La seconda puntata di questa necessariamente incompleta rassegna dedicata alle sinfonie di Beethoven, si occupa della cosiddetta “scuola storica”: espressione che non mi piace e non condivido – preferisco utilizzare il termine “classici beethoveniani”, che richiama certi vecchi film accomunati più che altro da una dimensione cronologica, piuttoste che da una condivisione di intenti. La “scuola storica”, intesa come blocco unico interpretativo, contrapposto a tutta un’altra modalità esecutiva (spesso chiamata “moderna” o “filologica”), infatti, è una finzione – pur se molto diffusa – che riporta ad un approccio piuttosto superficiale e ideologico alla materia. In realtà, a fronte di alcuni elementi comuni, dovuti unicamente a fattori storici (l’appropriazione “indebita” del compositore da parte della generazione romantica e tardo romantica), i risultati e le letture riconducibili agli anni tra il 1930 e il 1960 (e relative propaggini) sono estremamente differenti: a volte persino opposti nella sensibilità, nell’articolazione e nel significato. Così, se si può trovare una radice comune nel radicale allontanamento dal Settecento musicale, allo stesso modo non si possono confondere direttori e orchestre lontanissimi in tutto il resto (da Furtwängler a Klemperer, a Scherchen a Karajan o a Mengelberg). L’idea di un Beethoven ipertrofico, dai volumi sonori densissimi, dalle architetture gigantesche e dall’approccio sempre “trascendentale” appartiene più all’immaginario collettivo che ad un’analisi approfondita di quelle letture tanto differenti. A smentire tale vulgata – presa a pretesto dai conservatori ad oltranza per denigrare le esecuzioni moderne, ma anche dai sostenitori più agguerriti della cosiddetta “prassi autentica” per bollare di “scorrettezza” un approccio esecutivo che avrebbe la sola colpa di non seguire certi indirizzi intesi con rigidità dogmatica – basta l’ascolto delle diverse anime dell’epoca: si prendano, ad esempio, le testimonianze quasi contemporanee delle letture di Richard Strauss e di Hans Pfitzner. Entrambi tedeschi, entrambi appartenenti alla medesima cultura musicale (tendenzialmente tradizionalista), giungono a risultati opposti e, per certi versi sconvolgenti. Se in Pfitzner notiamo l’abbandono lirico sostenuto su tempi larghi e grandi arcate sonore (ma prive di quella maestosità che sarà la cifra identificativa di un Klemperer o di un Knappertsbusch) tipiche della visione romantica del sinfonismo beethoveniano, Strauss sembra invece anticipare le conquiste delle più recenti esecuzioni “storicamente informate”: un Beethoven più “mozartiano”, ridotto nelle dimensioni strumentali e più agile nelle dinamiche. E si tratta di incisioni risalenti alla fine degli anni ’20! Lo stesso può dirsi per le letture di Hermann Scherchen (risalenti agli anni ’50), in cui il direttore si attiene il più possibile ai metronomi originali (assai più rapidi di quelli a cui la tradizione ci ha abituato) e adotta una lettura più pulita e trasparente nel rapporto archi/fiati. Bastano questi ascolti, tra i tanti possibili, per smentire ogni semplificazione dovuta a comodità ideologica, ansia classificatoria e superficialità crassa. Come al solito la realtà e più varia e mutevole di quanto creda ogni filosofia. Fatta questa doverosa premessa – necessaria per non cadere in facili luoghi comuni – voglio sottoporre all’attenzione dei lettori alcune versioni classiche, con un’avvertimento di metodo: è improprio parlare di “integrale” in riferimento alla maggior parte di esse, poiché mancanti di una consapevolezza precisa in tal senso. Più correttamente andrebbero considerate “integrali a posteriori”, frutto, cioè, di scelte editoriali successive all’incisione della singola sinfonia: approccio, questo, che se da un lato ha l’indubbio vantaggio di permettere a ciascun brano di essere vissuto individualmente dall’interprete secondo le caratteristiche sue proprie, comporta la necessaria perdita di una “visione” unitaria. Il ricorso a diverse fonti, estrapolando il singolo pezzo dal proprio contesto, può causare, poi, una certa disparità esecutiva, dovuta soprattutto alla differenza tra le orchestre coinvolte (che parlano, quindi, linguaggi diversi ed esprimono sensibilità differenti), oltre ad una variabile qualità audio. Ho preferito concentrarmi su quattro letture, scelte non a caso in un determinato indirizzo storico (quello di più spiccata assimilazione romantica), per mostrarne le profonde contrapposizioni. Impossibile non partire da Wilhelm Furtwängler. Il grande direttore tedesco – che per molti incarna il più autentico esegeta dello spirito beethoveniano – ha lasciato numerosissime testimonianze della sua interpretazione delle Nove Sinfonie, in concerti pubblici, esecuzioni radiofoniche ed incisioni in studio. Ovviamente la sua sensibilità – più congeniale a certi brani – l’ha portato a prediligere l’esecuzione di alcune sinfonie a scapito di altre (in ciò risentendo del gusto dell’epoca, concentrato su una visione di Beethoven fieramente antisettecentesca e in cui faticavano a trovare spazio la Seconda, l’Ottava e la Quarta Sinfonia: assai poco frequentate, infatti). Tuttavia sarebbe sbagliato limitarsi a definire “romantico” l’approccio di Furtwängler, il quale ha del corpus sinfonico una visione estremamente inquieta, soggettiva e visionaria, lontana sia dal lirismo di Walter e Mengelberg (i più autentici esponenti del Beethoven romanticizzato) sia dalla maestosa olimpicità di Klemperer. Caratteristica principale del suo stile esecutivo è il procedere per piccole particelle che trovano origine l’una dall’altra in una continua “rivelazione” in cui la natura – con cui identificava la musica di Beethoven – realizza sé stessa: da qui l’attenzione alla funzione della singola misura in rapporto al percorso musicale, piuttosto che all’architettura complessiva del brano. Da quest’approccio discende l’estrema libertà agogica in cui ogni frase si differenzia dall’altra (anche se apparentemente riprende la medesima idea musicale) poiché ciascuna frase ha un senso ben preciso e diverso da quella successiva o precedente. Furtwängler non considera il tempo e la nota scritta come una qualcosa di definito e di intoccabile, ma li ritiene elementi strumentali alla realizzazione di un’idea, attraverso l’opera soggettiva dell’interprete (anche Celibidache partirà da questa concezione per arrivare ad un soggettivismo estremo, nel quale il soggetto sparisce in funzione della realizzazione musicale). Il suo è un Beethoven prepotentemente irrazionale, nonostante l’adozione di formule classiche: in questo è un Beethoven essenzialmente “umano” che racchiude il senso del dramma wagneriano, l’elaborazione formale di Bach e la cantabilità mozartiana. Chiaramente saranno le sinfonie più drammatiche e inquiete a realizzare pienamente la sua visione: la Terza, la Quinta, la Settima e, soprattutto, la Nona. Nell’Opus 125, infatti, Furtwängler vede una sintesi hegeliana delle inquietudini di un secolo lanciato verso l’ignoto, la summa di un’esperienza di vita. Le sonorità scelte – pur nell’estrema variabilità delle diverse incisioni – non sono mai soffocanti, pur privilegiando una certa densità, così come i tempi riflettono la medesima erraticità. Un Beethoven estremamente complesso, dunque, che non può non risentire delle drammatiche tensioni di quegli anni (appaiono diversissime, infatti, le incisioni pre e post guerra mondiale). Una lezione, dunque, non solo musicale, ma profondamente umana che non può essere banalizzata con la formula onnicomprensiva della “scuola storica”. Una curiosità, pare che la capienza del compact disc venne decisa dal patron della Sony proprio per permettere che contenesse i 74 minuti della Nona di Beethoven che Furtwängler diresse nel 1952 a Bayreuth. All’opposto del soggettivismo individualista di Furtwängler si può collocare l’approccio beethoveniano di Otto Klemperer. Per uno strano scherzo della vox populi, i due direttori vengono spesso accostati, come se facessero parte di una medesima corrente: in realtà non vi potrebbero essere due sensibilità musicali più distanti. Laddove il primo non nasconde inquietudini e tormenti, il secondo interpreta un Beethoven il più possibile oggettivo e apollineo. Attraverso la lente dello scienziato, Klemperer privilegia gli aspetti architettonici dell’opera sinfonica, l’austera grandiosità delle forme (talvolta esasperate, nei tempi larghi e comodi, proprio per mostrarne l’elaborata costruzione), la sua serena maestosità. Evidente è il rifiuto di ogni influenza settecentesca (Haydn e Mozart) attraverso un suono compatto e solido (se pure bisogna riconoscere una certa evoluzione: mentre le prime incisioni tradiscono una visione più severa ed analitica, quasi bouleziana ante litteram, nella ricerca di un’oggettività scientifica, le ultime appaiono viziate da un certo manierismo e autocompiacimento nell’esaltazione della componente più esteriormente ciclopica). Come di consueto ne fanno le spese la Seconda, la Quarta e l’Ottava: quelle sinfonie, cioè, che più difficilmente sopravvivono all’appropriazione tardoromantica (è interessante il parallelo con il Fidelio: anche in questo caso, in una visione fortemente segnata dai fraintendimenti storici e dalla sua rilettura in chiave wagneriana, creano imbarazzo i personaggi meno “romanticizzabili” che vengono, di solito, risolti in farsa o resi con una certa fretta infastidita, quando, addirittura, non ne vengono eliminati i brani – l’aria di Rocco è un esempio). Come per Furtwängler è improprio parlare di “integrale” (salvo per il ciclo viennese del ’60) essendo molto ampia e variegata la documentazione sonora del suo Beethoven. Per comprendere la lettura di Klemperer, tuttavia, è indispensabile – almeno a mio giudizio – accostare le sue incisioni bachiane: la severità della forma e l’interesse all’architettura dell’intero brano, infatti, saranno costanti che si ritrovano in tutte le sue incisioni, ma in Bach, appunto, trovano radice e compimento. Anche in questo caso, dunque, è improprio parlare di un Beethoven pienamente “romantico”. Definizione che invece, mi pare la più appropriata per l’approccio esecutivo di Bruno Walter (due sono i cicli sinfonici a cui mi riferisco: quello classico inciso in studio per la Columbia nel 1959/60 e quello, ben più interessante, registrato nel corso di diversi concerti pubblici tra il 1941 e il 1953). Già allievo e amico di Gustav Mahler, Walter propone un Beethoven poetico e lirico, pienamente corrispondente all’idea “romantica” che certa tradizione ci ha tramandato. I tempi generalmente lenti (ma ben sostenuti), la prevalenza dell’impasto sonoro degli archi che ammorbidiscono ogni possibile asprezza, la grande varietà di colori e la serenità di fondo (che non mira, però, all’oggettività ricercata da Klemperer), ci tramandano un Beethoven vibrante ed equilibrato, dove le complessità architettoniche non prevalgono sull’identità della singola frase: in questo senso Walter è poco interessato all’etica e ai significati trascendenti (che erano gli elementi fondanti – pur nelle diverse accezioni – delle opposte letture di Furtwängler e di Klemperer) e preferisce evidenziare i collegamenti con Mendelssohn e Schubert. Resta da affrontare il capitolo Herbert von Karajan che, nel bene e nel male ha incarnato l’immagine sonora più diffusa della musica di Beethoven. Ben quattro integrali si susseguono negli anni (1951/55, 1963, 1976/77 e 1982/85): personalmente non ho mai creduto ad una rigida divisione in periodi della parabola artistica di Karajan (ho sempre pensato che pregi e difetti siano stati sempre presenti, pur se miscelati in diverse percentuali), allo stesso modo non ritengo vi siano sostanziali differenze tra i quattro successivi cicli sinfonici. Piuttosto si nota lo sviluppo di due tendenze parallele: l’approfondimento nella ricerca del suono (sempre più morbido, raffinato, flou, sino al vero e proprio tecnicolor delle incisioni anni ’80) e la contestuale accentuazione di caratteri manierati derivanti da questa ossessione per la spettacolarità. Queste tendenze si trovano già nel primo Karajan – anche se mitigate da una maggiore vivacità ritmica (soprattutto nella Settima Sinfonia, che diviene il nucleo irradiante dei primi due cicli) – e si svilupperanno sino alla riduzione della musica suonata a mero momento di edonismo sonoro (quando non discografico). Il Beethoven di Karajan, nonostante la propensione a “suonarsi addosso”, resta lo sviluppo naturale di una romanticizzazione rassicurante: non si cerchino le profonde inquietudini di Furtwängler, così come la severa maestosità di Klemperer o l’abbandono lirico di Walter. Piuttosto, il direttore austriaco rivive in chiave moderna i fasti del classicismo viennese: un Beethoven di estremo nitore e lucentezza, perfettamente equilibrato nel dosare colori e senso della struttura. Alla fine troppa perfezione porta all’artificio e l’eccesso di pulizia formale (nella ricerca di un’identità sonora sempre più appagante) porta, paradossalmente, all’anonimato. Così l’interpretazione beethoveniana di Karajan può essere riassunta in questo famoso aforisma di Karl Kraus: “le mancava solo un difetto per essere perfetta” .
Gli ascolti:
Sinfonia Nr. 3 in Mi Bemolle maggiore, Op. 55 – Hans Pfitzner (1929)
Sinfonia Nr. 5 in Do minore, Op. 67 – Richard Strauss (1928)
Grazie, Duprez, per l’interessante articolo, sto seguendo questo ciclo con molta attenzione, per capire meglio anche la struttura “tecnica” delle composizioni di Beethoven. L’esecuzione della 5° diretta da Strauss è qualcosa di sublime, sembra quasi che sia Beethoven stesso a comandare le sue mani, è perfetta, paradisiaca. Grazie di aver condiviso con noi questo tesoro. Alla prossima
Quello che impressiona, nella concertazione di Strauss, è l’approccio “minimalista”, suono trasparente, prevalenza dei fiati sugli archi, tempi spediti, assenza di compiacimenti romantici: sembra un’esecuzione dell’ultimo Abbado. Questo per smentire la vulgata per cui esiste una contrapposizione netta: alla fine è scorretto parlare di “scuola storica”. Ogni direttore è differente: sfido a trovare punti di contatto tra Klemperer, Furtwangler e Walter.
A me piace molto anche la versione di Pfitzner (che è pure un compositore che adoro), certo più riconducibile ad una dimensione “romantica”, ma per nulla poderosa o ipertrofica.
Ps: purtroppo i filmati allegati non sono di qualità audio molto buona. Le copie presenti nella mia discoteca, invece, sono ottimamente restaurate.
Duprez, come inserisci Carl Schuricht in questo discorso? Per me appartiene alla corrente di Strauss e Pfitzner.
Complimenti per l’ ottima esposizione. Sono perfettamente d’ accordo con te sull’ inesistenza di una contrapposizione tra due scuole interpretative.
Saluti.
A parte che secondo me Strauss e Pfitzner sono molto differenti (Strauss anticipa il Beethoven “mozartiano” e “filologico” di certi approcci contemporanei, mentre Pfitzner è sicuramente ancorato ad una visione “romantica”), trovo Schuricht – grandissimo direttore, peraltro, inspiegabilmente considerato “il Furtwangler dei poveri” – molto più affine a Pfitzner nel ricondurre Beethoven al romanticismo classico tedesco (Mendelssohn, soprattutto e Schubert).
Tra l’altro Schuricht è stato molto attivo a Stoccarda: ci sono splendide incisioni a testimonianza.
Lo so, qui da noi infatti è ancora ricordato dagli appassionati.
Bella sintesi, non c’e’ che dire. Da fanatico Furtwängleriano quale sono, trovo un po’ da ridire sul ruolo delle cosiddette “sinfonie minori”. Credo che WF gli abbia dedicato più attenzione di altri direttori, specialmente alla Quarta. Sulla classificazione della musica di LvB, classica o romantica, la mia opinione e’ che LvB occupi DA SOLO un’epoca di cuscinetto tra i due periodi. Non è più classificabile come classico, alla stregua di Mozart e Haydn, ma non è ancora un romantico “full fledged”. Mi incuriosisce un’altra sua nota: mette Bruno Walter fra gli interpreti del Beethoven “romanticizzato”, mentre a me sembra proprio il maggior esponente del Beethoven “classicheggiante”. Se non lui, chi sarebbero dunque i direttori del Beethoven classicheggiante?
Cordiali saluti,
Lucio Demeio
benvenuto professore. La sua presenza ci onora
Ma … ci conosciamo ?