Gli entusiasmi pomposi, tronfi, leziosi, organizzati, insomma falsi che hanno accompagnato l’esito del misero “Rosenkavalier”, si classificano per ciò che sono, ovvero carta velina purissima e parecchio scadente, di fronte alla qualità, questa volta autentica e genuina, del titolo successivo proposto nell’ambito del 75° Festival del Maggio Musocale Fiorentino.
Ammetto che non avrei scommesso due centesimi sull’esito del dittico bartokiano formato dal balletto “Il Mandarino meraviglioso” e “Il castello del Duca Barbablù”, soprattutto in virtù delle varie catastrofi che hanno scoraggiato tale produzione: l’attesissimo Maestro Ozawa, che tornava sul podio fiorentino dopo la magnifica “Elektra”, rinunciatario a causa di problemi di salute e sostituito da Peter Eötvös prima, e, a causa di ulteriori problemi, dal direttore ungherese Zsolt Hamar specialista del repertorio novecentesco, soprattutto sinfonico; il distacco di un frammento della calotta interna del tetto della platea con infiltrazioni d’acqua, ha di fatto bloccato le prove del dittico di una settimana onde consentire i lavori di consolidamento, producendo però la cancellazione della prima e riducendo le recite da tre a due.
In questo clima ben poco ottimista c’era da aspettarsi qualunque cosa: ma si sa, in questi casi o le difficoltà distruggono ciò che resta della buona volontà, oppure la tensione può essere sfruttata a proprio vantaggio per spronare verso un lavoro diverso, più serio, più attento, di autentico amore per l’arte, il teatro e la musica.
Cosa che è appunto avvenuta!
“Il Mandarino meraviglioso” nasce da un libretto di Menyhert (Melchior) Lengyel scritto tra il 1912 ed il ‘16, ma letto da Bartok solo nel 1917 sulla rivista “Nyugat”, il testo ebbe grandissima influenza sul compositore che quasi da subito pensò ad una pantomima basata su un soggetto così audace, “espressionista” che ben riassumeva la crisi esistenziale e politica di quel periodo storico.
Bartok era profondamente attratto più che dalla trama aspra, sanguinaria, senza speranza, dalle atmosfere opprimenti, dall’opprimente senso di nichilismo, dall’annientamento dei valori umani, della carne, del disfacimento dell’uomo: questa storia di squallore ambientato tra adescatrici, miseri assassini, uomini immortali che cercano l’amore e muoiono quando lo hanno trovato, creò all’epoca un ovvio scandalo per la scabrosità dei contenuti, ma ancora oggi genera non poco turbamento.
Il balletto è suddiviso in una introduzione, tre balletti che raffigurano gli altrettanti adescamenti, i tre tentativi di omicidio che hanno per protagonista il Mandarino ed il tragico, liberatorio finale.
Il Maestro Hamar si fida delle sensazioni che lo scritto suscitò in Bartok e profonde ogni sforzo per sostenere le atmosfere della partitura.
Una direzione dinamica, nervosa, che punta sulla tensione generata dalle viole e dagli archi, tutta in crescendo con improvvise interruzioni onde agevolare il più disteso disegno melodico dei tre adescamenti; scene queste in cui le intenzioni di Hamar vengono benissimo sintetizzate dai clarinetti, dagli archi e dagli ottoni (ma con qualche svarione, come sempre accade con l’orchestra del MMF, ma in misura inferiore e meno disastrosa che in altre occasioni) nelle continue scale ascendenti dal fraseggio macabro, scabro eppure sensualissimo.
La densità delle volute orchestrali viene squarciata dal suono delle trombe: è arrivato il Mandarino.
Allora Hamar con asciuttezza fa vibrare le evoluzioni degli arpeggi, la luminosità dei flauti, accentua con precisione il crescendo parossistico orchestrale negli episodi della seduzione e degli omicidi e non teme di rendere aspro, come in partitura, il suono finalmente ritrovato dell’orchestra, il più delle volte diretta con sciatteria: qui c’è mestiere, qui ci sono le idee, e finalmente c’è l’orchestra!
Struggente il finale, quando finalmente il Mandarino e l’adescatrice cedono alle loro pulsioni e si uniscono carnalmente: i toni freddi degli omicidi si trasformano finalmente e diventano calorosi, gli archi ed i legni avvolgono la scena nella disperazione, nella sofferenza, nella malinconica speranza.
Hamar legge tutto questo come una sorta di “Danza dei sette veli” straussiana, ma imbevuta delle tensioni morali del ‘900, dilatata, più pessimista quindi, in cui far scontrare da un lato la pochezza umana fatta di istinto con la capacità di trovare nello squallore una scintilla di amore.
Di fronte ad una prova di questo calibro, grande era la curiosità nei confronti della sua lettura de “Il castello del Duca Barbablù”.
Il “Barbablù” di Hamar è profondamente debitore di Strauss e Debussy nelle atmosfere sospese, trasparenti, impalpabili; ma il Maestro non dirige Bartok come se si trattasse dei due compositori sopracitati; fa ascoltare quanto Bartok si ispiri ad essi ed alla cultura europea del ‘900 e rilegge la partitura come un Thriller-psicologico tutto in crescendo sospeso tra la favola nerissima di Perrault (le prime tre porte) ed i chiaroscuri estremi e spinosi di Balázs e Maurice Maeterlinck.
Magnifico, ad esempio l’inizio, lugubre, a mezza voce, i colori si accavallano tenui, ma grigi, non c’è solo la claustrofobia in quegli archi così galleggianti, oppure nel suono solenne e misterioso dei fiati; c’è la raffigurazione di una richiesta disperata di aiuto, un aggrapparsi timido, ma volitivo ad un amore che vuole essere incondizionato, senza domande, senza timore, solo accettato.
Le tre sale, quella della tortura, delle armi, del tesoro, evocano allora quelle sensazioni fanciullesche che si provano di fronte alla lettura di fiabe terrorizzanti, in cui però la catastrofe sappiamo bene non potrà prendere il posto del lieto fine; ma a partire dalla scena del giardino cambia qualcosa: le sonorità più rilassate, più liriche della sala vengono mutate da Hamar in qualcosa di sinistro; quei fiori macchiati di sangue presagiscono il non detto che a poco a poco verrà svelato ed esploderà con bagliori dorati (fiati, legni, ottoni qui davvero eccezionali) all’apertura della quinta porta: la vista del regno possiede davvero una maestosità fastosa, un trasporto che traduce musicalmente la luminosità, la magnificenza della potenza dell’uomo.
Per contrasto il cristallo purissimo della porta che da sul lago di lacrime torna a quella mezza voce iniziale così carica di presentimenti ed è a questo punto che la tensione così accumulata farà comprendere l’inevitabilità dell’ultima scena. L’orchestra suona la catarsi dell’opera: Judith che come Elsa del “Lohengrin” troppo ha domandato rosa dal dubbio, dalla poca fiducia in quell’amore, dalla poca fiducia in se stessa e in Barbablù, mossa solo dalla volontà di cambiare il suo uomo, ma non di capirlo, verrà relegata nella notte, nel buio, nell’oblio dei ricordi assieme alle altre donne che hanno compiuto lo stesso percorso: Hamar rilassa finalmente l’orchestra, il tono più malioso, malinconico trascolora nel cinismo e lunghissimi diventano gli ultimi splendidi accordi, sospesi, oscuri esattamente come quelli iniziali. Semplicemente da brivido, da commuoversi!
E poi ci vengono a raccontare quanto siano bravi Wellber, Battistoni, Dudamel, Barenboim e compagnia.
Ma per favore!
Sarebbero serviti come minimo la profondità di un Hans Hotter e la complessità di una Frida Leider o Christa Ludwig per reggere una lettura del genere: invece nel canto abbiamo il punto debole degli allestimenti.
Matthias Goerne non regge che forse in tre note centrali la bassa tessitura di Barbablù; note rigide, durissime, ingolfate, inchiostrate, ingolate oltre ogni umana idea proiettate in maniera così pedestre da sparire ingoiato dall’orchestra. L’interprete, tanto osannato altrove per meriti che mi sfuggono, è quanto di più anonimo e privo di mordente o del ben minimo carisma si possa immaginare.
Insomma Goerne si conferma muggitore di prima classe e “artista” minimo se non inesistente.
Daveda Karanas è il solito sopranino corto che diventa per tale virtù un mezzosoprano: l’emissione è vetrosa, disordinata, traballante, il timbro chiarissimo, il Do della quinta porta una fantanota al limite dell’inconsistenza. Eppure a differenza del suo collega cerca col fraseggio di rendere la duplice natura di Judith, spaventata inizialmente e timorosa del proprio amore; killer implacabile dei sentimenti nella seconda parte dell’opera, anche se il lato subdolo e sensuale viene totalmente a mancare.
Straordinarie la regia, le luci e le coreografie affidate a Jo Kanamori ed al suo team (Tsuyoshi Tane, Lina Ghotmek, Dan Dorell per le scene, Yuichi Nakajima per i costumi, Masakazu Ito per gli effetti luminosi, Gianni Paolo Mirenda per le riprese).
Kanamori ha anche lui il coraggio di affidarsi a Bartok per entrambe le composizioni e crea una regia di atmosfere e individui in perenne conflitto e movimento: per il “Mandarino” via la strada malfamata e di periferia, via ogni riferimento temporale; davanti a noi solo un tunnel vorticoso, una distesa verdastra, lurida, cosparsa di indefiniti simulacri di uomini coperti da veli, alcuni dei quali riveleranno la loro natura di Kuroki, servi di scena, mimi e ballerini del teatro No giapponese.
Non sono solo ballerini dunque, ma motori e anima dei personaggi soprattutto del Mandarino con il quale ingaggerà una lotta inedita che vedrà perdenti entrambi.
Al centro della scena e fulcro di ogni luce il tavolo rosso su cui verranno consumati omicidi e amplessi e “dimora-prigione” dell’adescatrice, in questo caso fatta prostituire non da malviventi, ma dalla sua stessa famiglia, ennesimo pugno nello stomaco di una regia complessa che non ci risparmia né il dolore del distacco dell’anima al momento dell’impiccagione, né la potenza dei sentimenti che prende il sopravvento sul corpo del Mandarino fino a distruggerlo con un sorriso (amaro? Di piacere?) sulle labbra. L’adescatrice, nel finale, si allontanerà sola verso la bocca del tunnel dove ora entra un po’ di luce, raffigurazione già bartokiana di quella purezza che il compositore intendeva permeare la sua protagonista.
Più complessa la regia del Barbablù: il castello è come ovvio è la mente, è il cuore di Barbablù, una mente ed un cuore che racchiudono, come quelli di ogni uomo, ombre sanguinose, luci abbaglianti, controversie e virtù, incoerenze e slanci di affetto, peccati e redenzioni personali.
Una mente ed un cuore bui perché colmi di segreti, dalle molte e sfaccettate pareti traslucide che prendono forma e vita grazie alle luci portate da Judith.
E’ l’amore di Judith il motore dell’azione, è l’amore di Judith quella cosa che Barbablù brama, nient’altro. Ogni schermo lascerà vedere qualcosa di più del suo proprietario attraverso figure, fantasmi, larve terrificanti o imploranti, geniali cambi di luce densissima, ognuna di esse raffigurazione di Lui e Lei.
Entrambi compiono una feroce, sottile, autoanalisi l’uno dell’altro aggirandosi spaesati e decisi ad andare fino in fondo, schiacciandosi vicendevolmente quando si siederanno con alterigia su quel trono rosso sangue: lei vuole possederlo per cambiarlo, lui vuole solo essere amato e compreso.
Nel finale le pareti si frantumeranno e ruotando implacabilmente si trasformeranno in quattro teche, quattro tombe trasparenti dove collocare le quattro mogli, congelate a braccia aperte come bambole svuotate prigioniere ormai dei Kuroki e dell’oblio che renderà buia la scena.
Semplicemente eccezionali i ballerini della Noism Dance Company, davvero la spina dorsale degli allestimenti. Le movenze a scatti, la disperazione dei gesti, l’elasticità delle figure, il controllo del corpo, il “fraseggio” e la bellezza dei quadri si sposavano perfettamente con la direzione di Hamar e la musica di Bartok.
Il poco pubblico presente alla prima (il disamore per il MMF è ormai evidente a tutti) ha tributato grandi applausi calorosi ad uno spettacolo degno di questo nome e di un Festival storico, che avrebbe ben meritato gli in utilissimi elogi riservati al “Rosenkavalier”. Anche per preparare successi a tavolino ci vogliono intelligenza, sagacia e conoscenza.
Marianne Brandt
Finalmente. Finalmente è possibile scrivere di uno spettacolo nel suo complesso come di un prodotto onesto, pensato e attuato da professionisti dei rispettivi settori e che in quanto tale non potrà forse aspirare tout court al rango di rappresentazione storica o interamente memorabile, ma segna un netto miglioramento rispetto ai pasticci, ai maldestri tentativi o peggio ancora, alle imposture che quasi ogni giorno vengono propinate, anche da quelli che dovrebbero essere i massimi teatri mondiali e i più saldi depositari della cultura, e per conseguenza, dei fondi pubblici ad essa destinati. Che si decida di mettere in scena Cavalli, Rossini o Bartok, solo e unicamente la preparazione e l’impegno con cui viene allestito lo spettacolo garantiscono di uscire dall’agone con onore, se non magna cum laude. Si ricreda quindi chi ancora pensi o voglia convincere altri che solo mettendo in scena opere di scarsa frequentazione o reputate ipso facto “difficili” si possa fare arte, con o senza maiuscole.
Non v’è però dubbio che il dittico Bartok costituisse sulla carta la tipica proposta “da Maggio”, vale a dire uno spettacolo inusuale e fuori dai consueti schemi di consumo del teatro lirico (benché i due titoli siano stati più volte proposti a Firenze), e in quanto tale bisognoso di una maggiore accortezza in fase di gestione del botteghino. A poco serve cancellare la prima delle tre recite previste, quando anche la seconda (quella cui queste righe si riferiscono) va in scena, come è possibile vedere dalla foto, a teatro semivuoto. Ragioni tecniche e di sicurezza hanno indotto, così ha dichiarato il Teatro, ad annullare l’annunciata première. Peccato che già da alcuni mesi si sapesse che il protagonista maschile del Castello sarebbe stato impegnato, il giorno prima della prima fiorentina, in un concerto a Vienna. Quindi l’ipotesi di uno sbigliettamento insufficiente, e tale da spingere a ridurre il numero delle recite, appare tutt’altro che infondata o poco plausibile. A simili, e davvero inquietanti, “forni” ossia maree di posti vuoti si sarebbe potuto ovviare evitando di proporre questo dittico agli stessi prezzi del Rosenkavalier e per giunta a prezzi sensibilmente più elevati rispetto a spettacoli “extra Festival” come Bolena o Tosca, studiando la possibilità di sconti e carnet cumulativi con altri spettacoli del Maggio, integrale dei quartetti d’archi bartokiani in primis. È anche possibile che il doppio forfait alla direzione d’orchestra (all’annunciato Seiji Ozawa è subentrato, a box office già aperto, prima il compositore Peter Eötvös e quindi, nel giro di pochi giorni, Zsolt Hamar, carneade, e non è un giudizio di valore ma una constatazione) abbia scoraggiato, venendo meno il “grande nome” sul podio, anche gli aspiranti spettatori meglio disposti nei confronti dello spettacolo.
Ed è un peccato che così poche persone abbiano visto lo spettacolo coprodotto dal Saito Kinen Festival (regia e coreografia di Jo Kanamori), che vede nelle due opere allestite quasi due differenti momenti di una medesima vicenda. Va in scena, nel Mandarino meraviglioso come nel Castello del Duca Barbablù, una storia d’amore, o quella che ai tempi di Facebook si definirebbe “relazione complicata”. L’iniziale repulsione della Ragazza (l’eccellente étoile Sawako Iseki, impegnata anche nel Castello quale doppio della protagonista femminile) nei confronti del brutale e invulnerabile Mandarino si trasforma lentamente in una danza di seduzione, che supera i tentativi, appena accennati, riservati al Vecchio e allo Studente per caricarsi di valenza erotica, resa senza mai cadere nel descrittivismo o nella volgarità, finché l’estasi passionale, intrecciata con la pulsione di morte (i tentativi, inutili, di uccidere il Mandarino, cui la presunta vittima si abbandona quasi con sollievo), si conclude con la vittoria del Mandarino sulla propria Ombra, che l’aveva dominato e manipolato a guisa di enorme bambola (dis)umana (viene da pensare al Takeshi Kitano di “Dolls”). La morte del Mandarino, morte letteralmente per amore e liberazione dai vincoli imposti dall’Ombra, coincide con la vittoria della Ragazza, che può finalmente allontanarsi dalla trappola in cui era tenuta prigioniera, non senza avere rivolto un ultimo sguardo interrogativo e carico di angoscia al Mandarino, che ha trovato, come lei, una via di fuga che non si può percorrere in coppia. Analogo il percorso dei novelli sposi Barbablù e Giuditta: il matrimonio è finito prima ancora d’iniziare, complici il riserbo (il rimorso?) di lui e l’eccessiva curiosità (che è poi gelosia retrospettiva) di lei. Tutto questo è espresso senza enfasi intellettualistica o involute metafore, ma con un senso del gesto scenico, del meccanismo spettacolare, in una parola, del teatro, al tempo stesso estroso e lineare: una scena spoglia (un cubo nero nel Mandarino, uno spazio vitreo nel Castello) è popolata dal movimento incessante, ma solo a tratti percepibile, dei ballerini/mimi, che sono di volta in volta servi di scena, coro muto e proiezioni fantastiche dei solisti di canto e ballo. È il trionfo della tecnica (tecnica del movimento, dell’espressione attraverso il corpo) posta al servizio della musica, mentre il libretto del Castello, con le sue puntuali indicazioni su scenografia e illuminazione, viene stravolto ma paradossalmente rispettato, tanto che non occorre quasi leggere i sopratitoli per “vedere” le varie stanze che si plasmano davanti agli occhi del pubblico e seguire le fasi della crisi coniugale in atto. Merito, anche, dell’orchestra, che ben guidata da Hamar, sfoggia un suono potente, compatto ma non piattamente turgido, sufficientemente limpido da permettere di cogliere gli straordinari impasti timbrici del Mandarino, mentre nel Castello si sarebbe potuto ottenere una maggiore varietà nella resa dei vari quadri, ora fiabeschi, ora da incubo (di grande impatto, a ogni modo, l’apertura della quinta porta). È evidente comunque, rispetto alle più recenti produzioni fiorentine udite in teatro e alla radio (pur affidate a bacchette sulla carta ben più prestigiose), l’impegno profuso dal podio verso quelle sezioni dell’orchestra (soprattutto fiati e ottoni) che di solito non brillano per precisione di attacchi e bellezza di suono. E meno male che l’orchestra possiede queste caratteristiche, perché i due solisti canori del Castello poco fanno e ancor meno valgono. Matthias Goerne, baritono “à la page” (scarse frequentazioni liriche, molte “liderade” all’attivo), è una vocina ingolata, senza spessore al grave, costretta a suoni mugghianti e gorgoglianti quando la tessitura sale anche solo di poco.Nella parte finale, ormai esausto, parla e si ode a fatica. Tutti i difetti della scuola tedesca, in sintesi, e non uno dei pregi. Daveda Karanas, deputato mezzosoprano greco-statunitense (applicato, in patria, persino a Verdi), sfoggia timbro di anziano soprano lirico corto (il do5 è un urlo), più spesso bofonchia, al pari dello sposo, con poca voce, insufficiente appoggio e suoni traballanti nelle non infrequenti scalate all’acuto. Il problema, come per il Barbablù di turno, nasce da una respirazione meno che professionale. Il contrasto con le altre forze in campo non potrebbe essere più netto, e risulta illuminante circa lo stato di salute di un mondo come quello della lirica, davvero “a parte” rispetto a quello del teatro, della danza o della musica sinfonica. Il pubblico, nei calorosi applausi finali, non sembra prestarvi troppa attenzione, ma forse con altri cantanti (rectius, con altro modo di cantare) questo pur riuscito dittico sarebbe stato, come dice Manon Lescaut, tutt’altra cosa.
Antonio Tamburini
L’immagine del teatro semivuoto (ma è un eufemismo!) è raggelante e stringe il cuore.
E qui a Stoccarda sei recite di “Die Glückliche Hand” di Schönberg e “Osud” di Janacek hanno fatto tutto esaurito…
Mi ha colpito la foto del teatro, mezzo vuoto, e ciò mi ha fatto riflettere su alcune cose: Faccio un paragone con Milano non tanto perchè la Scala è per me punto di riferimento di ogni cosa, ma solo perchè è il teatro in cui vado più spesso.
Don Giovanni 2011 con Mattei e Barembum, tutto esaurito per tutte le recite praticamente dal giorno di apertura delle vendite (fatta eccezione per il 7 dicembre, dati i prezzi folli e la poca disponibilità di posti).
Aida febbraio 2012, con la Dyka e Wellber, tutto esaurito per tutte le recite quasi fin da subito.
Frau Marzo 2012,con Magee e Albrecht, il giorno stesso per la prima ancora liberi 102 posti e maggiore disponibilità per le repliche (anche se poche e tutte in abbonamento)
Tosca Aprile 2012, con Serafin e Luisotti, tutto esaurito per tutte le rappresentazioni (forse qualche posto vuoto nella replica pomeridiana)
Grimes Maggio 2012, con Gritton e Ticciati, il giorno stesso per la prima ancora liberi 235 posti, fino ad arrivare alla replica fuori abbonamento, dove un giorno prima di essa c’erano 640 posti liberi.
Ora, questi dati li ho raccolti per mostrarveli, perchè a me sembra paradossale. Com’è che nelle serate più trash si registra sempre il tutto esaurito e invece in quelle che poi hanno il maggior successo si va in scena con una media di 200-300 posti liberi a sera??? qualcosa non quadra…boh, fingerò di non aver visto tutto ciò.
stefix, troppo semplice pensare che i titoli più noti e popolari facciano (anche ovviamente) più cassetta?
Perchè non provano, loro che fanno cul_tura, a mettere Bartok alla prima del 7 Dicembre?
In effetti mi sembra normale che titoli “popolari” facciano il tutto esaurito. Mi sembra che quadri tutto perfettamente. Del resto un teatro deve proporre una stagione varia e titoli come la Frau e il Grimes non sono certo uno “sfizio”…ma importanti capolavori che fanno parte della storia della musica (e non mi sembra sia un repertorio di nicchia: anche se in Italia suscita uno “scandalo” ridicolo…manca giusto l’interpellanza parlamentare e poi tutti gli stadi dell’ottusità saranno percorsi). Piuttosto il problema sta nella capacità o meno del teatro di proporsi a diversi strati di pubblico (in questo senso la foto di desolante vuoto in occasione dei due capolavori di Bartok segna il fallimento del MMF quanto a capacità organizzative, non certo di una scelta artistica e culturale). Detto questo una Tosca o un’Aida avranno sempre più attrattiva di Lulu o di Alcina…così come il cinepanettone di Boldi&De Sica o un kolossal spara-tutto incasseranno di più di Polanski.
Ma il tuo ragionamento fila benissimo, Duprez, ed io sono pienamente d’accordo, ma non lo accetto! vuol dire che il pubblico ha qualche problemino, perchè gli intenditori (a meno che non vadano li solo per fischiare) di certo tra un’Aida come quella e una Frau sempre come quella scelgono la Frau! Non gli piace la Frau ma l’Aida? Io spero che in questo caso lascino perdere e non vadano a nessuna delle due, perchè sarebbe ridicolo dire “vado a sentire la Dyka e Wellber perchè mi piace l’Aida”, perchè quella non è Aida! poi c’è anche il pubblico non appassionato, che va li solo per dire “ci siamo anche noi, guardateci”, ma dubito che in nove repliche di Aida ci siano stati solo claque e pubblico “mondano”.
Però Stefix, devi considerare lo specifico della Scala (come ho scritto a commento del condivisibilissimo messaggio di Sonvecchiomarobusto), ossia quella sclerotizzazione rituale che in Italia (soprattutto alla Scala) affligge il teatro d’opera e parallelamente la sua trasformazione in parco giochi per turisti: ad un pubblico che passa più tempo a fotografarsi in ogni luogo del “mitico” teatro (per pubblicarsi su Facebook), che vuoi che importi di Strauss o di Verdi? E’ alla Scala, vede Aida, e tanto gli basta. E’ triste, ma vero.
Hai perfettamente ragione, però, come dici tu, tutto ciò è molto triste…molto molto triste. Io volevo dire proprio questo.
Non paragonerei Tosca o Aida ai cinepanettoni… semmai ai film di Spielberg o James Cameron. Mi riferiscono ovviamente ai titoli e non a certi allestimenti recenti, per i quali anche Mariano Laurenti diventerebbe un termine di paragone fin troppo impegnativo.
Certamente…non era un giudizio su due capolavori assoluti (in particolare Aida che pongo tra i vertici assoluti della produzione verdiana), ma sul loro grado di “presa” sul pubblico anche non appassionato o “esperto”. Quanto ai loro più recenti allestimenti penso che pure il paragone con i vecchi “filmini” delle vacanze sia comunque impegnativo!
Mi sembra ovvio risponderti che, per la sciagurata politica “anti culturale” e specificamente “antimusicale” che si attua nel nostro Bel Paese escludendo la musica dalle scuole e propinando dai media solo “telebasura”, questi sono i risultati. Il pubblico, in stra grande maggioranza composto da ultra settantenni, non conosce, non apprezza, non è stimolato da opere che non siano di “repertorio”.
Mancano il rinnovamento massiccio di pubblico e la comunicazione ed informazione che all’estero costituiscono spinta e forza dei teatri e non solo d’opera. Io ricevo mensilmente informazione cartacea dettagliatissima da Zurigo, e-mails continue da Lipsia e addirittura dal teatro del circuito sassone. Ma in Italia, tolte rare eccezioni e comunque rivolte quasi sempre e solo agli “addetti ai lavori”, nonostante le folle di impiegati che si agitano negli uffici stampa, nulla di tutto ciò.
E’ un tentativo di risposta, ovviamente…
Saluti
Verissimo! Da noi manca la promozione: il teatro d’opera è ancora visto come un rito ottocentesco, con una pompa sua propria, uniformi e codici comportamentali. L’approccio del pubblico, all’estero, è molto più libero e agile, da noi è sclerotizzato in una serie di rituali che possono giusto attirare il turista o l’ottuagenaria con l’ermellino pure in luglio :). Basta pensare a quella sceneggiata d’arte varia (tutte tranne la musica, ovviamente) che è la prima del 7 di dicembre…con ministri, presidenti, banchieri, principi e relative corti dei miracoli…
Fatto salvo il discorso gusti musicali (Stefix, fattene una ragione, ci sono e sono importanti, non è necessario scandalizzarsi se a qualcuno non piacciono Bartok o Wagner o i lieder, c’è solo da prenderne atto e tirare avanti), non credo, Duprez, che sia la promozione che manchi da noi. DIciamocelo chiaramente: in Italia NON si studia musica, NON ci si ferma a pensare sulla musica. La musica è quella che è in sottofondo mentre si fa altro. E si ferma a questo, purtroppo.
Poi è vero che ci sono sempre le solite suppellettili fra le platee dei teatri e spesso l’imbarazzo ti spinge a chieder loro se mai posseggano uno specchio.
E’ anche però vero che, ad esempio, Keith Jarrett suona in posti più piccoli rispetto a… GIovanni Allevi ed entrambi fanno i tutto esaurito. Vogliamo mettere?
C’è una barriera culturale, la stessa che ha minato il jazz e che oggi ci consegna l’ennesima cover sciatta e danzereccia di uno standard e ce lo spacciano per Jazz o ci remixano, che so, Nina Simone e una parte di pubblico si fa intenditore perchè “ascolta jazz”, questo pressapochismo è devastante, dannoso, ed è la radice – a mio avviso – contro la quale nel bene e nel male questo sito sta cercando di estirpare.
Caro Rello sono io il primo ad avere dei gusti musicali influentissimi su ciò che vado a sentire (giusto per dire, a me Wagner non piace) e quel discorso che facevo non era ne snob ne scandalitico nei confronti degli altrui gusti (che facciano quel che vogliono, ne hanno tutto il diritto), era solo per far notare come, per ri-citare Duprez, ci siano problemi nell’organizzazione e nelle diffusione della buona musica (mi riferisco alle edizioni, non alle opere) e di ciò che la musica stessa è (come diceva prima Duprez, andare a teatro per farsi le foto è molto triste, oltre che segno di un declino fortissimo della musica classica e operistica, per i fattori da me qui elencati).
Inteso, stefix, però ci dobbiamo fare i conti con queste cose. Resistendo.
O più pragmaticamente, regalare il dittico di Bartok nei compleanni, a Natale, all’occorrenza X giusto per dare almeno la possibilità di conoscere la musica.
Sottoscrivo al 100%
Il Maggio fece una grottesca campagna pubblicitaria con Chiambretti e la Cucinotta (Diamoci delle Arie). Quanto costò? E ha attirato o piuttosto respinto? Personalmente non ci ho mai più messo piede.
Hai perfettamente ragione: a monte c’è un problema educativo.. Ripeto: tutto ciò è molto triste…soprattutto perché è una triste decadenza: basta pensare a quanto il servizio pubblico faceva sino a pochi decenni fa (teatro, opera e musica trasmessi in orari normali, senza necessità di “indorare la pillola”) laddove oggi bisogna tollerare – in nome di un non indefinito “spirito divulgativo” – operazioni offensive e grottesche come quella specie di baraccone ispirato (lontanamente) alla Cenerentola rossiniana andata “in onda” qualche giorno fa sulla TV di Stato. Quest’ignoranza assoluta in campo musicale è un triste primato italiano che non si risolve certo con la “massificazione” dell’arte o la sua trasformazione in attrazione turistica…
Mah, a me sembra invece che in tutto il mondo succeda la stessa cosa. Qualche anno fa ho ascoltato alla Philharmonie di Berlino un magnifico concerto dei Berliner Philharmoniker diretti da Pierre Boulez, con musiche di Schoenberg e Bartok. Sala semivuota. E lo stesso è accaduto a Vienna per uno stupendo Pelléas et Mélisande diretto da Abbado. Dovunque la stessa solfa. Ed è ovvio che sia così. Anche qui è così. Non è che i commenti ad un’esecuzione di un’opera di Strauss o di Britten o di Janacek eguaglino in numero quelli che sono dedicati ad un’esecuzione di Lucia di Lammermoor o del Trovatore. O no?
Marco Ninci
Infatti, non trovo nulla di particolare… Certo si può discutere, invece, sulle politiche promozionali dei teatri e sulla macchinosità pomposa che caratterizza certe istituzioni nostrane.
Politiche promozionali dei teatri italiani? Esistono?
Qualcuno ha qualche esempio da portare IN POSITIVO di questo?
*nel senso: ma qualcuno che fa “promozione” per i teatri ha un’idea – anche vaga – di cosa significhi fare “promozione”?
Promozione coincide con Qualità. A Santa Cecilia, da quando c’è Pappano, è sempre tutto esaurito.
Un altro esempio. Nel ’71 ho ascoltato a Salisburgo un Wozzeck diretto dal “genius loci” Karl Boehm. Non c’era nessuno, ma proprio nessuno. Un vuoto assolutamente paragonabile a quello che ho trovato poco tempo dopo alla Scala per il Wozzeck diretto da Abbado. Situazione un po’ diversa per l’Otello diretto in quegli stessi giorni da Herbert von Karajan. Come diversa era stata la situazione alla Scala per il Don Carlo diretto dallo stesso Abbado. Se non fosse stato per il fatto che Salisburgo è molto più bella di Milano e molto meno grande, mi sarebbe sembrato di essere nello stesso posto.
Marco Ninci
Per il Wozzeck di Boehm avrei fatto carte false!
E Disneyworld è molto più bello di Salisburgo e anche più grande…
Perdonami, Duprez, era il ’72. Protagonista Walter Berry. Marie Anja Silija.
Marco Ninci
Il rimpianto rimane il medesimo! Non aver potuto ascoltare Böhm (e Bernstein) dal vivo resta uno dei miei maggiori crucci..