La prova generale del concerto bolognese dell’Orchestra Mozart (11 giugno, destinato a essere ripreso al Festival di Salisburgo il prossimo 28 luglio), inizialmente previsto alla Chiesa di San Domenico (e poi spostato, per ovvie ragioni logistiche, all’Auditorium Manzoni), è stata aperta al pubblico allo scopo di raccogliere fondi per le popolazioni colpite dal sisma che nelle ultime settimane ha interessato il Nord Italia e, in particolare, l’Emilia. Iniziativa doppiamente meritoria: la disponibilità dell’orchestra, dell’Arnold Schönberg Chor e dei solisti ha offerto a molti spettatori la possibilità di assistere a un’anteprima di fatto del concerto, quando la serata dell’11 aveva registrato il tutto esaurito praticamente pochi minuti dopo l’apertura del botteghino. La Repubblica, il quotidiano che ha curato l’organizzazione dell’evento, e il cui direttore Ezio Mauro, introducendo la serata, ha dato vita a un estemporaneo “prologo in cielo” di cui avremmo fatto volentieri a meno (siamo dell’avviso che la beneficenza sia tanto più meritoria quanto meno ostentata da chi se ne faccia promotore), riferiva il giorno successivo della presenza di tanti giovani, che in circostanze ordinarie avrebbero potuto partecipare al concerto. Da parte nostra registriamo costernati, con riferimento alla prova generale, la presenza dei soliti itineranti per statuto, stanziali di fatto, fanatici del Maestro Abbado, per l’occasione in trasferta dalla Scala matrigna che si appresta al sospirato e già più volte rimandato nostos. Un pubblico tutt’altro che nuovo, in ogni possibile accezione del termine, tanto meno giovane e in nessun caso fuori dall’ordinario.
Il programma del concerto abbinava la “Waisenhausmesse” KV 139 di Mozart e la Messa D 950 di Schubert. La prima parte del concerto non è apparsa allo stesso livello della seconda, vuoi per l’ispirazione, felice nel dodicenne Mozart ma non così elevata come nel prescelto Schubert, vuoi per la scelta, da parte di Abbado, di rendere la “Waisenhausmesse” con i limiti di sempre nell’approccio al Salisburghese, visto come un modello di grazia e soavità non immuni da una certa leziosaggine e, quel che è peggio, con attacchi e interventi non sempre irreprensibili da parte dell’orchestra (ottoni in primis) e in alcuni punti, anche del coro. Coro che è invece apparso in grande forma in Schubert, trascinato al pari dell’orchestra da una lettura incandescente ma priva di forzature, capace di conciliare la grandiosità del Gloria e del Sanctus con il maggiore lirismo di altri momenti (su tutti il limpido, quasi attonito Kyrie), mentre la preziosità degli impasti timbrici veniva esaltata dall’organico – giustamente – “da camera”. Del coro risultava per contro censurabile la dizione latina, che più che alla filologica “restituta” sembrava ispirarsi alla maniera tedesca (es. “cruZifixus”, “qVoniam”, “uniGHEnite”). Peraltro i solisti, anche quelli di nazionalità italiana, si uniformavano per lo più a questa pronuncia e non era questo il solo malvezzo “tedesco” praticato dagli stessi.
Nel dettaglio, e partendo da Mozart: Roberta Invernizzi, che sostituiva l’indisposta Rachel Harnisch, sfoggiava vocetta da puer cantor, chioccia e malferma nelle semplici agilità previste nel Kyrie, agilità peraltro emesse a forza di vistose smorfie e contorcimenti. Identica proiezione, o assenza della stessa, per il nominale contralto Sara Mingardo, dal timbro artificiosamente oscurato a simulare uno spessore inesistente al grave, comunque più composto del soprano nell’esecuzione del canto fiorito. Più composto e non più sonoro. Poco si sentiva anche Alex Esposito, che spesso sembrava parlottare (anche qui appare improprio parlare di cavata, per la voce cui spetterebbe il ruolo di basso continuo nel quartetto solistico), mentre Javier Camarena, musicalmente garbato almeno quanto il direttore, era messo alle strette dall’attacco dell’Agnus Dei, che il compositore ha avuto la pessima idea di costruire a metà strada fra il registro medio e i primi acuti (do-sol). Purtroppo in quella zona della voce non è sufficiente la generosa natura, e figuriamoci quel che accade quando non c’è neppure quella. Peraltro la stonatura era (profeticamente?) preparata da analogo suono calante da parte degli ottoni. Corrispondenza di musicali sensi o analoghi problemi nel risolvere un passaggio, diciamo tecnicamente spinoso?
Identici limiti, analogo risultato per i due solisti aggiunti in Schubert. In luogo della Harnisch abbiamo udito Bernarda Bobro, in cui la generosa complessione non si sposa a voce di eguale ricchezza e sontuosità: il timbro da soprano lirico leggero, non sgradevole, è piuttosto aspro, più che per limiti naturali, per problemi di imposto vocale, gli stessi che la inducono ad accennare nel registro medio e ad emettere su un semplice si bemolle acuto (“dona nobis pacem” nell’Agnus Dei) suoni puntuti e ben poco piacevoli. Naturalmente la signora Bobro è già approdata al Covent Garden, quale Violetta Valéry. Il secondo tenore, Paolo Fanale, rispondeva con perfetta coerenza agli interventi di Camarena (da brividi, malgrado l’impegno dell’orchestra, il terzetto con il soprano alle parole “Et incarnatus est”).
È possibile che al risultato maggiormente felice della Messa schubertiana rispetto a quella di Mozart abbia contribuito in modo determinante la preminenza conferita in partitura al coro rispetto ai solisti. E non è chiaro per quale ragione il maestro Abbado, valutate le forze di cui disponeva, non abbia scelto di avvalersi di membri dell’Arnold Schönberg Chor per le parti solistiche del concerto. Speriamo che non sia sempre e solo la solita “logica del nome”, potente talismano della scena lirica moderna. La stessa, per intenderci, che porterà Abbado a dirigere, nel concerto inaugurale del prossimo Festival di Lucerna, Juliane Banse, recentemente udita a Vienna in una Vitellia dopo la quale il ritiro dalle scene si pone come l’unica strada percorribile. Ma non compete forse alle divinità, e ai loro devoti, l’operare miracoli?