltai il Trovatore con la Kermes (cantante che disprezzo profondamente) e, dopo l’ascolto, ho avuto la sensazione che la finalità di queste letture sia ispirata al principio “lo famo strano”….cioè, il “nuovo” non è meglio a prescindere esattamente come non lo è il “passato”: io credo che arbitri come variare la prima parte di “Tacea la notte” (con variazioni di gusto barocco), inserire cadenze in ogni dove, disinteressarsi del tutto alla pronuncia (per una cantante che fa dell’opera seria – in italiano – il suo “ubi consistam”)….non sia un passo verso una “nuova estetica verdiana”, ma l’approfittare di mode più o meno passeggere… Ecco una sensazione simile l’ho avuta con questo Trovatore: è opera strasentita, d’accordo, ma non è necessario trasformarla in un circo per fare qualcosa di nuovo (fossi stato Minkowski, ad esempio, avrei puntato su altro: avrei cercato un cast diverso, avrei ragionato sul diapason, magari avrei utilizzato un’orchestra diversa…)

  5. Anni fa al festival della valle d’Itria ebbi occasione di ascoltare ben due opere liriche trascritte per banda, Aida e Carmen. Ricordo che mi fece impressione quella carmen diretta da una donna. Ebbene
    una banda della zona di Martinafranca vale più di certa sbobba prodotta da questi nobili del nord europa.Prosit.

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