Il ritorno di Giuseppe Verdi a Milano alla fine del 1844 si rese necessario per riallestire gli amatissimi “Lombardi alla prima crociata” al Teatro alla Scala e per soddisfare una richiesta di Merelli: la composizione di una nuova opera da portare in scena entro il Febbraio successivo per adempiere ad un accordo precedente che giaceva inadempiuto da un anno.
Il librettista non sarebbe stato Francesco Maria Piave, come da precedenti accordi, ma il fidato Temistocle Solera già autore per Verdi dei libretti di “Oberto”, “Nabucco” e “Lombardi” e ritenuto un maestro nel gestire quelle situazioni e quelle trame che richiedessero un risvolto sacro.
Non a caso il Solera, che ebbe carta bianca nella scelta del soggetto sia da parte del compositore sia dal Merelli, si orientò verso un dramma di Friedrich Schiller “La pulzella d’Orléans” del 1801, una tragedia dai contenuti sfaccettati, volutamente senza alcuna pretesa di realtà storica o ricostruzione, dalla poesia ricercatissima, incentrata sul profondo dissidio interiore vissuto profondamente dalla protagonista che si dibatte, oltre che sul campo, anche tra l’amore verso Dio, l’amore verso la Patria, l’amore terreno e impossibile verso Lionel, un giovane soldato inglese.
Non solo: Giovanna, non ancora Santa nell’ottocento, ma figura mitica della cristianità, diventa perciò un simbolo, un’emblema, un’ideale, un prototipo quasi metaforico di moralità e fede cristiana, l’eroina di una epopea religiosa portatrice di nuovi valori e nuovi contenuti.
Un’opera, quella di Schiller, caratterizzata da una grande varietà di personaggi, circa trenta, che arricchiscono il soggetto di una serie di sottotrame dal sapore patriottico, morale e amoroso e che contribuiscono a intensificare e riscattare i tormenti di Giovanna; molto probabilmente proprio gli assunti liberali, il lato “rivoluzionario”, i cori certamente risorgimentali (ma non straordinari), i monologhi della protagonista accesero certamente la fantasia verdiana, ma non a sufficienza, per la creazione di una nuova grammatica musicale o una svolta nella carriera.
Tale pacato “disinteresse” era dovuto probabilmente al fatto che il soggetto non fosse affatto nuovo, e Verdi era galvanizzato dalle novità; basti pensare che prima di lui Destouches, Konradin, Kreutzer, Vaccai, Balfe, Pacini dallo stesso Schiller, con alterni successi, tra parodie della figura e mitizzazioni avevano già portato una loro visione dell’eroina sui palcoscenici d’Europa.
In più il compositore era negli anni in cui doveva necessariamente intensificare la produzione operistica per far fronte alle continue richieste arrivando a strozzarsi con due-tre opere all’anno: occorreva dunque andare al nocciolo della storia anche sacrificando certe finezze psicologiche o certo sperimentalismo musicale.
Intanto Solera, come dimostra la corrispondenza con Ricordi, tranquillizzò quest’ultimo sui problemi legati ai diritti d’autore che un soggetto così abusato potesse creargli: il soggetto, per il poeta era del tutto nuovo, Schillera restava la fonte di ispirazione primaria per mantenere l’ossatura della trama, ma la creazione dei versi e dei personaggi era originale e “italiana”.
Così i personaggi da una trentina scesero a cinque e tre di fatto protagonistici; il protagonista tenorile, Carlo, fondeva sia il sovrano sia il giovane inglese che condivideva con Giovanna l’episodio amoroso; il padre di Giovanna sarebbe diventato il tremendo persecutore; Solera avrebbe integrato la trama primigenia, con eventi fantastici e soprannaturali eco dei demoni e dei tormenti interiori della protagonista; lo scontro Giovanna-Carlo, Giovanna-Giacomo, Giacomo-Carlo ed il finale, oltre al duetto padre-figlia, avrebbero accolto le soluzioni schilleriane mostrando in scena anche l’eroica morte di Giovanna sul campo di battaglia.
Maggiore risalto, almeno sulla carta, si diede alla figura paterna, autentica nemesi di Giovanna in quanto cieco e fanatico accusatore presso i francesi prima e successivamente gli inglesi e poi genitore disperato e finalmente tenero presso la figlia.
La poesia del Solera di fatto prosciugò gli eventi e la ricercatezza del testo tedesco, rendendo la trama più frammentaria, banale, attraverso uno stile che oggi potrebbe muovere al riso per certi contenuti quanto meno grotteschi (i cori demoniaci, le invettive amorose di Carlo, quelle più feroci di Giacomo), ma all’epoca avevano una precisa funzione stilistica e scenica se pensiamo ad una certa estetica del “brutto” e alla svolta che la Scala stava intraprendendo portando in Italia i sapori del Grand Opéra parigino irto di situazioni fantasmagoriche dal gusto che oggi definiremmo giustamente “kitsch”.
Era la naturale evoluzione del gusto, che porterà il compositore ad imbattersi nel germe di quei temi soprannaturali e profetici che ritroveremo più maturi e amplificati nelle opere successive.
La censura, di fronte ad un soggetto che aveva per protagonista una fanciulla mossa da Dio, pensò bene di metterci lo zampino procedendo a depurare il libretto dai troppi “Iddio”, dalle troppe invocazioni a “Maria” (cosa che accadde precedentemente anche nei “Lombardi), dalla passionalità troppo ruspante di Carlo, dai continui riferimenti, ritenuti scandalosi per una creatura mistica, alla “verginità” di Giovanna, prova della sua purezza divina e della bontà della sua missione.
I cantanti chiamati a interpretare i tre ruoli principali quel 15 Febbraio 1845, provenivano tutti dai “Lombardi”, ovvero la diva Erminia Frezzolini, il marito e tenore Antonio Poggi ed il baritono Filippo Colini: nessuno di questi era però in forma smagliante.
La Frezzolini, sempre travolgente in scena, stava perdendo lo smalto e le sonorità dei registri centrale e grave, mentre continuava a svettare negli acuti e nelle agilità di forza; per questo motivo Verdi le concedette le pagine più alte dell’opera in cui esaltare i pregi della vocalità privilegiando un canto etereo ma passionalissimo, votato alla visionarietà, all’intimismo, ma anche alla complessità della struttura melodica attraverso una scrittura che riusciva ad alternare morbidezze, dolcezze a fior di labbro e spigolature. Da non sottovalutare le fiondate verso l’acuto (fino al Re) ed il passaggio, senza tralasciare alcun effetto espressivo, stilema già ampiamente sfruttato con esiti altrettanto elettrizzanti presso Abigaille, Giselda e successivamente Odabella e Lady Macbeth.
Poggi purtroppo non piaceva al pubblico sia come artista, sia per certe sue simpatie austriache: infatti ha il ruolo dalla scrittura più convenzionale, il solito tenore da primo Verdi poco esteso, elegiaco, ma dalla declamazione spinta e pungente e dalla scrittura risaputa.
Il problema di Colini, baritono chiaro, lirico e melismatico, elegantissimo, dalla coloratura lieve e dinamica, era la poca aderenza ad un ruolo troppo persecutorio e veemente per le sue caratteristiche vocali e psicologiche che a poco potevano servire per rendere il lato più malsano di Giacomo, mentre molto potevano fare nei risvolti più intimi e disperati.
Aggiungiamo un’orchestra ed un coro di fatto impreparati; scene e costumi scadenti; Merelli che cercava di vendere all’insaputa di Verdi lo spartito a Ricordi; un riscontro da parte della critica ostile se non proprio denigratorio nei confronti di un’opera che nonostante certe sperimentazioni non portava grandi novità musicali; insomma la rabbia del compositore montò a tal punto da proclamare “Giovanna d’Arco”, sua settima fatica, il suo risultato artistico migliore (e se ne dovette ricordare anche quando la consigliò all’amatissima Teresa Stotz) e ruppe di fatto con il primo teatro milanese, che dovette scontare molti anni prima di poter allestire una nuova opera di Verdi (penso al “Simon Boccanegra”, “Forza del destino”, “Don Carlo”) o di poterne commissionare una (il vertice di “Otello”).
Nonostante tale clima l’opera fu bene accolta dal pubblico, il quale si riconobbe, come di prammatica, nei pomposi, marziali, ma convenzionali corali dei francesi oppressi e nel sacro fuoco patriottico di Giovanna, ottenendo ben diciassette recite complessive, successo che si ripeté anche a Parigi in cui rimase stabile in repertorio; un successo popolare di larga presa che, a titolo aneddotico, produsse la costruzione di un ingombrante organo ligneo che fatto circolare per le strade di Milano diffondeva le melodie dell’opera.
Nei venticinque anni seguenti, a causa della censura papalina, “Giovanna d’Arco” dovette circolare nei teatri italiani sotto vari pseudonimi e trame come ad esempio “Orietta di Lesbo”, storia di una coraggiosa fanciulla genovese che nell’isola del titolo fomenta il popolo contro gli invasori turchi, per precipitare nel dimenticatoio e venire ripescata a Napoli, complice Renata Tebaldi, durante le celebrazioni del cinquantenario dalla morte di Verdi.
A titolo personale ritengo la “Giovanna d’arco” un vivaio musicale a cui Verdi attingerà negli anni seguenti per ampliare certi linguaggi, certe sonorità, certe idee rimaste qui allo stato larvale, ma affatto dimenticati nonostante il loro gusto non raffinatissimo.
La struttura della musica per certi versi ricorda le interessanti evoluzioni future che troveranno ben più ampio respiro nei vertici del Macbeth, nell’Ernani, nella più matura Traviata, fino al Ballo in maschera ed al Requiem.
L’ouverture ad esempio rappresenta perfettamente tale semplificazione: se l’ispirazione rimane relegata ai confini rossiniani e belliniani, lo svolgimento vibra di felice vivacità: i suoni pastorali vengono interrotti da qualli onomatopeici della tempesta imminente metafora dello scontro non solo naturale tra cielo e terra, ma anche quello più politico tra francesi e inglesi; le sonorità, divise per sezioni riconoscibili, prediligono il martellare delle trombe, dei tromboni e del cimbasso accostato al suono più tenue e rinforzato del flauto che mitiga il senso di cupa minaccia e introduce il montante tremolo degli archi. Esattamente come avverrà nell’Attila in cui i cambiamenti atmosferici accompagnano le evoluzioni psicologice dei singoli.
Ma è certamente a Giovanna a cui sono dedicate le pagine migliori dell’opera: basti citare “O fatidica foresta” con la sua invocazione alla Vergine che richiama certe arie donizettiane o di Mercadante, il duetto con Carlo “Dunque o cruda”, il concertato grandioso che conclude il finale secondo, il duetto di riconoscimento tra padre e figlia, il finale dell’opera in cui le voci degli spiriti soprannaturali, quelli delle truppe e di Giovanna portano la catarsi a farsi luminosa e dilagare trionfalmente, ma con austera drammaticità.
Gli ascolti
Giuseppe Verdi
Giovanna D’Arco
Sinfonia – Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, dir. Bruno Bartoletti (1972)
Prologo
Qual v’ha speme?…Sotto una quercia parvemi…Pondo è letal martirio – Carlo Bergonzi, Giulio Scarinci, dir. Alfredo Simonetto (1951), Flaviano Labò, Italo D’Amico, dir. Bruno Bartoletti (1972)
Gelo, terror m’invade…Oh, ben s’addice…Sempre all’alba ed alla sera…Pronta io sono! – Renata Tebaldi, Carlo Bergonzi, Rolando Panerai, dir. Alfredo Simonetto (1951), Margaret Price, Carlo Bergonzi, Sherrill Milnes, dir. Richard Bradshaw (1985)
Atto I
Ai lari! Alla patria!…Franco son io…So che per via di triboli – Rolando Panerai, Antonio Massaria, dir. Alfredo Simonetto (1951), Mario Sereni, Rosario Amore, dir. Bruno Bartoletti (1972)
Qui! Qui!… Dove più s’apre…O fatidica foresta – Renata Tebaldi, dir. Alfredo Simonetto (1951), Margaret Price, dir. Richard Bradshaw (1985)
Ho risolto…Dunque o cruda…T’arretri e palpiti…Vieni al tempio, e ti consola – Margaret Price & Carlo Bergonzi, dir. Richard Bradshaw (1985)
Atto II
Dal cielo a noi chi viene…Ecco il luogo ed il momento…Comparire il ciel m’ha stretto…No! Forme d’angelo…Del sacrilego misfatto – Mario Sereni, Flaviano Labò, Katia Ricciarelli, dir. Bruno Bartoletti (1972)
Atto III
I franchi! I franchi!…Ecco! Ardite ed ululando…Amai, ma un solo istante…Or dal padre benedetta – Renata Tebaldi & Rolando Panerai, dir. Alfredo Simonetto (!951), Katia Ricciarelli & Mario Sereni, dir. Bruno Bartoletti (1972)
Ecco! Ella vola!…Quale più fido amico…S’apre il cielo – Rolando Panerai, Carlo Bergonzi, Renata Tebaldi, dir. Alfredo Simonetto (1951)
Dopo il mediocre ascolto radiofanico da Martina Franca urge consigliare alla Pratt di tirar finalmente fuori le unghie da primadonna e avere il coraggio di mandare al diavolo un direttore che l’ha ingabbiata in accompagnamenti rigidissimi e claustrofobici proibendole, di fatto, di variare le arie come avrebbe (e dovrebbe) fare. Altrimenti meglio lasciar perdere simili approdi “verdiani” , inconcludenti e fuorvianti.
ne parleremo nella recensione che arriverà. Pazientate ancora un pochetto…..