Parlare di Scala è parlare di uno dei componenti del ristretto circuito dei cosiddetti “grandi teatri”, dal respiro internazionale, ossia con artisti e cartelloni allestiti secondo criteri ispiratori e standard artistici equivalenti alle altre analoghe maisons musicales del mondo. Il clichè culturale, perché di un clichè si tratta, consta di una miscela di “grandi” nomi, “grandi” bacchette, registi d’avanguardia, qualche “talento emergente”, con alcuni accomodamenti locali, legati alla sopravvivenza di qualche specificità nel gusto: da noi, ad esempio, non si è ancora in grado di accogliere certe emergenze musicali ( in ogni senso! ) come i baroccari, molto in voga in Francia. Il compito affidato alla direzione del teatro, dal punto di vista dei clichè, è di fatto perfettamente assolto da chi gestisce il teatro. Di grandi nomi ce n’è abbastanza, di registi di punta idem, con le bacchette forse ci sono oscillazioni di livello, ma la nomenclatura è tale che nulla si può dire sulla ricchezza del catalogo lissneriano. E’ una varietà ad alta quota certamente superiore al desolante isolamento del teatro nell’ultima parte dell’era Muti. Eppure le cose non vanno, perché, grisini o no, assenti o presenti, e per quanto si tenti di far di loro il capro espiatorio di ogni fiasco, sulle tavole del palcoscenico non si è agli standard alti che si pretende di avere. Anzi, spesso non si è nemmeno a livello della cosiddetta provincia. Il malcontento è percepibile in città ma anche fuori, tra i melomani e gli intenditori veri, che mostrano apertamente disappunto verso lo stato delle cose, mentre il teatro pare sempre più una meta per un pubblico da tours operators ( per non dire di peggio !), oppure un deposito quotidiano per anziani che ivi si ritrovano, in molti casi mostrando aperto disinteresse per la conoscenza della musica. Gli appassionati, da quelli che amano il vecchiume come noi fino ai più spericolati avanguardisti, sono effettivamente una minoranza in teatro, basta guardasi attorno; il rapporto tra giovani e media-tarda età, poi, è schiacciante a favore dei secondi, segno che il genere interessa veramente ad una nicchia sempre più ristretta, di fatto senza ricambio.
Il numero dei biglietti venduti non può essere il nudo parametro qualitativo per una istituzione “culturale“ come la Scala, che attira dall’esperto al curioso. Analogamente a quanto accade per i grandi musei, si dovrebbe iniziare a pensare che c’è pubblico e pubblico e che la presenza saltuaria o di natura turistica abbia un valore diverso da chi arrivi ad avvicinarsi in modo più partecipe e colto all’arte. Chi ritorna, chi studia, chi la vive con reale spessore intellettuale è l’utente rispetto al quale si può parlare di successo per una impresa che voglia dirsi “a carattere culturale”, diversamente si rientra nella logica finanziaria, x biglietti per x soldi. Che l’impresa abbia in realtà due facce, una ufficiale, cioè quella culturale, ed una più cinica, quella mercantile, è in re ipsa. La lirica ha costi abnormi, tanto più abnormi a fronte di un interesse profondo che và scemando; ergo il pubblico occasionale, il turista per caso della platea come del loggione, deve essere catturato per ragioni monetarie che sono sotto gli occhi di tutti. E per catturare quest’ultimo, di cui non si può fare a meno, occorrono ragioni che lo attirino, ossia la popolarità dei titoli ma e soprattutto i NOMI, ossia le stars, strumenti imprescindibili della popolarità della lirica che le persone comuni possono incontrare nelle pagine pubblicitarie dei giornali, magari con un orologio di marca importante al polso, o a cantare una canzone rock in tv. Vi sono poi anche nomi meno altisonanti e più specifici per i frequentatori dei teatri che assurgono allo status di nomi, sempre di secondo piano rispetto allo star system, pubblicizzandosi sulle riviste di settore o su facebook. La popolarità fa business e del business non si può fare a meno. Il mio ragionamento muove apertamente dalle considerazioni sarcastiche ma acutissime di un celeberrimo storico dell’arte connazionale del nostro sovrintendente e già direttore del Musée Picasso e conservatore al Centre Pompidou, Jean Clair: la cultura è diventata culto della cultura. Fare managment “culturale”, creare “eventi culturali”, realizzare “produzioni culturali”, esibirsi in concerti dal programma “culturale”, avere un bookshop “culturale” in cui si vendono dischi “culturali” e non vecchiume frutto del lavoro di poveri e volgari ignoranti. La cultura è stata sostituita da una patina superficiale di culturalità attribuita ad ogni cosa: col biglietto il pubblico compra una serata con il divo, circondato dalla sua speciale “aura” divistica ( il rimando è a W. Benjamin ) che ci fa migliori neanche fosse lui una reliquia e noi “reliquie per contatto”; il disco ultimo uscito (prodotto in base alla culturale edizione critica); la rivista specialistica che ci illustra tutto il buono di questa culturalità operistica;gli inserti culturali dei grandi giornali ad introdurci agli eventi; un ambiente accessoriato da programmi di sala densi di pubblicità ( culturali, perché la copertina è simil ottocento..) ed uno shop all’ingresso pieno di gadgets, bicchieri, letteratura santificante, carabattole assortite con la faccia dei santi dell’opera sopra, dopo aver comprato i biglietti in un sito web dalla grafica patinata dove si trovano anche introduzioni alle opere redatte da “operatori culturali” o da “PR della comunicazione culturale” piene di strafalcioni e ridicolaggini.
Al livello più basso del clero della comunicazione culturale stanno quelli che nemmeno la patina della culturalità posseggono: si tratta di operatori del web, del tutto marginali e assai poco interessanti rispetto alla realtà del fenomeno, che definirei “ecologici”. Privi di ogni credibilità quando parlano di musica, hanno rinunciato anche alla loro dignità per dedicarsi ad organizzare contro i siti e le persone dissenzienti linciaggi virtuali (sperando che diventino realtà), in difesa del loro sacro tempio (oltre che della loro scarsississima audience) che, riconoscente e solidale con loro, li accredita. Ma si tratta, ripeto, di fenomeni marginali ed irrilevanti, meramente locali, che illustrano solo la grande varietà zoologica dell’apparato del consenso.
Tornano al tema, è evidente che siamo alle prese con l’inflazione della cultura: il pubblico della musica, per sua natura portato a mitizzare il grande artista, assomiglia sempre più a quello delle file interminabili davanti al Louvre o al Prado mentre la cultura musicale pare insieme di culti di divi del canto e della bacchetta che si esibiscono sui grandi palcoscenici mondiali sempre e solo negli stessi pochi titoli ( osservate la parabola moderna di Manon di Massenet, Cyrano del Bergerac, Tosca, Romeo et Juliette, la Donna del Lago….tanto per fare un esempio), assicurato dalla presenza di X nomi, non importa poi se adatti o meno al ruolo. Ogni debutto arriva con il clamore di un evento epocale. Si visitano i luoghi deputati all’arte quasi a purificarsi, a sentirsi migliori, a partecipare di qualcosa che poi si è troppo pigri per studiare davvero o voler conoscere, e si respira un clima di falsa esaltazione da parte di chi osanna ogni sera le manifestazioni di queste creature sacre pur ammettendo di non conoscere l’opera né come storia del canto né come parte della storia della musica. Aderendo agli stilemi di questa culturalità ci si guadagna automaticamente lo status di persone colte, intellettualmente moderne; si ottiene la certezza di avere un tratto intellettuale che distingue e nobilita, di essere internazionali e moderni. La cultura oggi va di pari passo con la superficialità e l’esteriorità, solo che ai musei non si bua mai, perché Leonardo resta Leonardo davanti a chiunque, anche ad onta di qualche restauratore maldestro che magari lo svernicia troppo , mentre Verdi o Wagner vengono fatti a pezzi da qualche operatore culturale del canto o del podio, che, ancora imberbe, sta “facendo esperienza” in un contesto ove un tempo si arrivava alla fine della carriera. Nel mondo dell’arte non si è ancora arrivati, però, a censire la cultura vera, che ancora esiste, basata sulla conoscenza critica del passato: a nessuno viene in mente di deridere gli amanti di Tiziano o di Raffaello, di De l’Orme come di Brunelleschi, nemmeno del kitsch di Coppedé. Si è arrivati, al contrario, ad ammettere che è necessario tutelare persino gli interventi di restauro che in moltissimi casi hanno manipolato le opere d’arte e di architettura consegnandocele nella veste in cui le conosciamo oggi. Nella musica, invece, per essere à la page intellettualmente occorre coltivare una forma di brutale modernismo che di fatto santifica l’ignoranza del pubblico in fatto di passato. Il culto della musica, del canto e dei musicisti non sono compresi, sono come le minoranze religiose, da estirpare; il pubblico non viene più onorato e rispettato dagli artisti con la serietà professionale, come da sempre nel teatro, perché è al pubblico che spetta oggi il dovere di onorare e rispettare qualunque cosa gli venga offert0 e chiunque apra la bocca su una grande ribalta. In questo gli operatori culturali della carta stampata, parte integrante della predetta clericatura che sta intorno al mondo musicale, sono formidabili nell’indurre il pubblico ad adeguarsi a siffatta idea della modernità: in analogia col mondo dell’arte, anche la lirica, senza i suoi comunicatori, non può esistere. Del resto è chiaro, non potendo fare a meno dei divi e della loro aura sacrale, questi devono essere individuati, organizzati ed allestiti secondo un percorso di santificazione “culturale” fatto di pubblicità, copertine, dischi e magari qualche libro, eventualmente la prova del teatro, che resta comunque di secondaria importanza, perché è chiaro che il successo dipende solo dall’aura sacrale costruita attorno al divo. E’ qui che rileviamo uno dei macroscopici paradossi presenti: i più recenti percorsi santificanti hanno iniziato da qualche anno ad includere inadeguati paralleli tra alcuni celebri cantori del presente e cantanti leggendari della storia, perché evidentemente il decalogo della modernità comincia ad essere a corto di argomenti, mentre il passato da dimenticare appare una preziosa fonte di risorse da consumare ( e adulterare comodamente ).
Solo che i milanesi, e parlo degli abbonati da generazioni e non delle new entries del loggione, con la loro tradizione ambrosiana assai pragmatica, paiono resistere a questa deriva, e non perché vi sia tra loro una porzione buante, ma perché …..applaudono freddamente, manifestando in questo il loro poco entusiasmo per ciò che gli viene offerto. Il milanese, è noto, ha un modo di intendere la vita in generale che è profondamente realista, poco incline alle esagerazioni e alle mitizzazioni, al punto tale da essersi ritagliato pure una ritualità specificamente ambrosiana. Tra un’ora di incensi ed una di assistenza sociale, l’ambrosiano preferisce la seconda, perché …c’è più utilità e senso. Di qui l’anomalia di questo “grande” teatro scaligero sempre così ostico e difficile da sedurre, con della vuota “culturalità” soprattutto, il cui pubblico si è sempre sentito e sempre continuerà a sentirsi il primo tra tutti i pubblici del mondo, e a considerare il proprio teatro il migliore, anche nelle circostanze in cui non lo è, posto che pare da verificare se l’attuale dirigenza scaligera sia interessata ancora più ai milanesi che ai turisti stranieri. Lo stato presente delle cose, comunque, è un malcontento, più o meno celato, per la qualità e l’inadeguatezza del cartellone al proprio gusto, per i rumorosi tonfi (che sono troppo rumorosi e perciò sconvenienti), per lo stato di una delle più celebri istituzioni cittadine, da sempre motivo di orgoglio. Il problema, però, è più complesso, non ha più un carattere locale perchè investe la mutazione che la cultura musicale ha subito negli ultimi anni nei grandi teatri; non è solo una fatto di buona o cattiva gestione, di bu o di applausi, ma investe il senso più profondo dell’andare in scena con la lirica al giorno d’oggi. Di tutto questo mi pare che vi sia, ora come ora, più una percezione intuitiva che non vera ed aperta consapevolezza.
Tornando invece a chi ha il compito di fare, il lato commerciale e gestionale della faccenda sembrerebbe il più oneroso tra i compiti, causa la generale carestia di mezzi: la Scala, stando alle apparizioni del suo nocchiero, non pare avere problemi musical vocali, ma sempre e solo finanziari e di personale. Gli expo o le fiere diventano per forza di cose delle speciali manne perché garantiscono affluenze eccezionali di quei turisti tanto necessari alle casse, con tutte le conseguenze del caso. Ed ecco sorgere per il commesso viaggiatore come per i notabili delle camere di commercio straniere aree culturali di serenità musicale, nelle quali possa ripararsi dal chiasso della giornata lavorativa. Proseguendo nell’analogia evidente con il turismo, ecco gli abbonamenti tipo platinum, gold etc… al ciclo wagneriano, con tanto di cocktail di benvenuto, gadgets, libro dell’evento etc. a seconda del prezzo, proposti con lo stesso marketing, lo stesso linguaggio di una vacanza in uno spa di lusso. Formule derivata dall’esperienze americane di finanziamento privato ai teatri, dove più paghi e più ti danno, compresa, al top dell’elargizione, la gigantografia incorniciata in falso barocco dorato nel foyer e la cena con l’artista, come vidi una volta tanti anni fa a Dallas. Di tutto questo il teatro e la gestione manageriale dei teatri d’opera, al pari di altre analoghe istituzioni culturali, non possono e non potranno più fare a meno. Nei consigli di amministrazione siedono politici ed uomini della finanza, banchieri che richiedono la trasformazione della cultura in business, stretti dalla ricerca di sponsors. E chiedono alla cultura di rinnovarsi e di proporsi come un bene economico di mercato, quindi di essere sempre nuovo, moderno, costantemente vendibile perché sempre “diverso”, universale, ossia “internazionale”. Il respiro internazionale corrisponde a produzioni di opere arcinote di repertorio, eseguite dal sancta sanctorum della nomenclatura divistica, in tutte le più grandi sedi mondiali, sostituendo la fantasia, l’individualità dei teatri con l’uniformità e la monotonia. Le “grandi” stagioni liriche non sono più il parto di direttori artistici che sanno dare loro un taglio intellettuale, proponendo titoli un tempo di successo o mantenendo vive tradizioni musicali locali, cercando artisti, direttori e cantanti, che possano dare speciali contributi artistici in questo o quel titolo ( noi lo chiamiamo “avere qualcosa da dire”..), ma sono diventate discount universali del commercio lirico, dove il solo plusvalore è la massmediatizzazione della produzione che migra da NY a Milano a Berlino etc..: se la fanno in tutti quei posti importanti con tutti questi divi, è certo che è di assoluto valore musicale! Sono categorie indiscusse del bello e della qualità che difficilmente potremo scalzare perché radicate in tutto il mercato dell’arte contemporanea, sia di quella passata che di quella moderna. Jean Clair è arrivato al punto da definire queste cattedrali della bellezza “i mattatoi culturali”, perché con la cultura, di fatto, si macellano la capacità di pensare e di discernere del pubblico. Se smettiamo di pensare è evidente che non c’è più cultura. E se smettiamo di informare, addio anche i crisma dell’internazionalità, perché , guarda caso, quando questo poderoso meccanismo si inceppa in una o più delle sue grandi sedi, vedi l’ultimo allestimento di Tosca oppure le clamorose vicende di Bayreuth, ecco che scatta la serranda del silenzio sui media, che ben si guardano dal comunicare al pubblico che il fallimento non è locale, bensì planetario. Internazionalità del successo, provincialismo del fiasco, altro paradosso del sistema.
La culturalità dell’evento lirico ha trovato i suoi moderni “guru” nei registi. La cultura degli ultimi due secoli ha operato per liberarci dal culto di Dio con tutte le positive conseguenze che conosciamo. Nella lirica questi moderni revisionisti della tradizione hanno sostituito al culto del libretto, del compositore, dei personaggi, del canto, il culto di se stessi. Onorare gli dei della tradizione lirica non si può più, è tremendamente superato, lo abbiamo detto. Ora dobbiamo adorare loro, con la loro estetica dissacrante, le loro arbitrarie revisioni, le riletture attualizzanti, le loro costose farneticazioni intorno al culto del proprio ego. In Germania la loro opera si unisce da tempo a quella del “drammaturgo”, di fatto un “mediatore culturale” che introduce ed addestra il pubblico ignorante ai misteri del pensiero profondo e rinnovato del regista, spiegando ed illustrando l’illuminante opera di rivitalizzazione del morto che va in scena. E se l’allestimento “buca”, la lezione indottrinante viene pure ripetuta, perché repetita iuvant, come è recentemente accaduto in un importante teatro tedesco. Da noi, perlomeno, i registi illustrano ancora in prima persona le loro opere: ricordate il monologo imbarazzante di Carsen sul Don Giovanni u.s.? La politica degli allestimenti, sin tanto che sono stati di buon gusto e non stravolgenti, ci ha distratti per qualche anno dai problemi del canto, dalla rarefazione di cantanti ma anche di bacchette, che iniziavano ad affiorare qua e là. Esauritasi l’inventiva nell’alveo del fare “secondo libretto” ed il culto del bello visivo, sono arrivati i guai, perché di pari passo sono spariti i cantanti ( oggi nel mondo c’è un numero ridottissimo di professionisti che può vantarsi di cantare ancora sul fiato e di poter rispettare uno spartito….un plusvalore tecnico che non trova adeguato risalto su nessuna delle riviste specialistiche di settore….). Ecco allora comparire, in area tedesca prima che altrove, quell’estetica del brutto, dei cappotti come della dissacrazione gratuita costante che si è fregiata dell’augusto nome di “ teatro di regia”. Lo stravolgimento gratuito dei valori fissati dall’autore è stato avvallato come operazione intellettuale di “svecchiamento” dell’opera! Insomma, una anarchia del brutto che forse dovremmo iniziare anche nell’opera a definire, al pari di Clair, “estetica dello stercorario” , il brutto e il disgusto eretti ad estetica. Nell’arte non si è arrivati a sfregiare Botticelli o a ricolorare i Fauves ( perché queste sono di fatto le operazioni culturali cui assistiamo talora andando all’opera e perché per queste arti esistono la tutela e gli enti ad essa preposti..): il passato è riparato dalla produzione del nuovo, che qui è arrivata da anni a tali punti inimmaginabili di “brutto intenzionale e ricercato” da includere espressioni realizzate mediante ogni sorta di refluo corporeo. Un‘arte che ha trovato ribalte anche nei grandi istituzioni culturali, come quella del signor Dalvoy che vedete nella foto.
Il modernismo nell’opera, l’avanguardismo vocale per cui non si canta più in maschera ed è giusto latrare e soffiare; l’estetica dell’urlo, del canto di sforzo, della stentoreità e della fibra; l’intenzionale distruzione del passato che va di pari passo al falso storico dei restauri baroccari; l’ego dell’”interprete” che snatura il testo… sono tutti gli slogan dei “comunicatori culturali” dell’opera che ci assicurano che certi orrori cui assistiamo sono arte, e che se non capiamo quello che vediamo è per ignoranza nostra. Come faccio a non capire il pensiero artistico di una falsettista maschio che si mette sulla copertina del proprio cd in ghepierre mentre canta la Carmen?
Certo, l’opera è ancora un po’ arretrata nella sua evoluzione rispetto a certe espressioni fecali dell’arte contemporanea quotate milioni di dollari da una ristretta cerchia di gallerie e musei, ma il meccanismo di creazione e supervalutazione degli artisti anche nella musica pare analogo a quello dell’arte, detenuto da pochissimi teatri e agenzie. Se sarà necessario, ci sarà anche per noi l’avvento del “post human” lirico, l’importante sarà organizzare la comunicazione e l’indottrinamento del pubblico per assicurargli che è arte di qualità e che il futuro viaggia in quella direzione. Che si tratta, insomma, di… modernità!
La Scala non può costitutivamente essere diversa da quella che è, ( anche se potrebbe solo fare meno errori di casting manovrando il proprio parco stelle), perchè nell’inverno della cultura, come lo chiama Clair, questo è lo stato delle cose. Avremo perciò nella prossima stagione celebrativa un parco di registi di grido, capeggiato dal grande Guth; molti nomi del canto e bacchette impegnate solo in Wagner e Verdi. E mentre siamo ottimisti per la “comunicazione culturale” circa i titoli, perché basteranno l’economico acquisto di due sole opere, il Newmann su Wagner ed il Budden su Verdi per scrivere qualche frase plausibile e non strafalcioni roboanti ( quella di Attila definito “stragista” mi rimarrà impressa a lungo nella mente..ma è stata solo la punta dell’iceberg nell’ambito dei “saggi” apparsi nel sito web scaligero…), ci preoccupa il fatto che si voglia andare in scena con un repertorio che necessita delle cosiddette “grandi voci” in un momento in cui le grandi voci non esistono. E già il fatto in sè, ossia che si proceda serenamente per una via impraticabile, la dice lunga su quanto conti e quale effettiva conoscenza vi sia tra le alte sfere dell’“arte del canto” . Una celebrazione non può essere allestita come una indigestione per quantità e pure di qualità dubbia. Credo che sarebbe stato sufficiente un grande allestimento verdiano, tipo un Don Carlos integrale in francese con i balli e la Tetralogia della settimana turistica, per essere già alle prese con una impresa difficilissima e, quindi, di valore reale. Tanti titoli piantati lì in quel modo ( non un curioso Wagner acerbo ) ma sempre i “titoloni” di attrattiva turistica, dichiarano che l’operazione ha un carattere meramente commerciale se le voci mancano. Persino i bloggers americani hanno ravvisato questo per la stagione del Met, perché anche i problemi stanno facendosi universali. Ma le leggi dell’economia sono ferree….il turista non vuole eventi, ma sconvolgimenti epocali della “cultura”, dunque, occorre confezionarglieli!! Così mentre si rilevano defezioni prevedibili ( l’annunciata Stemme nel Crepuscolo ) e necessarie ( per la squadra delle promesse imberbi, il maestro Battistoni, ma anche una pausa di riflessione per il simpatico Dudamel ) si osserva come l’incredibile faccia la sua comparsa in cartellone ( la Krasteva su Amneris ), l’improbabile prenda corpo ( Kocan da pessimo Masetto a Grande Inquisitore, Filippo II e Banco ), ci si esponga a rischi incalcolati frutto di valutazioni poco accorte in fatto di voci ( la Garcia e la Gubanova ). Lo spopolamento di alcuni registri è tale da esporre a prove dal dubbio esito chi già era inadeguato in casa propria ( Pape nel Filippo II )…mentre le certezze paiono limitate a qualche bacchetta e a qualche caso vocale sporadico che lascio a voi commentare.
Commercio e arte intimamente confliggono come mai sino ad oggi e si potrà fare solo vuota “culturalità” sin tanto che le direzioni artistiche dei grandi teatri non ammetteranno di avere problemi a comporre i cast, e sulle radici di quei problemi si interroghino, ammesso che abbiano le conoscenze di base e l’interesse per farlo. Del resto dei problemi del canto nessuno parla, come se da questo non dipendesse la sopravvivenza dell’opera lirica: evidentemente in certi uffici si crede di poter ancora proseguire a suon di slogan, uffici stampa, propagande roboanti, claque etc…Siamo in inverno, tutti assieme, e ben lontani dal poter parlare di cultura, perchè questa presuppone, ancor prima dell’andare in scena, di essere diversamente intesa e praticata.Presuppone la chiarezza degli obbiettivi, sapere cosa davvero si vuole raggiungere, quale significato abbia e debba avere la lirica oggi, insomma……occorre sapere chi siamo e dove andiamo, se siamo artisti o commercianti, managers di showbusiness o promotori di una vera cultura musicale. Ne viviamo l’inverno e ci resteremo molto a lungo, conclude Jean Clair, che nel suo libro commette l’errore finale di illudersi che il problema riguardi solo l’arte ed i musei, mentre la musica classica e vocale, che peraltro dichiara di conoscere poco, vivrebbe una stagione di apogeo. Evidentemente anche lui, in qualche teatro di Francia, è stata sedotto dai “comunicatori culturali” approdati alla musica.
Entusiasticamente ed apertamente ispirato a Jean Clair, L’inverno della cultura
Penso che la soluzione di tutti questi problemi, definibili in una parola “ignoranza”, possano essere risolti soltanto a partire dalla scuola dove l’insegnamento della musica, nonostante il tanto parlare di ciò, è tuttora inesistente. Senza una formazione del pubblico non si può pretendere nulla dallo stesso. Il giudizio e la capacità di selezionare e giudicare non possono che partire dalla conoscenza; il senso critico non può esistere altrimenti. E cosa dire di che scrive di musica senza neppure saper leggere una partitura? In particolare rimango allibito pensando a un cosiddetto critico, che conosco personalmente, iscritto ovviamente all’Associazione Italiana Critici Musicali, che non sa leggere una nota! Se si permette questo non ci si può meravigliare poi di nulla. Per carità ognuno ha il diritto di esprimere le proprie opinioni! Anch’io so attaccare un cerotto, ma nessuno mi farebbe mai pubblicare un saggio di chirurgia. Ho divagato, ma credo che tutti i problemi da te esposti siano riconducibili a carenze istituzionali e a una superficialità e pressapochismo troppo diffusi.
Mi spiace contraddirti, ma non è così. Negli anni ’50 e ’60 nelle scuole dell’obbilgo si studiava ancor meno Musica di oggi, eppure il pubblico era più sensibile e preparato di quello odierno. Per altro, conosco bene almeno tre strumentisti di “titolate” orchestre italiane (Scala, Santa Cecicila, Carlo Felice) e ti posso giurare che, pur sapendo ovviamente leggere la musica, nessuno di loro capisce nulla di Opera lirica e vocalità. Cordialmente
Certo, anche allora le ore destinate alla musica non erano molte, ma quel che veniva proposto era preso in maggior considerazione. Chi usciva dalle Magistrali, ad esempio, se non altro, conosceva qualcosa dell’opera lirica e sapeva leggere almeno le note. Ora spesso non è più così. La scuola media, in troppi casi, (e non certo per colpa dei docenti) non ha la possibilità di fornire una preparazione elementare riguardo al linguaggio musicale. E’ mai entrato in una classe dei giorni nostri? Il povero insegnante di educazione musicale è costretto a fare i conti con una realtà davvero sconcertante e può raccogliere frutti modesti rispetto a quelle che sarebbero le sue intenzioni. Un paragone tra la scuola di oggi e quella degli anni ’50 o ’60 è improponibile. E non solo riguardo allo studio della musica.
In effetti mi ha costantemente meravigliato l’indifferenza di musicisti per ciò che sta intorno, sopra, dietro le note, che si risolve anche in ignoranza. Non sta anche qui quell’aria scolastica e sciapa di anche mediamente e giovani corretti interpreti….
Cara Giulia, grazie per questo (lungo) post che permette di andare a guardare la luna e non il dito. Secondo me non si tratta di Scala, di Teatro d’Opera o chissà. Purtroppo questa “massmediaticità” ha investito, eroso, tutte le forme della cultura. Basta guardarsi attorno: in libreria quali sono i “titoli” che “devi” leggere per essere a la page? In casa quali sono gli inutilissimi “oggetti di design” che “devi” possedere per essere a la page? Sono solo due esempi, ovvio, ma qui sta il nucleo di quanto ragionando esponi. Oggi come oggi non è la voglia di conoscenza che spinge verso la cultura, ma il fatto di essere e sentirsi (e sentirsi dire) di essere a la page.
Una tristezza indicibile, come coloro che passano dall’Orsay, si fotografano con il loro telefonino a la page (inutile per un buon 90% delle funzioni di cui si fa foriero di modernità) giusto per mettere la foto nel nuovo layout a la page di facebook e per dire “ci sono stato”. Senza neanche pensare o porsi il problema di cosa sono stati, di cosa hanno rappresentato e di cosa sono ancora oggi – ad esempio – gli impressionisti. I meneghini sono più avvezzi a questo circo, da poco terminata la settimana del Salone del Mobile, un obrobrio perpetrato a chiunque volesse passeggiare per una Milano dal design inutile ma dagli aperitivi – gratis ma a invito – sontuosi. Il tutto per credersi qualcuno. E’ su questo aspetto, ahinoi, che i guru della comunicazione con le loro sciarpette si fanno stipendi d’oro. E noi, grulli, ci caschiamo sonoramente ogni volta. Non stupisca, quindi, questa pratica applicata al Teatro d’Opera in generale, è una mentalità ormai ben radicata quella del “superficiale e veloce che il tempo lo si deve passare a raccogliere plausi dagli amichetti”, una sorta di riflusso dal riflessivo allo “show off” indegno. Peccato che questa volta siano Verdi e Wagner a smenarci.
infatti la questione investe la svendita della cultura in generale, ma il post mi pareva già di una lunghezza biblica. Il centro del problema è quello che dici tu.perfetto
Signori miei, da Milanese doc vi dico che di questa stagione non so davvero cosa andare a vedere, perchè è talmente terrificante che non credo neanche valga la pena di spender soldi per i biglietti (tra l’altro rialzati di costo, prima una poltrona il platea costava 187 ora costa 210+ 20% di prevendita…). Credo che andrò al concerto di Natale perchè adoro Ticciati, al recital della Di Donato per divertirmi un po’ e per pensare a quanto questa donna stia spercando la sua meravigliosa voce e forse al Nabucco, per pietà di Verdi…vedete un po’ voi…mah
tsk, non sei proprio a la page
No scusate ma Kau Kau l’abbaiatore in Lohengrin perchè per la prima…perchè???
Come sarebbe a dire “perché per la prima” Kau Kau (Bau-Bau…)??? Ma sempre per i sopracitati motivi, ovvio: nome di grido (il massimo del momento, in senso stretto e in senso lato…), esteticamente appagante (e vabbè, questo glielo concedo…), tutto confezionato per una Prima ultra-strombazzata, rientra perfettamente nella logica descritta nel lungo post della Grisi. Poi, caso mai, si farà venire qualche malore dell’ultimo minuto, ma tanto si sarà già raggiunto il tutto esaurito, e chissenefregs…
Purtroppo sono al corrente della logica di mercato ma …le walkirie devono essere in carne uff!! E poi sono sorpreso dalla decisione di aprire con Lohengrin…non proprio un titolo in grado di appagare il pubblico medio italiano (mi sarei aspettato una bella Violetta Dessay!!)…forse per questo Kau era indispensabile…altrimenti non ci sarebbe andato proprio nessuno a vedere il Lohengrin
Infatti, secondo la “logica” (??) corrente, si va per vedere Kau Kau, mica l’opera…ma tra un Lohengrin/Kau e una Violetta/Dessay è una bella lotta. Non l’hai sentita in qualche spezzone della sua ultima Traviata al Met? Un autentico insulto alla povera Violetta…Anche per questo non mi sbatto minimamente per trovare i biglietti per la prossima Manon, mica voglio farmi venire la gastroenterite…
Purtroppo ho avuto modo di straziarmi con qualche breve ascolto della Violetta Dessay. Che dire…povero Verdi. Eppure almeno in disco sembrava avesse capito di dover ripiegare (come se poi fosse un repertorio di ripiego) sul barocco…
Quindi…sul fronte Wagneriano più Kau Kau e niente Stemme…certo che la sostituta non eccelle per compostezza vocale… … … … …
Cara Giulia, vi e’ poco da aggiungere a quanto scrivi ; vorrei soltanto sottolineare due caratteristiche sociologiche: la prima e’ lo strapotere della finanza e dei suoi rappresentanti che gestiscono ormai in quasi tutto il pianeta le manifestazioni della loro incultura (non hanno bisogno piu’ della cultura umanistica) e il conseguente economicismo (gli eventi debbono rendere) e in secondo luogo la crescita, almeno in Italia di un nuovo ceto medio ( nella mia pluriennale attivita’ lavorativa ne ho visti crescere a decine di questi mostri), incolto, evasore, prevaricatore e volgare che dell’opera lirica apprezza le fattezze della Netrebko e disprezza il canto della Devia. Con tutte le differenze storiche, sembra di esser tornati alla battuta di Scelba sul “culturame”. Il tutto condito da invidia per chi “ha studiato ma non ha fatto i soldi”. Mi ricordano Ochs,che pero’ almeno e’ simpatico…..
“il pubblico compra una serata con il divo, circondato dalla sua speciale “aura” divistica ( il rimando è a W. Benjamin )”. Mi sembra che si tratti di Adorno, il quale riferiva questo fatto ai biglietti acquistati per i concerti di Toscanini. Non ho sottomano “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Benjamin, dove magari un simile riferimento appare. Comunque, a chiunque dei due appartenga il riferimento, questo dimostra che il fenomeno ha origini molto antiche, coincidenti con l’affermarsi del capitalismo maturo. L’oggi non è che lo sviluppo di un ieri che va molto indietro nel tempo.
Marco Ninci
E’ evidente che Jean Clair nel suo libro si riferisce molto spesso (anche se solo in modo implicito) all’approccio della scuola di Francoforte e la loro critica della trasformazione dell’arte in un bene consumatorio.
In quello che accade oggi non c’è nulla di nuovo. I Verdurin in Proust sono esattamente questo. Verrebbe da dire: “E’ il capitalismo, bellezza”, che ha trasformato il valore d’uso in valore di scambio. Negli anni Duemila il fenomeno è quantitativamente più rilevante, ma è presente da tantissimo tempo. Le avanguardie storiche non hanno fatto altro che lottare contro questo.
Marco Ninci
In effetti, giulia, è proprio questo il problema. Ci stiamo abituando tanto ai Geschmacksverstärker (scusate ma non trovo una parola italiana altrettanto calzante) in tutte le manifestazioni della vita che non siamo -quasi- più in grado di riconoscere un buon sapore da uno cattivo, La tendenza invade tutto: la cucina, la musica, le arti visive e anche le arti rappresentative. Le belle interpretazioni, senza tutti questi ausilii, rischiano di passare inosservate. Così è il pubblico oggi. È il risultato di un’ industria che ha plasmato il suo consumatore. Aiuto!
E’ tutto giusto, è tutto vero, ma non credo che le strategie di marketing riusciranno mai a scalzare i criteri – tanto vivacemente quanto pluralisticamente sostenuti dal CdG – che presiedono alla cura e alla sopravvivenza dell’opera lirica.
La Scala è l’unica vera istituzione di teatro musicale in un paese non celebre per le sue istituzioni, e contiene in sé gli anticorpi necessari a impedire che qualcuno ne possa tradire la natura – vuoi riducendola a una sorta di corridoio di casa sua – da percorrersi in ciabatte – come è avvenuto in un passato abbastanza recente, vuoi trasformandola in carrozzone modaiolmediatico, come si tenta di fare oggi.
La Scala è sempre e solo stata la casa di quanto di meglio ci fosse – SENZA TANTE STORIE – come si addiceva (e ancora si addice) a una città seria, attenta e pragmatica come Milano.
(Ricordo quanto mezzo secolo fa, di passaggio da Roma, SENZA TANTE STORIE, si comprava un biglietto, ci si infilava in loggione e si assisteva a un DON GIOVANNI Schwarzkopf, L. Price, Freni, Ghiaurov, Alva, Scherchen, e fotti la regia, andava benissimo così com’era. Una normale serata scaligera).
RESISTERE, RESISTERE, RESISTERE!
ma chi resiste di fronte a questo stato di cose?…la legge è quella dei numeri e la mediocrità è preponderante. La scala ha resistito finchè ha avuto un pubblico educato al gusto….
La legge è quella del canto, della musica e del teatro. Questo sito ne è la conferma. I manager passano, l’istituzione, se è sana – e la Scala lo è – resta. Vedrai, carissima, quanti cadaveri vedremo passare…
The darkest hour is just before dawn…
Può suonare poco opportuno, cara Lily, ma personalmente me lo auguro, anche se la disperazione è giusto qualche passo più avanti. Nel senso che sta mancando proprio la materia prima oltre che giù dal palco (un gusto uditivo), sul palco (un gusto).
Poco sotto Giulia, per un errore di battitura scrive “La scala è un tetro”. Ecco, secondo me non è un errore di battitura, è proprio un tetro. Ora come ora.
Sì, ora come ora. Ma – credimi – un Genius Loci esiste…
…e – come dice il vecchio Timur – “l’anima offesa si vendicherà”.
Ah, Giulia Giulia, quando ti rallegri per il milione e mezzo di ingressi, anche tu ti inchini alla legge dei numeri…Per la Scala non va bene, per il Corriere della Grisi invece sì?
Marco Ninci
Ninci caro noi non percepiamo una lira, la Scala si soprattutto dallo Stato (che saremmo anche tutti noi, per la cronaca).
Ninci caro la Scala paga i propri cantanti (e non solo), noi no, abbiamo soldi nostri.
Ninci caro, noi festeggiamo, omaggiamo e ringraziamo chi ci legge e tutto questo aggratisse!
Questi sono i nostri numeri, quelli della Scala hanno il rumore delle banconote fruscianti e tintinnanti… questa la differenza!
Ninci caro, ma ti rendi conto di quello che scrivi???
Boh… veramente…
peccato che noi siamo blogghisti che si esprimono in pubblico su ciò che pensano. La scala è un tetro, un simbolo che ha una grande storia, nota nel mondo, e che benficia di soldi e sponsor e si fa lautamente pagare anche quando fa estetica dello stercorario. Noi siamo criticoni, quella in tempio culturale. Tu invece in filosofo senza acume che paragona cose imparagonabili. Paragoni mele a pere….un modello di logica ! Sniffi?
Mio Dio Ninci come sei tedioso. Se i numeri sbandierati da lissner coincidessero con la qualità delle proposte non saremmo certo qui a lamentarci. il problema è che si tratta principalmente di “fuffa” pseudoculturale.
Causa una correzione telefonica, l’articolo è rimasto da ieri sera ad oggi senza la seconda metà. Ora è completo
Divina Giulia, il suo lungo articolo non fa una grinza ed è condivisibile da cima a fondo.
Complimenti!
Condivido appieno. Ho letto con piacere il lungo post, perché tenace e rigoroso.
Ma dai… tutti sanno che le “voci” ci sono. E’ solo quistione de agenzia o di casa discografica. Poi c’è anche la storia dei direttori d’orchestra… Poi c’è anche la storia delle “regie”… Le storie dei direttori artistici, ecc., ecc.
QUANTE STORIE!
Sai che secondo me hai ragione da vendere?
TROPPE STORIE infatti.
Quindi si auspicano MENO storie e più teatro d’opera. E’ chiedere troppo a chi EFFETTIVAMENTE ci campa con il teatro d’opera e invece si arrabatta in QUANTE STORIE?
E secondo te questo stato di cose non è da denunciare, da contestare e – siccome queste storie hanno pure aumentato i costi per gli spettatori – da CAMBIARE?
Vedendo poi ieri sera in tv uno dei blablologi emergenti che ha sciorinato un elenco deprimente di banalità sull’opera, la più trita anedottica operistica (prova del fatto che è un improvvisato oltre che un “giornalista” superficiale), mi sono resa conto che è necessario provare ad affrontare questi temi con maggiore attenzione, esplicitando le nostre esposizioni ed esponendole qui al dibattito con voi. Ritenere che chi critica questo stato di cose, lo star system con tutte le sue deviazioni ed i suoi guai, sia un melomane che crede nella musealizzazione dell’opera ( e vorrei sapere il nostro blablologo che sa di musei, dato che esistono tanti tipi di musei dalla fruizione differente…forse il nostro pensa che i musei siano ancora fermi al collezionismo alla von Humbold…..ma è meglio lasciare perdere) è ignoranza completa e totale di posizioni che siano anche solo minimanente diverse dal suo generico avangiardsmo tout court. Le dichiarazioni, sbandierate, circa l’attualizzazione della musica, il trattenere e rappresentare ciò che c’è di attuale nella musica del passato, se sono in bocca e nelle mani di Pierre Boulez producono frutti altissimi, condivise anche dai supposti passatisti come noi. Nelle mani dei mercanti che tanto piacciono a questo blablologo si traducono nell’avvallo di ogni più disgraziata prova cui abbiamo assistito in questi anni, senza fondamento artistico o musicologico alcuno. Perchè quello che non si dice nel proclamare l’avanguardismmo è che alle prese con la musica del passato non è liberi di fare ogni cosa e di ogni cosa squartare e stuprare. Estrarre significati o valori per il nostro tempo non consente lo snaturamento del compositore, del canto e dell’orchestra. Solo che Boulez è uno tra pochi, il resto è fuffa presuntuosa ed incapace. Per trattenere e porre in primo piano ciò che c’è di attuale nella musica passata occorre essere lettori ed interpreti acuti, attenti, preparati…..vorrei dire geniali. L’avanguardismo tout court è ordinatrio, volgare e presuntuoso, sciatto perchè proclmato da chi non sa nemmeno leggere corretamente la tradizione. Dunque tornerema parlare della supposta musealizzaione della musica ( il blablologo, fatemelo dire, ha dimenticato che i più grandi musealizzatori e restauratori di un sedicente passato antica e finto antico immaginato sono proprio i baroccari francesi di cui la sua stimatissima Cecilia Bartoli è la testa di ponte nello star system)..e delle questioni che ineriscono il senso del tenere vivo il passato. Perchè tutto il mondo dei beni culturali sa che deve eservitare la tutela degli stessi ma sa di avere anche il problema chiave del “che farsene” oggi di questo ammasso di oggetti etc… L’architettura del passato, e qui saluto il blablologo e lo invito a pensare e a stuadiare prima si parlare, è tutelata eppure è IN USO! non se ne può fare ciò che si vuole, anzi si ritiene il suo uso la sola modalità per la sua conservazione ………perchè non è così per la musica? l’uso dell’architettura del passato è soggetto alle regole della tutela, eppure vive: nessuno pensa di poterne fare ciò che si vuole.Nella musica invece no.
Ai blablologi interessa solo vantarsi dei mille spettacoli da loro visti in giro per il mondo, senza per altro averne capito alcunchè …
Vorrei aggiungere una cosa. Gli attacchi violenti e scomposti e le offese personali di cui voi siete oggetto in giro per il web costituiscono un’ evidente dimostrazione del fatto che state toccando un nervo scoperto. L’ etteggiamento di questa gente è solo un goffo tentativo di sviare l’ attenzione dai problemi oggettivi dei quali al giorno d’ oggi il teatro soffre. Vecchia tattica, quella di attribuire la febbre al termometro anzichè alla malattia…
Dio ti benedica! parole sante. La verità è sempre dura, quando ai cavalli tenti di togliere i paraocchi spesso si spaventano e si imbizzarriscono…
Comunque in questa stagione io vedo anche qualche aspetto positivo: ad es. Hui He nell’Aida, Maria Agresta nell’Oberto e Leo Nucci nel Nabucco. Poi mi incuriosiscono molto Álvarez e la Radvanovsky nel Ballo e la Monastyrska nel Nabucco. Da tenere sott’occhio anche lo sviluppo del giovane Poli (previsto nel Falstaff) nonchè il bravo Secco previsto nel Macbeth.
“liberarci dal culto di Dio con tutte le positive conseguenze che conosciamo” mamma mia!
Caduta filosofico-sociologico-teologico-politica di grana grossissima in un articolo di raffinata analisi. Mi suona come il tredicesimo rintocco della pendola: non solo sbagliato in sé ma, peggio, che porta a dubitare della veridicità dei dodici rintocchi precedenti!
….sono cambiate molte cose nel mondo dell’arte dopo……tutto qui….nessun’altro risvolto…alludevo all’arte dopo l’illuminismo…