Si tratta del Festival precedente al grande giubileo del prossimo anno, che celebrerà il bicentenario della nascita di Richard Wagner con la nuova e attesa produzione del Ring affidato al direttore Kirill Petrenko per la parte musicale, Franz Castorf per quella visiva e vedrà nei panni di Siegfried e Brunnhilde , per ora, Lance Ryan e Catherine Foster (che sostituisce la prevista Angela Denoke, rinunciataria in un impeto di correttezza).
E mentre il programma delle prossime stagioni è stato aggiornato fino al 2020, quest’anno si inaugura con una nuova produzione di “Der Fliegende Hollaender” affidata alla bacchetta di Christian Thielemann (già direttore alla fine degli anni ’90 di un magnifico “Olandese” portato in giappone dai complessi berlinesi, di cui resta una bella testimonianza video, e che poteva fregiarsi di nomi importanti come Bernd Weikl, Deborah Voigt e Matti Salminen), e del trentenne regista Jan Philipp Gloger, ennesimo figlio sterile dell’eurotrash a giudicare dalle foto dell’allestimento, ovviamente buato a sangue anche con fischietti, che si avvale di ignoti circuiti, scatole di cartone prese all’Ipercoop, tendine dal colore inclassificabile, abiti moderni e anonimi, immancabili macchie di sangue e modellini di cartapesta: nulla di nuovo da Bayreuth, ovviamente.
Quando nel ’51 il Festival di Bayreuth riaprì i battenti dopo la pausa bellica e la ristrutturazione, non solo si cercò di rinnovare, attraverso la direzione in tandem di Wieland e Wolfgang, lo stile proponendo qualcosa di nuovo, unico, che facesse scuola; ma soprattutto, entrambi, cercarono di prendere le distanze dalla precedente gestione “di regime”, appoggiata negli ideali da Winifred Wagner, mammina cara… anche se qualche foto ritraeva i fratelli con il Grande Dittatore, occorreva comunque rinnegare il passato per dimostrare qualcosa.
Occorreva ritrovare l’innocenza perduta, rifarsi una “verginità” per dimostrare che la famiglia Wagner era andati comunque avanti, che il Festival non era più il prolungamento delle feste politiche e che d’ora in poi le cose sarebbero state diverse senza i tentacoli del Reich.
Per purificare il Colle occorreva allontanare o mai più richiamare tutti quei cantanti o artisti in generale che avevano lavorato sotto quel regime e proporre regie e scenografie di stampo diverso, più asciutte, essenziali, più affini alla lezione di Appia e distanti dall’estetica proposta nell’era di Winifred.
Di buone intenzioni è lastricato l’inferno, e difatti i due fratelli non riuscirono proprio a fare a meno della tentazione di richiamare Max Lorenz, Hilde Scheppan, Annelies Kupper, Friedrick Dalberg, Ludwig Suthaus, Erich Witte, Egmont Koch, Erich Kunz, Eugen Fuchs, Poul Schloeffer, in piccoli e grandi ruoli: grandi artisti, che evidentemente ambivano ad una redenzione di cui Wagner è sempre stato prodigo nei suoi scritti e nelle sue opere; ma soprattutto quel Heinz Tietjen, ottimo direttore d’orchestra e regista di fiducia del regime, ed il titanico, ambiguo Wilhelm Furtwaengler; e a pensarci bene, non scandalizzò affatto la presenza di certi cantanti che avevano coltivato o coltivavano il “vizietto” come Elizabeth Schwarzkopf o, più recentemente, Karl Ridderbusch instancabile collezionista di oggettistica dei bei giorni gloriosi del Grande Dittatore che andò via da Bayreuth di sua spontanea volontà non a causa del suo strano hobby, ma perché poco amava la regia di Chéreau.
Nel frattempo l’anziana e indomabile Winifred rilasciava interviste piene di rimpianti verso quell’epoca piena di forni accesi e fumanti e si domandava se era tutto sommato giusto richiedere la testa di Lorin Maazel su un piatto d’argento oppure lasciargli dirigere nel “suo” teatro Lohengrin e Ring: perché tutto sommato quell’ebreo ci sapeva fare con la bacchetta.
Evidentemente anche il ricordo accorato, con tanto di targa commemorativa, di quegli artisti di casa a Bayreuth che trovarono la morte nei campi di sterminio (il corista Richard Breitenfeld, il mezzosoprano Ottilie Metzger-Lattermann, il soprano Henriette Gottlieb, il basso Herrmann Horner, l’orchestrale Eduard Rose) perché ebrei, non è bastato a ritrovare la redenzione tanto ambita: il senso di colpa non si è estinto in oltre 60 anni ed evidentemente il nervo scoperto ancora brucia.
Così è nato un nuovo sport: caccia al tatuaggio!
Ed è grazie a questo sport che il regista del “Fliegende Hollaender” inaugurale ha individuato un video del baritono Evgeni Nikitin, quando giovin, sciocco e inesperto suonava la batteria a petto nudo in una rock-band esibendo una sospetta croce uncinata sul petto, che oggi, 2012, non si vede più poiché coperta da svariati altri simboli. Un errore di gioventù a cui ha già rimediato, ma che si paga caro evidentemente sulla non completamente “rivirginizzata” verde collina!
Onta, scandalo, condanna, allontanamento, esilio, rigurgito generale di “politicamente corretto” a tutti i costi con successivi deliqui delle menti più candide, sostituzione coatta con Samuel Youn ad un passo dalla prima… mi verrebbe anche da dire “Due pesi due misure”.
Non che abbiamo perso chissà quale fenomeno vocale con Nikitin, tutt’altro, quanto a ruvidezza e linea vocale frastagliata, però… lascio ai lettori l’ultima parola…
Christian Thielemann è l’unico sublime motivo per ascoltare questo “Olandese”: l’unico.
Si potrà obiettare che non sia affatto un “evoluzionista” dell’interpretazione, in questo ad esempio viene superato dalla scabra, analitica, turbinosa bacchetta di Giuseppe Sinopoli oppure dalla asciuttezza, dall’immediatezza di Marc Albrecht che lo hanno preceduto e che guardavano al futuro;
Thielemann, è vero, padroneggia con sicurezza i principi e la tradizione viennesi e tedeschi, li rende propri per rileggerli in chiave contemporanea, senza rinunciare ad una solidissima coerenza che attraversa le sue letture.
In Wagner, almeno, non è un imitatore di certe forme già risapute; il suo tocco è riconoscibile, perché si basa sulla fedeltà interpretativa del testo e su una ricerca costante di un suono orchestrale che sia non solo bello, ma teso, magniloquente, proteiforme.
L’Ouverture si apre con l’ “Allegro con brio” ed il “Molto marcato” secchi, espressivi, romantici, un ottimo contraltare a ciò che sarà lo sviluppo del tema della “Ballata”, costruito su un diminuendo che si addolcisce lentamente. Il ritorno dei temi circoscritti al monologo dell’Olandese si prestano ad una lettura più minacciosa, più impetuosa che può contare su un legato orchestrale di sensazionale compattezza: peccato solo i corni, le trombe ed i tromboni in serata decisamente negativa.
L’introduzione del tema successivo, quello più lieve della festa dei marinai, diventa lo spunto per giocare sui contrasti timbrici dell’orchestra: se da una parte il tema resta leggero, dall’altra gli archi intervengono sempre più massicci, insinuanti a coprire i legni ed i fiati in un rincorrersi spasmodico e quasi assordante.
Thielemann opta per la versione in un atto dell’opera che comprende anche le battute aggiunte successivamente del “Tema della redenzione”: una redenzione amara, pessimista eppure travolgente attraverso quei repentini assottigliamenti che si aprono verso un languore rallentato, estenuato che contrasta splendidamente con l’imponenza data al finale.
Se la scena che introduce Daland, il Timoniere ed i marinai, non perde una certa comicità, che si ritroverà sia nella filanda, sia nella festa dei marinai, ma interpretata come una macabra e beffarda sinfonia dai colori accesi, rapidi e sgargianti, l’atmosfera generale è di quelle brumose ricche di sospensione e mistero, cangiante nei colori più poetici per la canzone del marinaio o per il duetto Olandese-Daland o meglio ancora nel meraviglioso duetto Olandese-Senta dilatato nei tempi eppure così visionario, cristallino nei temi portati dai fiati, avvolgente nel sostegno delle voci, supplendo in toto a quanto manca alla insensibile mediocrità canora.
La tensione sprigionata dalla Ballata movimentata dai toni apocalittici del racconto e mitigata dall’esaltazione del tema della redenzione, anch’esso rallentato, riesce solo a metà a causa di una Senta insignificante, come tutto il personaggio di Erik massacra un fraseggio orchestrale volutamente più dimesso e patetico a causa di una voce ridicola.
Una lettura che commuove e travolge fino all’entusiasmo il pubblico il quale premia giustamente con sonore ovazioni un direttore sicuramente ai vertici.
Magari si fosse trattata di una versione solo concertante…
I cantanti confermano un assunto già analizzato in altri articoli, ovvero: a forza di alleggerire, liricizzare, schiarire e “umanizzare” Wagner e altri repertori ci troviamo davanti ad un cast più consono, se i componenti possedessero tecnica e stile, ad un intermezzo settecentesco o ad una commedia di Cimarosa, Fioravanti o Piccinni e non perché voglia fare del sarcasmo, ma proprio per il peso specifico delle voci in questione.
Adrianne Pieczonka, che mi aveva colpito positivamente a Firenze nel ruolo dell’Imperatrice nella “Frau ohne Schatten”, come Senta affoga senza nemmeno provare a galleggiare: la sua voce si è fatta ancora più bianca e anemica; il suo fraseggio, già di per se monotono, è oggi ancora più noioso e raggelante, oltre ogni umana idea; la tecnica è appena sufficiente nei confronti di un emissione che alterna consistenti vibrati a suoni fissi; in più non riesce a mascherare la fatica nel reggere una parte nemmeno così pesante; così la voce già dopo una ballata imbambolata che nulla esprime se non narcolessia, si perde tra asperità timbriche, acuti emessi male, indietro o stretti in gola, autentiche urla nel finale, per non parlare del completo disinteresse dimostrato per un ruolo così ricco di possibilità interpretative. Una Senta formato Barbarina.
Non migliore Samuel Youn letteralmente scaraventato in scena quattro giorni prima dell’inauguraziome, a cui andrebbe solo l’onore delle armi: se la parte dell’Olandese fosse tutta centrale Youn non avrebbe problemi, poiché in quel registro la voce possiede una buona emissione che permette alla voce di proiettarsi ed avere un certo volume; ma l’Olandese richiede sicurezza in tutti i registri, richiede acuti sicuri, gravi ampi e timbrati, un’ emissione che possa permettere al cantante di restare illeso di fronte alla richiesta di rinforzare o smorzare il suono.
Nel caso di Youn il monologo nella prima metà pare cantato con una certa cautela, ma anche con un buon controllo dei mezzi; ma appena vengono sollecitati i registri estremi ecco che la voce perde smalto, si ingola in basso per cercare ampiezze che non possiede, mentre gli acuti, deboli e stimbrati, mancano della forza necessaria e del giusto appoggio.
Così abbiamo un duetto con Daland in cui il timbro di Youn si inaridisce ad ogni nota fino a confondersi con quello tremendo di Selig; un duetto con Senta rovinato da certe aperture becere al centro e dalla mancanza di modulazioni che facciano capire lo sgomento, la confusione, il senso di appartenenza l’uno all’altra ed un finale completamente urlato.
Non ci siamo. Persino Alan Titus o Simon Estes, o anche gli evocati in chat, Falk Struckmann e Albert Dohmen in fase calante, riuscivano ad avere un briciolo di sensibilità maggiore o scaltrezza tecnica con voci anche peggiori; o più semplicemente Youn dovrebbe lasciar perdere questo tipo di personaggi psicologicamente complessi e faticosi dal punto di vista canoro e concentrarsi, restando a Wagner e sistemando le pecche, su ruoli più piccoli come Donner, Gunther, Kothner, Biterolf e l’Araldo.
Assolutamente scandalosa la presenza di un basso come Franz Josef Selig che annienta Daland attraverso un uso cinico e spietato di suoni fissi, gorgoglianti, orcheschi e stomacali; ancora peggio il “tenore” Michael Koenig il quale con una voce poggiata su corde vocali senili e sfilacciate produce suoni queruli, stonati, falsettanti, strangolati, e manca in toto di una musicalità vagamente professionale e nulla esprime se non la sua totale estraneità a Wagner ed al canto in generale; per non parlare di Mary, una Christa Mayer che ricordavo accettabile Erda e Waltraute ed ora, in due soli anni, ridotta alla vocalità stremata più affine ad un falsettista ottantenne che un contralto in carriera: ma questidove li hanno trovati?
Le sorellastre e Thielemann li ascoltano prima di scritturarli o giocano a “dilettanti allo sbaraglio”?
Siamo a “Wagner’s got Talent” al contrario?
Avvilente!
Gradevole, al contrario, la vocalità delicata e sfumata di Benjamin Bruns che nei panni del Timoniere, senza compiere miracoli, dimostra di padroneggiare una buona musicalità e delle belle intenzioni interpretative, mentre il coro stranamente si presenta ben poco preciso e impeccabile con notevoli sbandamenti nei tenori e gravi slittamenti di intonazione.
Dopo il Ring del prossimo anno, il 2014 sarà una stagione di riprese; nel 2015 verrà messo in scena un nuovo allestimento di “Tristan und Isolde” diretto da Thielemann, con la regia di Katharina Wagner e si favoleggiano le presenze di Stephen Gould e Eva-Maria Westbroek nei ruoli principali; nel 2016 ci aspetta un nuovo “Parsifal” che potrà contare sulla bacchetta di Andris Nelsons, sulle voci di Klaus Florian Vogt, Petra Lang e Gerg Zeppenfeld; nel 2017 un nuovo allestimento de “Meistersinger”, nel 2018 “Lohengrin” diretto da Thielemann, nel 2019 “Tannhauser” e nel 2020 un nuovo Ring.
Il “Parsifal” sarà affidato alle cure registiche del discusso artista Jonathan Meese il quale in alcune mostre ed installazioni ha usato chiari simboli che si trovavano sul petto di Nikitin e da gran burlone qual è si è fatto ritrarre in alcune foto con l’inequivocabile saluto al Grande Dittatore http://wagneroperas.blogspot.it/ … chissà se con Meese usarenno gli stessi accorgimenti oppure essendo regista tutto gli verrà perdonato in nome dell’arte e della provocazione gratuita che tanto piace alle sorellastre… vedremo.
Io trovo la direzione di Thielemann ricca, ma non complessa. Per ripetermi, viene riproposta per due ore e mezza la stessa visione senza cogliere (né esprimere) il passaggio da una Stimmung romantica a una Stimmung protodecadente. Insomma. musicalmente, l’opera finisce come inizia e questo forse tradisce ne tradisce lo spirito.
Ulisse
Ma… non capisco perché Thielemann, nella sua insistita coerenza interpretativa, dovrebbe inserire un percorso che dal Romanticismo porti alle soglie del Decadentismo: in fondo è un’opera dei primi anni ’40 dell’ ‘800 che è stata modificata fino agli anni ’60 e guardava verso Weber ed i compositori italiani, francesi e tedeschi precendenti ed il Decadentismo arriverà e germoglierà più tardi!
Gli interventi wagneriani poi saranno utili a sfoltire l’orchestrazione, ad unificare i tre atti in uno e ad introdurre le battute finali con il tema della redenzione: più romantico di così!
Concordo con Marianne. Cosa ci sarebbe di decadente in quest’ opera? Non stiamo mica parlando di Tristan o Parsifal!
Se poi il discorso di Ulisse è “Mi sarebbe piaciuto che Thielemann introducesse una vena decadente”, perchè più affine al suo gusto, una cosa legittima 😉
Vorrei solo precisare che quando parlo di decadentismo non penso ad autori come Huymans, ma a Charles Baudelaire, compagno di viaggio poetico-imtellettuale del buon Richard. E’ vero che la composizione del Fliegender Hollaender precede di diversi anni lo spartiacque del 1848, ma il protagonista non è già forse un malinconico ‘maudit’?
Ulisse
no, non è vero. Il decadentismo è una cosa be precisa e chiar per tutti. L’Olandese nulla c’entra col decadentismo. Nè la malinconia è prerogativa del decadentismo. a meno che tu non voglia sostenere il contrario…….
leggi ‘poetico-intellettuale’ e ‘del Fliegende [senza r] Hollaender’.
U
Non ho ascoltato che pochi momenti di questa inaugurazione di Bayreuth e, quindi, non posso avere un’idea precisa della lettura di Thielemann – anche se, conoscendone lo stile e riportandomi a quanto scrive Marianne, immagino rimanga idealmente ancorato alla tradizione germanica (peraltro Wagner, in questo senso, è molto meno problematico di Beethoven o Strauss, dove il direttore tedesco, a mio giudizio, non fa certo bella figura). Posso dire, però, cosa è per me il Fliegende Holländer e cosa ricerco in una sua esecuzione. Premetto che preferisco la versione originale per Dresda, con la sua orchestrazione più “ruggente” (anche se il finale dell’ouverture rivisto con l’inserimento del tema della redenzione è, musicalmente, irresistibile), possibilmente con la ballata di Senta riportata alla stesura originale (un tono sopra l’usato). L’Holländer è, insieme a Die Feen e Lohengrin (per Tannhauser il discorso è più complesso) la compiuta realizzazione del Wagner “romantico”: il Wagner ancora lontano dal mito e dalle speculazioni metafisiche, il Wagner legato a Mendelssohn e Weber. L’Holländer è una vera e propria “ballata romantica”, un lungo lied che affonda le radici nelle leggende nordiche (e non ancora nel “mito universale”). I suoi protagonisti vivono dei furori del romanticismo: nel protagonista non vedo la rappresentazione del maudit decadente, ma del tipico eroe romantico. In questo senso trovo un po’ forzata una lettura che voglia privilegiare gli aspetti malinconici in chiave baudeleriana. Nell’Holländer si vede l’uomo che sfida la natura e l’oltrenatura in un gesto attivo e, a suo modo, rivoluzionario…non trovo traccia della passività decadente e della sua malinconica e pessimistica rinuncia intesa come estenuante male di vivere. Ecco perché non riesco ad apprezzare molto l’Holländer di Karajan (dai preziosismi musicali fin troppo leziosi) e resto ancora profondamente legato alla “ballata gotica” di Klemperer, aspra e marcata come un’incisione di Dürer….ugualmente non apprezzo la versione di Solti e di Sinopoli (troppo “chiassose”).
Mah, l’esecuzione di Klemperer è magnifica. Ma anch’essa sposta l’Olandese in un clima molto posteriore, di una cupezza nibelungica. Non c’è nulla di male in questo. I periodi storici ed artistici non sono mai separati da cesure nette e le loro definizioni non sono né chiare né univoche, come invece pensa Giulia in un modo che un po’ mi sorprende. Per questo nel prima c’è sempre il dopo e viceversa. L’angoscia wagneriana impressa da Furtwaengler al Franco Cacciatore mi sembra del tutto plausibile, almeno per chi, come me, trova limitante per un interprete a questi livelli rievocare unicamente la temperie storica ed artistica in cui è nata un’opera. Detto in breve, una grande opera non si riassume mai nel suo contesto e questo un grande interprete lo deve far sentire, che si tratti di un direttore d’orchestra, di uno storico dell’arte, della letteratura o della filosofia. Ma, se dobbiamo stare al contesto, il clima weberiano e mendelssohniano in cui l’opera è immersa è rievocato supremamente da Krauss e, a mio modesto parere (fra parentesi, che orrore provinciale è quello spaventoso IMHO), anche da Karajan, nei cui preziosismi non c’è nulla di decadente ma molto, moltissimo della suprema leggerezza dell’autore della “Bella Melusina”.
Marco Ninci
Bah, che dire Ninci? Io non trovo alcuna “cupezza nibelungica” nell’Olandese di Klemperer, piuttosto un’accentuazione della dimensione “gotica” e onirica…ma saldamente ancorata ad una visione “romantica” (solitamente così lontana da Klemperer).
Quanto alle cesure nette e alle definizioni rigide ssono anche d’accordo con te, ma un conto e il procedere per compartimenti (e nessuno l’ha affermato), altra cosa è procedere per saltum: ora, pur in un’ottica evolutiva, trovo che parlare di “decadentismo” per un’opera concepita alla fine degli anni ’30 dell’800 sia un po’ pretestuoso…(anche se, a dir il vero, Ulisse ha espresso un suo (legittimo) gusto tradotto in un’aspettativa).
L’Olandese di Karajan, invece, mi pare minato da quegli eccessi di manierismo (leziosità, preziosismi etc..) che caratterizzano l’ultima fase della sua carriera, oltre a dover scontare le urla belluine della Vejzovic (pupilla del direttore)…probabilmente la peggior Senta testimoniata dal disco
Cosa ne dite di questo?
http://www.youtube.com/watch?v=M6iiPbBRGHQ&feature=related
Faccio un po’ fatica a pensare alla lettura di Klemperer come qualcosa che faccia intravedere, o immergere, le suggestioni dell’ “Olandese” nel decadentismo o nel clima nibelungico.
L’ho sempre trovata così intimamente romantica, forse frastagliata negli impasti orchestrali, ma mai pesanti o grevi nonostante i tempi lenti che non trascurano certe dolcezze musicali che più che al Wagner degli anni ’50-’70 fa pensare ai contemporanei: basti pensare che sceglie la versione di Dresda in tre atti e riporta la ballata (ipnotica, visionaria, molto cerebrale) al suo tono originario.
Solti non doveva apprezzare granché l’ “Olandese”; lo frequentò poco e lo incise con malavoglia ed in maniera sbrigativa “per contratto”: bel suono, ma troppo veloce, troppo gelido, troppo superficiale. Non fa storia.
Sinopoli, direttore che amo moltissimo in Wagner, ne diede una lettura fondata sui contrasti: sanguigni ed esacerbati per l’Olandese, morbidi, allucinati, teneri di lucida follia per Senta.
Per certi versi possiede una specie di atemporalità novecentesca sia nell’edizione in studio, sia nelle belle recite di Bayreuth in cui l’accumulo di tensione diventava davvero catarsi nel finale.
Leggendo l’interessante articolo di Marianne e i commenti di chi ha ascoltato questo Olandese, con concorde (a quanto mi sembra) giudizio circa l’eccellente direzione d’orchesta di Thielemann e la pessima prova dei cantanti mi sovviene una domanda che mi piace porgervi.
Atteso che Thielemann ha senz’altro scelto (o, quanto meno avallato la scelta altrui) i cantanti che si sono esibiti e che sono stati del tutto inappropriati, al di là dei cambi di cast per ragioni extramusicali, quanto può incidere sul giudizio generale nei confronti del direttore d’orchestra (che è anche maestro concertatore) la scelta di un cast mediocre? Ha Thielemann una precisa responsabilità nella riuscita parziale dell’opera? Può essere considerato Thielemann un grandissimo direttore d’orchestra sebbene – evidentemente – non sia in grado di scegliere cantanti adeguati (almeno per questa edizione, s’intende)?
I cast a Bayreuth vengono scelti o da Eva Wagner-Pasquier oppure da lei in accordo con Thielemann.
Ad esempio quando Thielemann fu invitato a Bayreuth nei primi anni 2000 (Meistersinger e Parsifal) i cast che si trovava a gestire erano già stati scelti, mentre più tardi con Tannhauser e soprattutto Ring e Fliegende Hollaender il direttore ha lavorato con la Wagner-Pasquier in tandem.
Personalmente tendo a scindere le cose nel mio giudizio: ha Thielemann diretto una bellissima edizione MUSICALE dell’Olandese?
Per me SI.
Ha sbagliato a scegliere il cast?
Da ciò che si è ascoltato e dal confronto in chat assolutamente si e la colpa è anche sua.
Thielemann è a parer mio un grande direttore wagneriano (in Strauss, Elektra e Arabella a parte, ed il Beethoven concertistico come giustamente fa notare Duprez, non riesce a trovare una sua collocazione), ma non è aiutato e non sa scegliere alcuni cantanti: basti pensare al Wolfram di Trekel, alla Venus della Nemeth, all’Alberich di Shore, alla Sieglinde della Haller, alla Fricka della Breedt (meglio però in Magdalene e Venus, paradossalmente), al Siegfried di Gould, al Donner-Gunther di Lukas, al Siegmund di Wottrich, al cast di questo Olandese in cui il migliore era… il timoniere!
Capisco che si debba fare di necessità virtù e probabilmente molti cantanti si rifiutano di cantare a Bayreuth (giustamente), ma perché non provare a cercare alternative come una Senta di Jennifer Wilson o della giovane Christiane Libor, un Daland come Hans Peter Koenig o Georg Zeppenfeld, un Erik come Robert Dean Smith o Nikolai Schukoff… per l’Olandese è già più difficile perché le opzioni si riducono a Struckmann, Dohmen (calanti e a serate alterne vista la consunzione della voce, ma non del carisma…) oppure i leggerini Volle o Reuter… oppure perchè non cercare altrove da quello che propongono le stagioni e dare una svolta decisa con cantanti mirati, anche sconosciuti, ma padroni dello stile e del canto?
Troppa grazia…
Va comunque aggiunto, per spiegare meglio la situazione attuale, che fino a pochi anni fa la consulente per il casting a Bayreuth era stata per lungo tempo Dorothea Glatt, persona comunque prudente e competente, che usava provare i giovani cantanti wagneriani o potenziali tali all’ Opera di Nizza dove era vicedirettrice, prima di esporli al rischio di un esordio sul palcoscenico di Bayreuth. Ora invece, là come altrove, sembra proprio che delle voci non gliene freghi più niente a nessuno.
che i direttori di oggi non scelgano i cantanti è come credere a Gesù Bambino.
Li scelgono eccome solo che non li sanno scegliereperchè credono che sia una cosa “deteriore” intersi di canto e di vocalità. E poi spesso, come spesso accade nella vita si deve fare di necessità virtù. In questo repertorio “fichi secchi” , “necessità virtù”, “chi si contenta gode” sono frasi che circolano da almeno cinquant’anni. Personalmente ,e per quel niente che conta la mia persona, non ho mai sentito un cantante wagneriano degno di questo nome e delle difficoltà vocali ed espressive, che l’autore richiede. Se poi le bacchette sono di qualità questo è e rimane un insufficiente palliativo.
Rispondendo a Marianne:
A me piace – della direzione di Klemperer – il senso di “ballata romantica”, di antica leggenda, di favola gotica (ben lontana, dunque, dalle cupezze nibelungiche o dai risvolti metafisici – che pure, più tardi, Wagner vorrà dare al suo vecchio Olandese: l’ideale di redenzione e il suo tema che trasforma il finale originale e il significato tutto dell’opera). Certo le sonorità sono massicce e l’orchestra ruggisce (specialmente gli ottoni), a sottolineare il carattere dell’orchestrazione originale (Dresda 1843 – in tre atti, perché la versione in atto unico rimase, inizialmente, solo progettata dall’autore, in vista della rappresentazione parigina, per unirla, più facilmente, a un balletto), ancora priva dei raffinati cromatismi degli anni ’60, che sfoceranno nel Tristano. A volte il passo di Klemperer è eccessivamente lento (purtroppo sua caratteristica nell’ultima fase della carriera), ma nel complesso il discorso musicale si sviluppa in modo perfettamente equilibrato. Mi sembra, però, che la ballata di Senta sia nella solita tonalità di Sol minore e non nell’originale La minore (Wagner fu costretto ad abbassarla di un tono perché la Devrient non reggeva la tessitura, con una brutta incoerenza armonica).
L’edizione diretta da Solti, invece, non la ridurrei a mero “dovere contrattuale” a spiegazione di un esito piuttosto interlocutorio (come sostiene, al solito superficialmente, Giudici): è del tutto assimilabile, nell’approccio, al Ring, al Lohengrin, al Tannhauser…solo che quell’approccio (violento, vitalistico, incalzante) poco si addice all’Olandese. L’orchestra è magnifica e nella media sono i cantanti…è Solti che imprime un passo che guarda troppo in avanti: legge l’Olandese – come quasi tutti (ma ancor più esasperando) – alla luce delle opere successive (e immagino adotti la vecchia partitura curata nel 1896 da Weingartner che “pretese” di trovare una veste definitiva ad un’opera che Wagner non definì affatto e che ancora negli anni ’80 dell’800 pensava di rivedere completamente).
Sinopoli, invece, affianca momenti splendidi ad altri francamente troppo chiassosi (il suo cast, oltretutto, non è certo irreprensibile).
Meglio, a questo punto, l’edizione diretta da Barenboim (che adotta l’edizione del 1860, ma riporta la ballata in La minore e, saggiamente, elimina dal finale dell’ouverture e dell’opera il tema della redenzione).
Rispondendo a Davide Devoti:
Thielemann è senz’altro un bravo direttore (pur con grossi limiti in larghe fette del repertorio): con Wagner ha deciso – con una certa dose di opportunismo – di ripercorrere strade già battute e ribattute…riproponendo una visione molto germanica e “sacrale” della sua opera. Piace (a molti), ma non aggiunge un granché nella storia dell’interpretazione wagneriana (un po’ come il Mozart di Abbado che dice poco o nulla, salvo la scontata constatazione del fatto che sia senz’altro “ben suonato”). Ecco il Wagner di Thielemann è ben suonato, è rassicurante, è tutto esattamente come e dove te lo aspetti (i piani, i forti, i rallentandi, le esplosioni sonore: tutto previsto e prevedibile). E’ un grande direttore? Per me no. E’ molto più interessante il Wagner di Janowski (molto notturno e poetico, leggero, romantico), quello di Pappano, quello di Gergiev, Quello di Salonen e persino quello di Rattle… Purtroppo Boulez è sempre più ritirato e affronta poco l’opera.
Sulle responsabilità di Thielemann nella scelta dei cast? Non credo scelga lui i cantanti (soprattutto in un’istituzione come Bayreuth dove tutti obbediscono al volere dei nipoti e pronipoti del buon Richard), certamente, però, dopo le prime prove, può protestarlo… Non l’ha fatto, probabilmente non ne ha avuto interesse: ma non per questo motivo non lo ritengo un grande direttore d’orchestra (piuttosto per quelli che ho esposto sopra).
Rispondendo (tra il serio e il faceto) a Donzelli:
Non sono molto d’accordo con te. La musica di Wagner – a differenza di altri repertori operistici – richiede grandi orchestre e grandi direttori, così come cantanti che mettano in secondo piano il loro protagonismo ai fini della riuscita complessiva (perché l’opera non è un concerto). Ovviamente è un repertorio che, se non piace, allora si mal sopporta. Se poi si ritiene il direttore d’orchestra un inutile orpello che si deve limitare ad accompagnare…beh, forse è proprio il genere sbagliato. Ti suggerisco di leggere le vicissitudini di Mahler (nel bel libro di La Grange) quando rivoluzionò, a Vienna, il modo di eseguire Wagner, licenziando le vecchie glorie – che ormai curavano principalmente il loro smisurato ego (con capricci degni dell’opera italiana) – per sostituirle con cantanti che rispondessero solo alle sue concezioni musicali. Cercò di farlo anche al Met, ma durò poco, e si preferì tornare ai Bodanzky (che si preoccupava più di finir presto lo spettacolo, per andare a giocare a carte piuttosto che della bassa qualità dell’orchestra)..per non “disturbare” i divi… In merito ai quali potrei dire che se pure si tratta (e non sempre) di grandi cantanti, questo – con un infima qualità orchestrale e direttoriale – “è e rimane un insufficiente palliativo”.
Non credo che qui sia questione di cantanti con manie di protagonismo, e neppure dei gusti, più o meno eruditi o “evoluti” che dir si voglia, dei melomani. Se ascoltiamo quanto correntemente propongono i conventi di Bayreuth, Salzburg, Vienna, giù giù fino ai teatri di casa nostra, udiamo per il solito voci non avvezze e non allenate al canto professionale, donde grida, latrati e lamenti assortiti spacciati, magari, per esecuzioni di riferimento. Wagner è autore che merita qualcosa di meglio. E speriamo di proporne, in futuro, qualche esempio. Di rigoroso passatismo, ça va sans dire.
Però Wagner non si esaurisce nella melomania, neppure nel cantante…perché un Wagner ben cantato e mal suonato è sgradevole esattamente come il contrario (anzi, di più, atteso che il canto non è protagonista unico). Certo ultimamente a Bayreuth non si ascolta più nemmeno un Wagner ben diretto – dato che i direttori che avrebbero qualcosa da dire non sono scritturati oppure non vogliono andarci – speriamo vogliano stupirci nella stagione del bicentenario (con Petrenko).
A parte Botha, la Foster, la scelta obbligata di Lance Ryan, in parte la Mahnke e Ulrich questi i cast del Ring del prossimo anno.
Il Tristan con i resti di Gould e la Westbroek declinante è sintomatico…
http://www.der-neue-merker.eu/infos-des-tages-26-juli-2012
Parlavo principalmente di direttori però.
Certo, ma mentre attendiamo l’interpretazione di Petrenko balocchiamoci con i cast 😉
Per ora i direttori invitati per le prossime edizioni si esauriscono con Thielemann (Olandese, Tannhauser, Tristan, Lohengrin), Nelsons (Lohengrin, Parsifal), Petrenko (Ring).
Attendiamo novità direttoriali…
Beh… dopo l’esito della PRIMA recita, a Festival ancora da concludere, si sa già che la Pieczonka non riprenderà Senta il prossimo anno, perchè le è stata preferita Ricarda Merbeth, già interprete del ruolo nel tour bayreuthiano a Barcellona.
Che già aveva cantato il ruolo con Janowski
Hanno già pubblicato l’incisione e concordo Janowski è direttore del massimo interesse in Wagner
Concordo. Io vidi uno splendido Tristan con lui alla Fenice, nel 1994