Barcelona, Catalunya. A distanza di dieci anni – 1923 e 1933 – una città diventava teatro di due apparizioni che la memoria operistica continua a celebrare. Al di là di tutto… Due personalità lontane, a loro modo difficili da ricondurre al denominatore comune della geografia: mentre l’una si abbarbicava al rifugio della misura, l’altra si concedeva alle bizzarrie della celebrità. Era chiaro dunque che pure il curriculum dovesse strutturarsi secondo approcci quantomeno opposti, che pendevano per la più anziana verso l’oculatezza di ruoli e scritture – necessaria per preservare una cavata non eccezionale – laddove invece la più giovane andava via via abbandonandosi a velleità più divine che… divistiche! Restava il timbro invidiabile, di luce e soavità, a far da unico collante alle voci delle due catalane: Victoria de los Ángeles e Montserrat Caballé. Due artiste che trovarono forse proprio nello sfaccettato carattere dell’eroina di Prévost il canto del cigno della loro carriera.
La propensione al Lied della de los Ángeles, che padroneggiava al contempo la canzone spagnola – il suo vero imprinting, fatta propria a tal punto che nel 1989 Renata Tebaldi non fece fatica a ricordare “quelle manine piccine piccine con cui sapeva accompagnarsi alla chitarra in bis incantevoli” – e quella tedesca – promossa dalla grandissima Gerhardt – metteva in luce la duplicità di un’indole mediterranea che ben si conciliava con un orientamento più contenuto di matrice nordica. È qui, negli echi di un’Europa dalla doppia natura, che si inserisce la Manon della de los Ángeles. Spazzato via il naturalismo ad oltranza – tendenza che appiattiva Puccini e Massenet su un’unica linea interpretativa – rimaneva la compostezza di un’emissione facile, calda, spontanea, tale da produrre suoni leggeri e omogenei. Non a caso una personalità notoriamente parca di elogi come Giacomo Lauri Volpi definiva la voce della signora “limpidamente essenziale, sdegnosa dell’esteriorità, dell’enfasi, del manierismo, della drammaticità, della teatralità […] Voce pura, fatta di suoni così tersi che […] le parole paiono librarsi sul suono sfiorandolo appena”. Se questa Manon ha quindi un merito, è proprio quello di proporre una lettura più contenuta, fedele alle origini francesi del personaggio. E non era scontato. Anzi. Trovare in quegli anni – il debutto, uno tra i più acerbi insieme a quello di Mimì, risale al 1945, al Liceu, con un cast squisitamente francese, anticipazione di una ripresa l’anno successivo nella medesima cornice al fianco di Di Stefano, prima di ritrovarsi, a distanza ancora di un anno, quale partner di Gigli al Teatro de la Zarzuela di Madrid – una cantante di sangue mediterraneo che riuscisse ad adempiere alla sostanza espressiva di un testo di chiaro portato francese – lo stile vocale sempre attento al suono e alla prosodia della parola, retaggio che arriva diretto dalla tragedie-lyrique di Lully – non costituiva certo facile impresa. Che poi i limiti vocali della de los Ángeles – artista sottostimata in Italia forse oltre il buon senso ma fatta oggetto all’estero di uguale, insensata idolatria – fossero sempre gli stessi, non ci sono dubbi. Due si presentano evidenti dal primo ascolto: il tonnellaggio esiguo, tale da relegare le più grandi soddisfazioni a ruoli che non prevedessero tessiture troppo slanciate – Mimì, Marguerite di Gounod, Mélisande, Mignon, Charlotte, fino all’estremo della gheiscia pucciniana – e la modestia in acuto appena oltre il la, anche se alcune cronache dell’epoca garantiscono che nelle recite del ’45 la riapertura del taglio del quadro del Cours-la-Reine venisse risolto con un esemplare re5 al termine della gavotta, sopracuto che Massenet pose ad libitum per valorizzare l’invidiabile estensione di Sybil Sanderson, capace di raggiungere il sol senza particolari sforzi.
La scena della seduzione a Saint Sulpice nell’incisione live del ’54 diretta da Monteux al Met con Cesare Valletti nella parte di De Grieux esemplifica bene quanto detto. L’arrivo al convento, la richiesta al portiere di poter incontrare l’abate De Grieux e il desiderio di pregare indotto dal Magnificat intonato in lontananza rispecchiano, nell’accento dolente ma allo stesso tempo risoluto (“Devenu sans pitié pour une folle erreur”), la doppia anima europea di questa Manon, assumendo già nel semplice parlato la cifra dell’intera visione interpretativa. La preghiera “terrena” che introduce il duetto è risolta – inutile dirlo, in un’epoca in cui il compositore veniva considerato per quello che era, ossia come primo principio di confronto e non come uno scomodo ostacolo da aggirare – con il più scrupoloso rispetto dei segni di espressione: il “piano” sul secondo “Pardonnez-moi!”, il crescendo che si riverbera nello stesso testo (“Si ma voix de si bas peut monter jusqu’aux cieux”) e la forcella appena oltre “C’est pour vous demander le coeur de De Grieux” rivelano la sensibilità chaste et pure del soprano. Si tratta di una sinergia tra l’evidente eredità cameristica, che le permette di esibire un centro cristallino e omogeneo, e la perizia nel modulare la voce pur entro certi limiti, ossia l’attacco appena calante, la perdita di smalto già nella salita al sol di “Dieu de TOUte puissance” e la leggera stimbratura nel passaggio dal sol in “forte” e “tenuto” al re diesis di “C’est pour vous DE-MANder”. La prima sezione del duetto è ricca di chiaroscuri, la linea vocale sa flettersi in smorzature da manuale, le pause ci sono tutte. Peccato per un Valletti più che garbato, ma un po’ in difficoltà nella salita ai si bemolle. Con l’air de larme – il secondo “soliloquio patetico” dopo il commiato al picciol desco, per usare le parole di Maurizio Modugno – il tono vira, e l’amalgama di fragilità e determinazione tende a evocare le più antiche origini andaluse della musicista. Manon stringe i denti e per un tratto diventa Carmen (“Tout comme autrefois?”). I “rubati” e il legato son presenti come da spartito, mentre la brillantezza della dizione in corrispondenza delle semicrome di “Ne suis-je plus moi?”, “N’ai-je plus mon nom?”, “Ah! Regarde-moi!” può stupire il generico spettatore moderno, abituato a farfugliamenti e a cortine di misteriosa sbobba vocale. Con questi presupposti riusciamo pure a passare oltre qualche nota presa da sotto e la salita in “pianissimo” alla corona su un paio di la (“jadis pour toi plaine de CHARme” e poco più avanti “N’est-ce plus Manon?”, nella ripresa del duetto) un po’ malfermi e schiacciati. A conti fatti, la Manon della de los Ángeles non è certo compagna di quella di una Bori o di una Melis – uniformi in tutti i registri – o della lucida consapevolezza d’interprete di una Olivero, ma si fa apprezzare quale documento di un’emissione pulita e di una proprietà di colori e sfumature figlie di una scuola ormai perduta.
Giusto dieci anni dopo il debutto a Basilea nel 1957, Montserrat Caballé è Manon al fianco di Alfredo Kraus – sotto la bacchetta di Carlo Felice Cillario – al Teatro De La Zarzuela di Madrid. È bene ricordare – ce ne fosse ancora bisogno –che se la signora avesse saputo contenere alcune intemperanze al pari di certe velleità da soprano assoluto, in particolar modo a fine carriera, avrebbe tutelato il prezioso strumento ben oltre le figure barbine cui si sottopose, mancando del tutto il confronto col pudore (Anna Bolena ed Ermione, su tutte). E non parliamo solo della sregolatezza nel calibrare i ruoli con le effettive potenzialità della voce – poiché le parti che avrebbe dovuto frequentare stavano tra Massenet, Gounod, il Puccini più lirico, la contessa
mozartiana… – ma soprattutto di un approccio alla partitura quanto mai arbitrario. Non fa eccezione questa registrazione live del ’67, che se da un lato – in termini strettamente vocali – è superiore a quella della conterranea de los Ángeles, dall’altro evidenzia già nei primi anni di carriera quella tendenza a trattare “un tanto al chilo” il compositore. Pecca ancor più grave quando si tratta di Massenet, mai parco nel riempire lo spartito di indicazioni e segni di espressione. E la scena della seduzione è lì a ricordarlo. Già nelle prime frasi del duetto mancano i “rubati”, imprescindibili per evocare con la voce l’affanno di un’amante pentita e il desiderio di ricongiungimento, benché effimero. Ma la Caballé non stacca, preferisce esibire l’esatto opposto, cuce le note e fa sfoggia della grande qualità del legato (recidiva al pari poco più avanti, su “le plus souvent la nuit”). L’élan in forte che Massenet richiede su “l’est-il donc à ce point” è una splendida impennata emotiva – risolta con una forcella rispettata, così come le successive indicazioni di “più delicato” e “molto rallentato” – che termina con una corona dimenticata sulla croma del do4 di “RapPELle-toi!”. Alle libertà agogiche si aggiungano certe leggerezze sui valori delle note, che il soprano si concede a man bassa fin dall’attacco dell’assolo, rallentando – con l’intento persuasivo di una Manon non proprio ragazzina, piuttosto con la verve ben più “esperta” di una signora che ha… mangiato tanto mondo – tutte le semicrome su “que cette main presse”. Ad attenuare le colpe, van ribadite le virtù, ovvero una perizia tecnica invidiabile che coniugava lo smalto del timbro alla freschezza della voce: il si bemolle all’unisono con Kraus – in ottima forma – in chiusura è corposo e sicuro, mentre le smorzature richieste dallo spartito vengono eseguite sempre col più attento sostegno del fiato, lasciando intuire una potenzialità di sfumature che ha pochi eguali nel Dopoguerra.
Gli ascolti
Massenet – Manon
Atto III
Toi!Vous…N’est-ce plus ma main
Due celeberrime versioni. E belle. Eseguite da quattro tra i protagonisti operistici della seconda meta’ del 900. La prima conferma che Valletti (uno dei miei tenori preferiti) gia’ nel 54 era declinante, purtroppo; e che la De los Angeles non era soltanto un manierato soprano da festival anglosassone. La seconda, meravigliosamente cantata, conferma che Kraus e’ stato l’ultimo grande Des Grieux in tutti i sensi, e che la Montsy di quegli anni oltre a Gounod, Massenet, Puccini e la Contessa, poteva cantare anche gli elenchi telefonici (Un po’ meno quelli francocananadesi, del Belgio, del Lussemburgo e di tutti gli altri paesi francofoni, per ovvia limitazione di pronuncia , fossero essi musicati da Lehar o da Monteverdi non importa) a patto che il tessuto
orchestrale non fosse tale da costringerla a forzare. E per fortuna, almeno mia, canto’ anche alcuni titoli di Bellini, Donizetti, Verdi, Strauss, Chueca, Jimenez, Chapi’, Barbieri, Spontini, Boito ed Haendel privilegiando purtroppo, Gulnara rispetto a Medora o Turandot rispetto a Liu’ e trasformandosi quindi gia dopo il 1975, da miracolo vocale a caricatura operistica. Insieme a Di Stefano, la piu’ grande perdita degli ultimi 50 anni. Complimenti Carlotta. Un abbraccio.
Nell’ascolto proposto trovo bellissima e sontuosa la voce della Montserrat Cabbalé, eppure sono maggiormente sensibile all’eleganza del canto della Victoria de los Angeles , al suo dire chiaro al suo accento contenuto e risoluto. La prima ostenta il suo mezzo la seconda cerca di dar vita ad un personaggio, Kraus è sempre meraviglioso !
Con la debita premessa che non sono riuscito a sentire dal vivo né la prima (per ragioni anagrafiche) né la seconda (chissà se riuscirò a farcela prima del suo annunciato ritiro nel 2013), devo confessare che pochi cantanti hanno saputo smuovere le corde più profonde del mio animo, come Victoria de los Angeles. La “conobbi” nell’edizione di Pagliacci con Bjorling e Cellini sul podio. Non mi piacque, al confronto con altre Nedde: ero troppo giovane. La riscopersi di lì a poco nella canzone spagnola, in Canteloube e in tutto il repertorio citato dalla Marchisio. Fu amore per le medesime ragioni già enunciate nell’elogio di Lauri Volpi e che non sto a ripetere. Rispetto a quelle, questa Manon non fa eccezione.
Contro (si fa per dire) alcune tue osservazioni, Carlotta, devo ammettere che non mi ero accorto dei due limiti vocali che metti in rilievo: sul tonnellaggio, ho sempre pensato che una voce così squisitamente lirica non potesse essere di certo un fiume, ma nemmeno una voce piccolina, non fosse per altro per la qualità della voce che mi pare di quelle che corrano. Nemmeno mi ero accorto della limitatezza in acuto. Ma poco importa: ciò che mi rapisce del suo canto è la dizione chiara e semplice, il suono puro e fermo ma soprattutto, la linea di canto, che – guardate – a mio avviso, al netto di tutte le questioni tecniche o i limiti di una voce, è poi quello che secondo me conta.
Una linea di canto che, almeno in questo confronto massenetiano, la Montsy se la può soltanto sognare (come anche il colore, obiettivamente più bello quella della de los Angeles). Ciò che non toglie, s’intenda, il mio profondo apprezzamento per la Caballé.
Sono d’accordo con tutti voi. Nel post ho cercato di mantenere una parvenza di distacco, ma anch’io rimango più sensibile al gusto, al nitore, al timbro della de los Angeles. Se non altro perché ci testimonia una brillantezza dell’emissione che possiamo ascoltare solo nei 78 giri, salvo qualche rara eccezione. Per quanto riguarda i limiti, Enrico, che fosse un soprano poco esteso non ci sono dubbi, a mio avviso: la salita agli acuti dal la in poi sono sempre faticose, perdono smalto, riducono gli armonici (vedi la pur bella Marguerite incisa con Cluytens). Non dimentichiamo che Dolores Frau – la sua maestra al conservatorio, e di certo non l’ultima arrivata: cantò Azucena, Carmen e Preziosilla a Venezia, oltre ad Amneris alla Scala – non ha mai nascosto di trovare nella de los Angeles una corda da mezzosoprano lirico (il registro grave, in effetti, è sempre timbrato e corposo), curiosità che in effetti documenterebbe, oltre a una limitata estensione in acuto, la presenza di una cavata non proprio da soubrette. Io però sto più dalla parte di Annovazzi, che pare consigliasse spesso il giovane soprano di fare in modo che la voce diventasse più leggera – pena un epilogo prematuro della carriera – con conseguente abbandono di qualsiasi velleità in zona medio-grave.
Grazie Carlotta: tutte queste cose non le sapevo. E non conoscevo la Frau… Di cui mi metto subito in cerca delle registrazioni.
Sto invece ascoltando l’air des bijoux della de los Angeles ed effettivamente ad ascoltarla bene si sente che gli acuti sono un po’ tirati. Non ci avevo mai fatto troppo caso perché, come dicevo, di fronte a quella linea di canto, queste difficoltà passano in secondo piano. Soprattutto se sono congenite alla voce e non frutto di erroracci.
Due domande. Potrebbe secondo te essere avvicinata l de los angeles alla Carosio? E chi è Annovazzi?
Ora che mi ci fai pensare, caro Enrico, qualcosa in comune tra le due c’è. Anche la Carosio in alto non era sicurissima, soprattutto nel vocalizzo a piena voce – penso alla pur dignitosa Adina dell’incisione RAI – mentre gli acuti raggiunti con filature o comunque con un dosaggio più contentuto mi son sempre sembrati molto più composti. Però era essenzialmente un soprano leggero, quindi parti più pesanti come Traviata o Mimì è normale siano arrivate a fine carriera (semmai cantava Musetta). Un percorso opposto rispetto a quello della de los Angeles, che debuttò proprio con Bohème… Certo rimangono punti fermi per entrambe la lucentezza dell’emissione, il buon gusto e una linea di canto generalmente garbata, comunque esemplare per qualsiasi soprano che ci viene propinato oggi.
Qualcuno la potrà additare come esempio di Lucia esangue, ma… Senti che meraviglia! Non parliamo poi di Tagliabue!
http://www.youtube.com/watch?v=DlWqCVM4xQg&feature=related
p.s.
Napoleone Annovazzi era un direttore d’orchestra fiorentino che dirigeva il repertorio italiano soprattutto in Spagna e in particolare al Liceu. Immagino sia stata una figura cruciale nei primi anni di carriera della de los Angeles: so che l’ha accompagnata al pianoforte almeno in un paio di occasioni – a Barcellona e a Madrid, verso la metà degli anni Quaranta – e diretta al Liceu nel ’45 per il debutto come Contessa, oltre che come Manon a Roma nel ’57, nella famosa registrazione live con l’orchestra RAI.
Grazie e concordo: la Carosio era sicuramente più leggera mentra la de los Angeles possedeva un mezzo più lirico. Il punto di contatto lo trovo per l’appunto nella pura luinosità del timbro. E nello “stare sul pezzo”, tanto per intenderci.
Come per altro dimostrano le linee trovate in Lucia. Una Lucia tratteggiata con accenti di rara intelligenza artistica. Insomma: questo è cantare, altro che quei motori ingolfati à la Netrebko!
Prova ulteriore, la Giulietta belliniana.
http://www.youtube.com/watch?v=cydUQZjDTs8
Io trovo l’interpretazione della Carosio, qui, insuperata per il fraseggio ispirato e un modo di porgere che riesce a spremere tutta la bellezza delle note scritte da Bellini. Da togliere il fiato.
Tagliabue occupa un cantone di rilievo nel mazzo dei miei cantanti di riferimento. Fu uno di quei manuali viventi che solo a sentirli cantare, se non capisci dove devi studire per emttere la voce, è meglio che ti dia all’ippica. Questo in primo luogo. In secondo, una volta imparato ad emettere suoni, non se ne può prescindere per imparare a cantare.