Estate, tempo di esami e di bilanci anche per la stagione felsinea, che si chiude con il titolo principe del catalogo mozartiano, prediletto dai direttori d’orchestra in cerca di onori e blasone, e in quanto tale affidato al direttore musicale del teatro, Michele Mariotti. Direttore musicale di fatto, seppur mai oggetto di formale investitura, anzi inizialmente reclutato quale primo direttore giovane (o analoga qualifica, che fa pensare all’attor giovane delle tradizionali compagnie di prosa) e in seguito promosso sul campo. Un po’ come il Cherubino di Beaumarchais. In una torrida domenica pomeriggio abbiamo assistito a una ripresa dell’allestimento concepito alcuni anni fa da Mario Martone per il San Carlo. Allestimento assolutamente tradizionale, sebbene la moda della scena unica (dominata da una tavolata impavesata e, alla fine, imbandita) costringa la povera Contessa a posare sul pavimento, con alcuni cuscini quale unico giaciglio, sorta di Kundry in salsa andalusa. Altra concessione alla moda del “teatro nuovo”, la scelta di fare agire i cantanti, in alcune scene, tra le prime file e il corridoio della platea, grazie a due passerelle collocate ai lati dell’orchestra (un po’ come nel Viaggio ronconiano). Peccato che solo in alcuni punti la regia riesca ad approfittare delle suggestioni offerte da una simile soluzione (ad es. quando Figaro canta l’incipit dell’aria che chiude il primo atto rivolgendosi non a Cherubino ma al Conte, che si avvia a uscire dal fondo della sala).
Il clima all’interno e all’esterno del teatro evocava scenari di deserti africani. Deserti o semideserti anche molti palchi, che solo dopo l’unico intervallo si sono blandamente ripopolati, mentre il loggione si svuotava di conseguenza. L’opera del resto è lunga e la ricerca di comodità più che legittima, specie se non ci sono resse e sovraffollamenti da fronteggiare. Non cospicua, atteso il titolo e la natura di matinée della recita, anche la lista per accedere al loggione, unico luogo cui non si estendeva il nominale sold out dello spettacolo.
Visto che è tempo di esami e che i suddetti non finiscono mai, specie per chi svolga professioni legate al mondo delle cosiddette performing arts, è il caso di distinguere, anche nella recita bolognese, teoria e pratica. Potremmo anche dire, scritto e orale, formula abituale per i maturandi che proprio in questi giorni affrontano la chiusura del proprio percorso di scuola media superiore.
L’impostazione teorica del maestro Mariotti è fin dal gesto debitrice di quella di Claudio Abbado: movimenti ampi, fluidi, molto eleganti a vedersi. Forse non sempre agevoli a seguirsi per l’orchestra, che sebbene largheggi in finezze (a volte al limite della leziosità, come gli inamidati crescendo dell’ouverture) non brilla per pulizia di suono e precisione di attacchi. Preciso che l’impressione di una lettura magari meditata, ma poco provata sul campo, è evidente soprattutto nella seconda parte dello spettacolo (terzo e quarto atto) e segnatamente ai concertati come il famoso sestetto, in cui più volte anche i solisti di canto risultano abbandonati a loro stessi (idem dicasi per il finale terzo, in cui Figaro si ritrova a pasticciare il suo intervento “Un biglietto che gli diè…”). Il turgore sonoro di alcuni punti (stretta del finale secondo, marcia al finale terzo) e la scelta, nei momenti patetici, su tutti gli interventi della Contessa, di tempi ampi e solenni fanno invece pensare più a Muti che ad Abbado. Solo che per sostenere l’uno e l’altra servirebbe tutt’altra compagnia di canto. A conferma che spesso dai maestri si imparano più facilmente gli errori e le ostinazioni, e non le scelte o le intuizioni vincenti.
E cominciamo proprio dalla Rosina di Carmela Remigio, già soprano lirico da Massenet e Puccini, che per usura del mezzo non potendo più sostenere gli orchestrali relativamente onerosi del repertorio tra fine Otto e primi Novecento si è ormai votata in via pressoché esclusiva al Salisburghese, passando nel giro di pochi anni da Donna Anna (patrimonio un tempo dei soprani drammatici, magari da Wagner, oggi delle debuttanti, magari più dotate della media) a Donna Elvira, Fiordiligi e appunto alla Contessa. Cavatina “Porgi Amor”: nelle frasi costruite sulla quinta sibem3-fa4 la voce risulta fibrosa e aspra, emerge l’incapacità di legare i suoni nella scaletta ascendente “o mi lascia almen morir” in cui il labem4 culminante è uno strilletto. Ancora peggio vanno le cose all’ultimo “o mi rendi il mio tesoro” in cui la voce si spezza sul sol4, vale a dire sui primi acuti. Al terzetto “Susanna or via, sortite” le salite (opzionali) al do5 sono delegate alla Susanna di Cinzia Forte (dalla padella nella brace, verrebbe da commentare attesi i suoni di malcerta intonazione dalla stessa emessi). Al duetto con Almaviva che apre il finale secondo basta ascoltare una frasetta in prima ottava come “non son rea” (sibem3-la3) per rendersi conto di come la voce non giri e per conseguenza la cantante sia costretta a ricorrere al parlato, con effetti naturalistici che sarebbero da evitare sempre, ma soprattutto alle prese con un personaggio sempre connotato dalla massima nobiltà e compostezza di espressione. Altri potrebbe osservare, che abbiamo qui una creatura palpitante di vita e non una delle solite gelide matrone. Quelle gelide matrone, però, anche quando inveivano contro il marito (recitativo della grande aria del terzo atto), non arrancavano come la Remigio, costretta a ricorrere nuovamente al parlato e “sbracare” sulle parole “umile stato fatale”(si bem3-sol3) emettendo suoni tubati e per conseguenza stentando (eufemismo) sugli acuti, duri e tirati al limite della stecca, e spesso anche oltre come avviene per il la4 di “fammi or cercar da una mia serva aita”. Ma il peggio è il legato, o meglio la mancanza di legato esibita in zona medio-alta al cantabile “Dove sono i bei momenti”, in cui il tempo letargico staccato dal direttore concorre ad obbligare la cantante a riprese di fiato numerose quanto antimusicali. Tralasciamo volentieri il finale ultimo, in cui a questa Contessa, diciamo poco rifinita (altro eufemismo), viene imposto, massimo gesto di seduzione, lo striptease limitatamente alle calze, in un improvvido omaggio alla Laura Antonelli di Malizia. Si aggiunga che, quando canta piano, la cantante non si sente (conseguenza naturale di una voce non proiettata) e avremo il quadro generale, non certo felice, di questa Contessa, che taluni vorrebbero spacciare quale perfetto connubio di splendore vocale e fuoco interpretativo. A costoro consigliamo sommessamente l’ascolto di qualche disco, magari di Gabriella Gatti o Marcella Pobbe, per rendersi conto della differenza, o meglio dell’abisso che passa non già fra teoria e pratica, ma fra coscienziosa pratica dell’arte canora e presa in giro (terzo e speriamo ultimo eufemismo) del pubblico pagante. E Youtube, al pari di tante trasmissioni televisive e radiofoniche, dimostra che questo pomeriggio di malcanto non è un incidente di percorso, ma un saggio attendibile di un percorso accidentato e in perenne conflitto con le richieste dello spartito. Nonché della decenza.
Le altre due signore, cui sono affidati ruoli di primo piano, cantano in maniera del tutto analoga, sia pure disponendo di nature vocali differenti. Cinzia Forte, più appropriata o rectius meno inappropriata quale Susanna piuttosto che come Bolena o Violetta, esibisce voce agra e non sempre a fuoco al centro, acuti fissi e sovente stonati come nell’Aria delle rose, risultando tuttavia più sonora e della Remigio e di Marina Comparato, che come Cherubino propone la solita parodia di mezzosoprano, cara ai soprani lirici che, non sapendo salire agli acuti, gonfiano i suoni in fascia do4-fa4 nel tentativo di simulare il colore “scuro” del mezzosoprano. Perché le voci gravi hanno ovviamente colore scuro, anzi bitumato, come sa chiunque non abbia mai ascoltato un disco di Ebe Stignani. Il risultato è che nella prima aria, malgrado il tempo relativamente rapido staccato dalla bacchetta, i sol4 di “ogni donna” sono fissi e fibrosi, mentre nella seconda ogni ripresa della frase “donna vedete s’io l’ho nel cor” che batte sul fa4-re4 dà luogo a sistematiche stonature. A ciò si aggiunga la condotta scenica, più consona a Giamburrasca che non al paggio in fregola per tutte le donne del castello.
Le voci gravi maschili si distinguono, o per essere esatti, non si distinguono per la presenza dei medesimi difetti: artificioso rigonfiamento al grave, a simulare la cavata e il colore (ovviamente bitumato) del c.d. “vero basso”, e conseguente difficoltà nell’emissione degli acuti e più ancora nel canto sillabico. Il Figaro di Nicola Ulivieri mostra la corda fin dalla Cavatina “Se vuol ballare”, in cui il primo fa è stonato e il secondo simile a un rantolo. Le asperità in acuto si ripresentano ogni qualvolta la tessitura oltrepassi il do (quindi anche nell’incipit del “Non più andrai” che sale al mi) e nella scena del giardino (“Un ristoro al mio cor concedete”, mi bem) abbiamo diritto a un bel (si fa per dire) suono calante e ingolato. Non vanno meglio le cose per l’Almaviva di Simone Alberghini, messo alle strette dalle agilità dell’aria e incapace di trovare, in un canto in perenne difetto di ampiezza e legato, i mezzi per restituire l’alterigia e la collera dell’aristocratico scornato dal servidorame. Bruno Praticò (Bartolo) parla, e per l’appunto interpola nell’aria una frase in vernacolo locale. A questo punto sarebbe stato preferibile ingaggiare Ruggero Raimondi, che se non altro avrebbe potuto trarre partito dalla propria origine emiliana. Tra i comprimari (che comprimari non sono, avendo Mozart previsto arie o passaggi solistici per tutti i personaggi, e avendo Mariotti optato per una versione “uncut”, ossia distante dalle vituperate forbici che tradizionalmente si abbattevano sul quarto atto) l’unico capace di sostenere con dignità professionale la propria parte era il Basilio di Mert Süngü, che malgrado alcuni suoni fiochi sul passaggio, spia di una salita agli acuti quanto meno da rivedere, è risultato perfettamente udibile anche nelle frasi cantate a mezza voce, riuscendo a fare del maestro di musica non il solito ganimede smanceroso, ma una figura cinica e un poco fosca, come si addice al tipo dell’intrigante per eccellenza (una sorta di Tartufo in sedicesimo). Incisivo e misurato nel terzetto, ancora meglio all’aria, affrontata con sicurezza e varietà di accenti, accolta tuttavia da parchi applausi. Del resto il signor Süngü non è, al pari dei colleghi, un divo mozartiano, ma un ventiseienne allievo, già da un paio d’anni, della locale Scuola dell’Opera Italiana (per rimanere in tema di esami), alla sua prima apparizione, salvo errore da parte mia, in uno spettacolo d’opera nella sala del Bibiena. Ricordiamo che il Comunale ha nel recente passato proposto l’Arturo Talbo e il Duca di Mantova di Ivan Magrì.
Gli ascolti
Mozart – Le Nozze di Figaro
Atto III
E Susanna non vien…Dove sono i bei momenti – Victoria de los Angeles (dir. Fritz Reiner – 1952)
Atto IV
Giunse alfine il momento…Deh vieni, non tardar, o gioia bella – Licia Albanese (dir. Ettore Panizza – 1940)
Ho ascoltato la Remigio con una certa frequenza negli ultimi dieci anni, come molti del resto, considerato il suo tentativo, soprattutto ultimamente, di ubiquità in ruoli mozartiani nei teatri italiani… E devo dire che il declino della sua voce è totale quanto imbarazzante. Non che avesse una voce pregiata, ma ci ha messo anche molto di suo per sfasciarsela. Per gli altri protagonisti, anche loro ascoltati più volte, concordo con i giudizi: tutte figure molto sbiadite, imprecise, superflue.
Per quanto riguarda invece lo spettacolo di Martone, lo vidi al San Carlo e lo trovai bello anche se non totalmente convincente (forse perchè a volte un po’ piatto). Ma di sicuro ho un bel ricordo soprattutto per la mancanza di perversioni cerebrali varie, insomma, niente che potesse rientrare nel catalogo della Brandt, e di questi tempi è già qualcosa!
Veramente qualcosa del catalogo di Mary c’è: le entrate che avvengono dappertutto tranne che dalla quinta.
Ma che film avete visto? In due minuti ecco trasformato un successo strepitoso in un fiasco epocale. Vi leggo da poco tempo e mi siete simpatici ma se continuate così perdete totalmente in credibilità. Vorrei continuare a leggervi ma un minimo di attendibilità e obiettività nelle analisi va mantenuta altrimenti si diventa del tutto folkloristici.
Purtroppo caro Carlo , siamo abituati a sentire cantare male, in Mozart soprattutto. Nelle opere vocalmente “facili”, fatte in primis di emissione, si passa e si fa successo sempre ( guardi Villanzon che successo ha avuto in scala in Elisir…ed era semplicemte vergognoso). Il successo è fatto di applausi, cantare bene si fa col canto. IL successo bolognese è uno dei tanti di oggi, più facile da ottenere meno facile da rilevare ai più. tutto qui.
se poi perdiamo di credibilità…poco importa. non saremo da meno dell’ambiente della lirica, che meno crediblie di così non so come possa essere. apresto
Se parliamo di folklore, nessuno batte certi plaudenti della domenica, sempre pronti a osannare i loro beniamini indipendentemente dal livello del canto. Di certi successi l’arte, così come il decoro professionale, può tranquillamente fare a meno.
Aggiungo che l’attendibilità della recensione (oltre che la plausibilità di certi successi) si può facilmente valutare dagli ascolti postati a commento.
Il Folklore alla Moda contempla l’agitar lo spettro del “nun ve legg’ chiù”.