“Se non temessi la taccia di utopista, sarei tentato a dire che per ottenere la possibile perfezione di un’Opera musicale, dovrebbe una mente sola essere autrice dei versi e delle note: da questo concetto emerge chiara la mia opinione che due essendo gli autori, è d’uopo almeno che essi fraternizzino, e che se la Poesia esser non deve serve della Musica, non deve nemmeno esserne tiranna.” Così scrive Salvatore Cammarano a Verdi il 17 giugno del 1849 durante la loro collaborazione per Luisa Miller. Poco di utopistico c’è in questa riflessione di Cammarano se si pensa ad un certo Richard Wagner che in quell’epoca aveva già compiuto una delle più complete ed equilibrate opere poetiche-musicali concepite da un compositore-librettista, ossia il Lohengrin. Piuttosto, le parole di Cammarano non sembrano fare altro che tematizzare in modo diplomatico ed autocritico il difficile lavoro congiunto sulla trasformazione della tragedia borghese Kabale und Liebe di Schiller in un’opera lirica per il Teatro San Carlo di Napoli.
Infatti, Luisa Miller si mostra alla fine di essere un frutto assai problematico ed immaturo piuttosto per il dialogo non sempre felice tra Verdi e Cammarano circa la strutturazione del melodramma che per una certa miticizzata immaturità “giovanile” che lo sguardo storico (venuto sempre molto tardi) prova d’imporre su una totalità oggettiva e portatrice di un’ideologia finalista che, in fondo, per Verdi non poteva essere il contesto effettivo della sua attività creativa neanche durante la redazione dell’ultimissimo pezzo composto in vita sua. Luisa Miller è un prodotto costruito in una rete complicata di carenze tecn(olog)iche, di dipendenze su eterogenee condizioni materiali e disposizioni mentali da gente diversa che oltrepassavano di molto la responsabilità ed il controllo che Verdi poteva avere sulle risorse umane, poetiche e teatrali necessarie per la realizzazione di quello che era la sua idea della messa in musica di Kabale und Liebe.
Trattandosi di uno dei più complessi ed avvincenti drammi dell’epoca di Sturm und Drang, non si può che constatare come nella concezione librettistica di Cammarano Kabale und Liebe si sia ridotto ad un banale melodramma conformato alle esigenze del gusto del pubblico italiano-napoletano. Cammarano espugna completamente dal suo libretto il vasto contesto di critica sociale del dramma schilleriano che, oltre a creare problemi di censura, avrebbe potuto anche essere inadeguato alla situazione ed alla coscienza sociale dei napoletani di quell’epoca. (Alla fine Kabale und Liebe s’iscrive in un movimento letterario-sociale di stampa essenzialmente e prevalentemente tedesca.) La tensione nel dramma tra la nobiltà conservatrice (il Presidente von Walter), una borghesia che richiede uno spazio ben delimitato per la realizzazione di una dignitosa esistenza basata sull’onorevole prassi del suo mestiere (il musicista Miller), un giovane nobile (Ferdinand/Rodolfo) ed una giovane borghese (Luisa), questi due ugualmente “contaminati” dagli ideali dell’Aufklärung, così come la forte retorica egalitaria di Schiller è sostituita dalla parte di Cammarano con un semplice conflitto amoroso tra una contadina ed un nobile che finisce con un crestomatico “tutti morti” che in un minuto prevede tre morti, una maledizione e molta costernazione espressa in forma di un “Ah!” collettivo. Soluzione frettolosa sia teatralmente che musicalmente molto assomigliante al finale di un’altra opera coprodotta da Cammarano e Verdi, Il Trovatore…
Il luogo dell’azione è trasposto da uno staterello assolutista tedesco in un villaggio senza specifiche caratteristiche politiche. La tensione sociale che sin dall’inizio s’introduce col problematico amore tra Luise, figlia di un musicista (nell’opera trasformato in ex-soldato), e Ferdinand (Rodolfo), figlio del Presidente von Walter, è sminuita, perché nell’opera Luisa s’innamora di Rodolfo senza sapere che lui è nobile e figlio di Walter. Walter da parte sua diventa Conte invece di conservare il titolo del Presidente, perché il libretto di Cammarano elimina la temibile super-figura del Principe che, senza mai apparire, domina nel dramma di Schiller tutte le relazioni ed azioni politiche. Anche nell’opera è il rafforzamento della situazione della famiglia Walter presso la corte ad essere la massima motivazione del Conte per i suoi intrighi, ma il Principe assolutista non è più l’assi invisibile che perversamente orienta l’assieme di ciò che accade.
Le ambizioni artistiche di un Verdi ancora una volta ispirato dalla complessità della poetica e dei problemi del mondo schilleriano si trovano abbastanza deluse per il generale attenuamento della portata del dramma borghese. La permanente inadeguatezza delle intenzioni musicali-teatrali con quelle del libretto si sente chiaramente lungo l’intera opera. Vi sono momenti di slancio che non si sviluppano con altrettanta dinamica, delle piste abbandonate ed una certa goffaggine nel risolvere con maestria il suo primo vero incontro col mondo borghese dopo tanti re, conti e principesse. In sostanza, le dimensioni musicali non sono meno ampie per i personaggi di Luisa Miller rispetto alle opere anteriori. Il problema sembra piuttosto essere di dare senso alle sofferenze dei borghesi e ad un intrigo dei nobili senza disporre del forte contesto polemico del dramma di Schiller. Verdi doveva aspettare fino alla concezione del Don Carlos per tradurre in modo adeguato un’altra tragedia schilleriana altrettanto complessa nel linguaggio del teatro musicale. Per questo erano necessarie le risorse che solo un luogo come Parigi con i suoi cantanti, la predisposizione per le forme ampie ed intricate del grand-opéra e le condizioni materiali felici del business operistico parigino poteva fornire.
Dal punto di vista di coerenza musicale-drammaturgica si può affermare che l’ouverture di Luisa Miller è uno dei brani più riusciti ed efficaci dell’opera. Il pezzo è composto in un solo movimento ed è sicuramente uno dei numeri orchestrali più complessi e concentrati che Verdi abbia mai scritto, palesamente forgiato su un modello tedesco-romantico, rinunciando ad una larga introduzione in stile rossiniano e chiudendo il pezzo con una ripresa in maggiore che guarda con tutta evidenza all’ouverture di tipo Freischütz. Un allegro espressivo accenta piano e agitato il tema dell’angoscia di Luisa e si scatena in una risa diabolica dell’orchestra intera per variare poi il tema principale in tutte le forme possibili, dipingendo con grande efficienza la tensione fra la passione degli amanti e l’intrigo del Conte e di Wurm. L’infinito dinamismo e la ricchezza di fattura del brano sembrano riunire tutto quello del pathos schilleriano che Verdi è obbligato di attenuare nel resto dell’opera. Ci vi troviamo pure i primi elementi di quella sintesi tra comico e terribile che Verdi apprezzava tanto nella poetica di un Shakespeare. Questa sintesi che vede la sua più completa espressione da un lato in Rigoletto e d’altronde nel Ballo in maschera è annunciato nella Luisa Miller non solo attraverso il personaggio, in realtà poco sviluppato, di Wurm (che Verdi voleva addirittura grottesco), ma anche attraverso gli staccati e pizzicati orchestrali, etearali-evanescenti al pari di un Sommernachtstraum, che o rappresentano il diabolismo e la crudeltà di Wurm o, oltre il preludio, s’intrudono con sarcastica leggerezza in forma di picchettati vocali in un momento di massima disperazione e di condizione suicidale come “La tomba è un letto sparso di fiori” cantato da Luisa nel terzo atto. Lo spartito orchestrale prevede anche l’uso, non sviluppatissimo ma nondimeno efficace, dei leitmotiv, come il tema dell’angoscia di Luisa, ripresa dopo l’ouverture all’inizio del terzo atto, o come l’allargamento del motivo iniziale dell’aria di Walter “Il mio sangue, la vita darei” all’inizio della seconda scena del secondo atto.
L’uso del coro mostra invece tratti molto più banali. La sua funzione si esaurisce nell’introdurre i tre atti o l’arrivo di un personaggio di rango come la Duchessa von Ostheim ed esegue musica di altrettanta superfluità decorativa la cui inutilità si manifesta già all’inizio del primo atto quando la musica fallisce nel dipingere un idillio campestre di un villaggio del Tirolo. Si chiede però che funzione drammatica indispensabile avrebbe potuto rivestire un’introduzione à la Guillaume Tell per cui il motivo alpestre è sostanzialmente inerente al dramma, mentre nella Luisa Miller non può che rimanere un supplemento di “convenzione” chiamato a sostituire a quel clima agitato e polemico steso tra etica borghese e intrighi cortigiani che Verdi per diversi motivi non poteva permettersi di riprodurre con adeguatezza e completezza.
Eppure, Verdi riesce a conservare nel personaggio del Conte di Walter una buona parte della complessità del suo carattere tormentato dall’angoscia per il passato criminale, l’amore per il figlio e la pianificazione degli intrighi per allontanare Luisa da Rodolfo. Forse il Walter della copia Cammarano-Verdi è anche un personaggio più ambiguo del Presidente von Walter di Schiller nel senso che i mezzi d’espressione musicali permettono di differenziare meglio sia la crudeltà ed il machiavellismo dell’uomo politico Walter che la sincerità del suo amore per il figlio od i suoi stati ansiosi. La sua aria del primo atto, accentato in un solo movimento, anticipa per grandezza musicale e complessità drammatica le grandi arie verdiane in cui il personaggio, politico di rango, esprime in modo sincretico e lacerato, da un lato, il suo dolore amoroso-famigliare e, d’altronde, problematiche intenzioni politiche. Si pensi all’aria del Re Filippo o al “Eri tu” di Renato. L’aria “Il mio sangue, la vita darei” rende il ruolo del Conte un ruolo da basso di prima qualità, capace di una grande ampiezza e varietà di fraseggio e altrettanto efficace sia nei momenti cantabili come l’inizio dell’aria che nel passaggio di “Pena atroce, supplizio d’inferno” dove irrompe l’intera orchestra e dove Verdi dà massimo risalto all’alma tormentata del Conte, alla monumentalità di una coscienza demoniaca tragicamente consapevole della sua dannazione.
Rodolfo è forse il personaggio più conformo al suo originale. Esso concentra in sé tutta la passionalità schilleriana del giovane che invece di sommettersi alle negoziazioni cortigiane segue unicamente la legge del cuore. La musica di Verdi si è mostrata particolarmente congeniale all’incessante dinamismo e la straripante energia del giovane amoroso ed idealista. Verdi gli mette in bocca frasi di immensa efficienza come nel primo finale “Son io tuo sposo!” (marcato dal compositore di “con passione” e “grandioso”) o “Ah! Tutto tentai… non restami che un infernal consiglio etc.” (soprascritto “accentato assai”). Un vero eroe romantico si annuncia anche nel duetto del terzo atto con Luisa in una frase come “Maledetto il dì che nacqui, il mio sangue, il padre mio” che mostra una certa vicinanza con la “maledizione” del Edgardo di Lucia di Lammermoor. Ultimamente, Rodolfo canta il brano più famoso dell’opera ed uno delle arie più emozionanti dell’intera letteratura verdiana. “Quando le sere al placido”, introdotto da un recitativo focoso e tesissimo, risolve con un’inarrivabile unità musicale ed espressiva la delusione degli ideali ed il dolore amoroso che difficilmente Schiller avrebbe potuto concentrare anche nelle parole più riusciti che ornano ed incendiano perennemente il ruolo brillante di Ferdinand. Non è altrettanto originale la cabaletta dell’aria che rimane un banale e convenzionale aggiunto che serve ad esprimere la disperazione di Rodolfo in seguito alla sua decisione di piegarsi, per ammarezza, alla voglia del padre e di sposare Federica.
Il personaggio della duchessa Federica d’Ostheim è sicuramente la grande “occasione mancata” dell’opera. Nel dramma di Schiller la duchessa d’Ostheim è menzionata ma non appare mai sul palcoscenico. La donna che il Presidente di Walter vuole unire col suo figlio è la favorita del Principe, la britannica Lady Milford, discendente dei Norfolk e rifuggita nelle terre tedesche. Verdi insisteva che Cammarano avesse conservato il più possibile i tratti dell’interessantissimo carattere della Milford che appare accanto a Ferdinand di essere il personaggio più dinamico del dramma, bagnato in un flusso costante e contrappuntuale di decisioni e sentimenti contraddittori. Verdi richiedeva un ruolo più ampio per la rivale di Luisa, ma, oltre alle carenze nelle possibilità di casting, c’era il problema che nessuna cantante a Napoli avrebbe sostenuto il ruolo dell’amante di un principe. Anche in questo Verdi doveva aspettare Parigi e Don Carlos per avere potuto creare un carattere del grande fascino drammatico e di splendore vocale qual’è la Principessa Eboli – amorosa, elegante, carismatica, gelosa, pericolosa, arrogante, distruttiva, pia… Come nel caso di Rodolfo/Ferdinand, si può dire che Eboli è stata spinta da parte di Verdi ad una drammaticità e passionalità a cui nessuna concezione letteraria-poetica avrebbe potuto rendere giustizia. Federica d’Ostheim invece rimane un ruolo semplice da mezzosoprano comprimario che canta un bel duetto con Rodolfo “Dall’aure raggianti” seguito da una stretta piuttosto debole di qualità musicale e drammatica, ed un quartetto con Luisa, Walter e Wurm. La parte è molto bassa e non supera mai il Mi acuto.
Wurm, altro ruolo di basso accanto al Conte, rimane altrettanto incompleto, anche in questo caso piuttosto per la problematicità di casting al San Carlo. E’ un ruolo che vuole distinguersi per un’originalità che, alla fine, per ragioni materiali, non gli può essere conceduto, trattandosi nel caso del creatore di Wurm di un basso, Marco Arati, che era considerato dalla personalità originale, ma piuttosto modesto come cantante. Anche Wurm deve accontentarsi con un duetto col Conte, un quartetto, dei recitativi e qualche intervento nell’aria di Luisa nel secondo atto.
Il padre Miller è un tipico padre-baritono preoccupato per l’onore della sua figlia, personaggio che perde il colorito schilleriano del povero borghese un poco fiero ed un poco spinto dal ressentiment sociale. Parte scritta per Achille De Bassini, creatore di Francesco Foscari, Miller è uno dei massimi ruoli verdiani da “baritono nobile”, cantando una delle arie scritte per baritono più impressionanti per l’ampiezza delle dimensioni vocali-drammatiche.
Ed alla fine, Luisa. Il problema del personaggio Luise Millerin sia nel dramma di Schiller che nell’opera di Verdi rimane che in fondo è un carattere passivo, ricevendo la sua portata drammatica solo nel contesto della tessuta dell’ossessione con cui la gradisce Ferdinand, del patologico amore paterno da parte di Miller, dell’interesse perverso di Wurm, del disprezzo e l’insulto da parte del Presidente, della gelosia, commiserazione ed ammirazione da parte della Milford. Nonostante sia coraggiosa e disperata, Luisa resta comunque un tipico soprano gemente e doloroso su cui si sono piombati tutti i mali del mondo. Entra con un’aria simile ad una cabaletta che, dopo un elegante recitativo (“Non temer: più nobil spirto etc.”), costringe la cantante di darsi all’esposizione del suo virtuosismo con un picchettare interminabile. Anche se può essere considerato come l’espressione del “primo palpito” del suo cuore innamorato, è un linguaggio che si contrappone radicalmente sia al suo modello teatrale sia all’ampiezza e lo slancio tragico dell’aria del secondo atto che rende Luisa una parte da vero soprano verdiano e esige dalla cantante la massima robustezza non solo nel reggere le ascese spinte in acuto, ma anche l’insistenza nel registro grave specie nella cabaletta “Ah, brani, o perfido”. E’ questo linguaggio “pesante” e patetico che è alla fine più adeguata al dolorismo di Luisa che l’iniziale “Lo vidi, e ’l primo palpito” che annuncia quasi una vergine innocente di mezzo carattere. Rispetto all’aria introduttiva, paradossalmente, il picchettare come mezzo di espressione si dimostra meno banale ed acquista una funzione drammatica più coerente nel già citato “La tomba è un letto” nel terzo atto (per clima forse un parente lontano del “La rà” dal Rigoletto o del “E’ scherzo od è folia” dal Ballo) il che è seguito da un duetto impegnato col padre che la spinge fino ad un marcato Re bemolle sopracuto. E’ il terzo atto ad essere quello di Luisa ed è il terzo atto a mostrarsi il più forte e coerente sul piano drammaturgico. L’allineamento del duetto col padre, della breve e bella preghiera, del duetto con Rodolfo e del commovente terzetto finale le rende il massimo di quello che è al cuore del personaggio anche nella Kabale und Liebe, ossia l’unilineare persistenza nel suo dolore da donna offesa ed innocente. E’ la logica propria della musica e degli effetti del melodramma che la salva di una sostanziale staticità, così come nel dramma di Schiller quello che la rende problematica è la sua bellezza fisica – cosa dapprima pericolosa in uno staterello assolutista dove la dominazione dell’invisibile Principe non è priva di connotazioni sessuali e, secondariamente, l’occasione per il Conte di accusarla d’infamia. E’ forse un limite originale della configurazione dei personaggi già nella Kabale und Liebe per cui Luisa ritiene ingiustamente uno statuto di figura principale, mentre fra le donne sarebbe la Lady Milford ad avere una posizione sociale, una biografia ed uno stato emozionale molto più complesso di Luisa. (Il fascino della Milford accresce tanto più quanto la sua presenza nel dramma è concentrato in due uniche scene tesissime e completamente dominate da lei.)
Come nel caso di tanti altri ruoli verdiani, anche Luisa ha una vocalità ambigua che vacilla tra un ruolo da soprano lirico o lirico-leggero, con dimensioni di espressione più cameristiche e graziose, come nel caso dell’aria d’entrata, il quartetto del secondo atto, la preghiera od una parte del finale, ed un ruolo da soprano lirico-spinto, perché, accanto ad un brano come il primo finale, è soprattutto l’aria del secondo atto ad esporla alla massima carica vocale. Nonostante che in Luisa Miller la parte della protagonista sia quella più variata vocalmente che richiede una grande prima donna, Budden trova pertinente di affermare che Luisa Miller sia sostanzialmente un’opera da tenore. Il che non vuole per niente dire che un allestimento di Luisa Miller possa rinunciare ad un soprano di rango. Ma cionondimeno, alla fine, è Rodolfo ad essere il “motore” dell’azione drammatica, presentandosi quale felicissimo sincrasi di due ordini di incessante dinamismo, di quello inerente e coessenziale all’essere della musica come musica e di quello teatrale innato al personaggio di Ferdinand/Rodolfo. Il “Quando le sere al placido” di Rodolfo parla un linguaggio che non ha pari né nel Verdi anteriore né uguale nella Luisa Miller stessa. Quel linguaggio la rende, da un lato, un’isola solitaria in mezzo al resto della musica dell’opera; d’altronde, il “lamento” di Rodolfo trasfigura come un atto di redenzione la musica dell’intera opera e dà a pensare che forse Verdi avrebbe preso una direzione diversa ed in genere più vicina al linguaggio struggente, intimo e profondamente romantico dell’aria di Rodolfo, se il libretto di Cammarano e le risorse umane-materiali del massimo teatro napoletano dell’anno 1849 avessero permesso uno sviluppo di tutte le capacità contenute nel dramma di Schiller.
Gli ascolti
Giuseppe Verdi
Luisa Miller
Sinfonia – Metropolitan Opera Orchestra, dir. James Levine (1971)
Atto I
Ti desta, Luisa…Lo vidi e ‘l primo palpito…T’amo d’amor ch’esprimere – Sherrill Milnes, Montserrat Caballé, Richard Tucker, Nancy Williams, dir. Thomas Schippers (1968)
Ferma ed ascolta…Sacra la scelta è d’un consorte…Ah! fu giusto il mio sospetto – Cornell MacNeil,Enrico Campi, dir. Nino Sanzogno (1963), Mario Sereni, John Cheek, dir. James Levine (1978)
Che mai narrasti!…Il mio sangue, la vita darei – Bonaldo Giaiotti, Paul Plishka, dir. James Levine (1971)
Padre…M’abbraccia…Quale un sorriso d’amica sorte – Flaviano Labò, Nicola Rossi-Lemeni, Franca Mattiucci, dir. Bruno Bartoletti (1968)
Duchessa!…Dall’aule raggianti – Richard Tucker & Adriana Lazzarini, dir. Francesco Molinari-Pradelli (1969)
Sciogliete i levrieri…Tu, signor, fra queste soglie!…Fra i mortali ancora oppressa – Gilda Cruz-Romo, Matteo Manuguerra, Luciano Pavarotti, Raffaele Arié, Anna Di Stasio, dir. Peter Maag (1974)
Atto II
Ah, Luisa…Tu puniscimi, o Signore…A brani, a brani, o perfido – Antonietta Stella, Enrico Campi, dir. Nino Sanzogno (1963), Montserrat Caballé, Ezio Flagello, dir. Thomas Schippers (1968), Renata Scotto, Vito Maria Brunetti, dir. Oliviero de Fabritiis(1975)
Egli delira…L’alto retaggio non ho bramato…Come celar le smanie – Raffaele Arié, Enrico Campi, Oralia Dominguez, Antonietta Stella, dir. Nino Sanzogno (1963)
Il foglio dunque…Quando le sere al placido…L’ara o l’avello appressami – Richard Tucker, Ezio Flagello, Giorgio Tozzi, dir. Thomas Schippers (1968), Flaviano Labò, Victor De Narké, Nicola Rossi-Lemeni, dir. Bruno Bartoletti (1968), Carlo Bergonzi, dir. Michelangelo Veltri (1973)
Atto III
Come in un giorno solo…La tomba é un letto sparso di rose…Andrem raminghi e poveri – Montserrat Caballé & Sherrill Milnes, dir. Thomas Schippers (1968), Renata Scotto & Sesto Bruscantini, Oliviero de Fabritiis (1975)
Ah! L’ultimo preghiera…Hai tu vergato questo foglio?…Piangi, piangi, il tuo dolore…Padre, ricevi l’estremo addio – Gabriella Tucci, Richard Tucker, Cornell MacNeil, dir. James Levine (1971), Gilda Cruz-Romo, Luciano Pavarotti, Matteo Manuguerra, dir. Peter Maag (1974)
bellissimo post Giuditta, colto e non ..kulturale!
muah!