La tournée europea, nello specifico russa e italiana, della Chicago Symphony Orchestra sotto la guida del suo direttore musicale Riccardo Muti si è conclusa al Pala De Andrè di Ravenna, con un concerto che ha segnato l’apertura, fuori stagione, del Festival locale, legato da lunga consuetudine all’illustre bacchetta. Una manifestazione, giunta ormai al suo ventitreesimo anno di attività, dovrebbe proporre ai prestigiosi complessi, che di frequente ospita, una sala da concerti che sia qualcosa di meglio di un palazzetto dello sport adattato alla bisogna. Oltretutto munito di palese, seppur discreta, amplificazione, che se consente alla musica di raggiungere con nitidezza anche i posti più lontani dal palcoscenico, le toglie per contro quasi ogni vibrazione, con fastidioso effetto di “inscatolamento”. Caratteristica che si accentua, quando la conduzione musicale della serata sia affidata a un direttore che mai ha brillato per abbandono e attenzione alla dimensione sensuale del suono, che risulta ugualmente opaco e un poco pesante nelle tre pagine che compongono l’eclettico programma: la suite delle musiche composte da Rota per “Il Gattopardo”, il poema sinfonico “Morte e trasfigurazione” di Richard Strauss e la Quinta sinfonia di Shostakovich. Le composizioni vengono ricondotte a una medesima cantabilità mediterranea, che se funziona in Rota (salvo mal conciliarsi con i “colpi di mazza” inferti nella tarantella del brano “Viaggio a Donnafugata”) e parzialmente in Shostakovich (soprattutto nell’ultimo movimento, restituito con grande imperiosità ritmica), rende la pagina straussiana un poco stucchevole nei passaggi usualmente ricondotti ai ricordi del morente, per caricarsi di enfasi quasi caricaturale nella successiva apoteosi. Meglio, in “Morte e trasfigurazione”, l’incipit, che rende legittima l’attesa di una lettura severa e asciutta, lontana dalle ridondanze in cui, successivamente, il direttore pare ingolfarsi, trascinando anche gli ottoni in alcune entrate non proprio esemplari. Che poi l’orchestra suoni benissimo, con punte di assoluto splendore negli interventi dei legni, non è neppure da mettere in discussione: solo, un direttore un poco più avvezzo al sinfonismo mitteleuropeo potrebbe cavare ben altro da un simile complesso. Il programma, identico nelle varie tappe della tournée, si è chiuso anche a Ravenna con un bis verdiano (sinfonia dell’opera mai scritta, o Maledetta o Malefica che dir si voglia). Impossibile non pensare, vista la prossimità del bicentenario verdiano, a una provocazione o almeno a un sorriso di scherno rivolto a quel teatro, che proprio nei giorni scorsi ha presentato una stagione per metà consacrata al Cigno di Busseto. I pregi e i difetti, al netto del lusso orchestrale (e a meno di qualche intervento non felicissimo degli archi), sono i medesimi del Muti di sempre: capacità di staccare un tempo lento e maestoso (tema “Le minacce i fieri accenti”) mantenendo sempre il controllo della situazione ed evitando incidenti di sorta (gli stessi che, in Scala, si ripetono ormai regolarmente a ogni serata, affidata alla promessa di turno), frasi che attaccano in “piano” e si elevano solenni senza che il turgore sonoro prevarichi sul rispetto della linea musicale (tema “Non mi lasciar soccorrimi”), un’energia che esplode nella sezione finale, trovando però nelle fragorose code accenti più consoni all’opera buffa che non al dramma verdiano. Trionfo, a ogni buon conto, e nei giorni successivi, una rassegna stampa (prettamente italiana) ispirata a toni miracolistici e messianici, segnata anche da qualche caduta nel ridicolo, allorché si afferma che solo grazie a Muti l’orchestra abbia potuto raggiungere l’eccellenza. Il vero problema e il fondato motivo d’imbarazzo per molte di queste ispirate penne (spesso peraltro incapaci di imbarazzo alcuno) è che, nel momento in cui celebrano Muti, devono stare attente a non celebrarlo oltre misura, visto il loro ruolo, ampiamente istituzionalizzato, di vestali (novelle o storiche) dell’eccellenza scaligera. O come direbbe un poeta, di casa (anche nel senso dell’estrema dimora!!) a Ravenna: “sì si starebbe un cane intra due dame”.
15 pensieri su “Chicago Symphony Orchestra, dir. Riccardo Muti. Ravenna, 27.IV.2012”
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Ho assistito allo spettacolo al San Carlo (quindi niente da dire sull’acustica), e personalmente l’ho trovato entusiasmante. Concordo in pieno sia per il “lussuoso” che per l'”imperioso”! A prescindere dalla schizofrenia del programma che ha incluso Nino Rota… Questo non per “razzismo”, ma per un motivo molto semplice: con un’orchestra mostruosa come questa avrei voluto sentire qualcosa d’altro, e che diamine! Per il resto è stato puro godimento: il suono era perfetto, potente, adamantino, tetragono. E’ per questo che l’apice per me è stato Shostakovic, esaltato da tanto virtuosissimo vigore. Rota è stato eseguito in maniera impeccabile, con una giusta accentuazione dei toni lirici. Penso che Strauss sia stata la pagina meno riuscita, forse perchè carica di innumerevoli sfaccettature psicologiche, anche se parliamo sempre di sontuosa eccellenza. Tra l’altro, pur essendomi piaciuto tantissimo il pezzo, non sarei capace di esprimere quello che non mi ha convinto, dovrei risentirlo (magari!!)! Per il resto Muti è quello che è: tanto tronfio quanto bravo, e a me, forse in questo caso un po’ (troppo) provincialotta, piace sia per il tronfio che per il bravo…
Mah… Andate ad ascoltare le due versioni della quinta dirette da Bernstein… Quella di Muti va bene per Ravenna.
Preferisce Bernstein a Muti? Ma allora le piace vincere facile…
E’ evidente che Bernstein è stato un gigante, purtroppo io non ho avuto la fortuna (sfacciata, direi…) di ascoltarlo dal vivo, ma dalle registrazioni la sua interpretazione della sinfonia n. 5 mi lascia senza fiato e mi commuovo davanti a un simile magistero. Ma ciò non toglie che a me personalmente l’interpretazione di Muti sia piaciuta tanto e che, soprattutto, l’esecuzione dell’orchestra sia stata assolutamente eccezionale, restituendo in teatro un suono davvero splendido. Mentre sul mio giudizio sull’interpretazione potrei anche ammettere di sbagliarmi, su quello sull’esecuzione sinceramente no. E questo mi induce a pensare che Muti non da ora non sia proprio un direttore di provincia, tutt’altro, perchè anche per le esecuzioni e non solo per le interpretazion i i direttori hanno i loro meriti (come pure i loro demeriti, del resto). Poi non è certo compito mio difendere Muti in generale, sinceramente non ne vedo la necessità, mi riferisco allo spettacolo oggetto del post e ascoltato in teatro, che, ripeto, secondo me è stato oltremodo meritevole oltre che incantevole.
Sì trovo anche io fuori luogo la considerazione di Amodomio – a parte il fatto che, personalmente, se avessi voluto portare esempi esecuzioni di Shostakovich avrei scelto altri direttori (con tutto il rispetto per Bernstein). Dire che Muti e la Chicago Symphony Orchestra (orchestra tra le migliori al mondo) siano roba che va bene giusto a Ravenna, significa fare dell’inutile provocazione. Così come il gioco del paragone (vuoi mettere Bernstein? Vuoi mettere Karajan? Vuoi mettere XXX?) resta un gioco: e il bel gioco “dura poco”…poi diviene stucchevole. Muti è un direttore importante e condivisibilissima è l’analisi dell’ottimo Tamburini che ne evidenzia pregi e difetti. Soprattutto nel sottolineare la poca dimestichezza (tipicamente mediterranea) con il sinfonismo mitteleuropeo: è sempre stato il difetto del Muti “sinfonico” che trovo più a suo agio nel repertorio russo/sovietico (Scriabin e Prokofev) piuttosto che nel classicismo austro-tedesco. Purtroppo ha poco approfondito il primo per dedicarsi – come ogni direttore “che si rispetti” – a Schubert, Beethoven, Strauss. Devo dire che il programma mi pare eccessivamente vario, soprattutto non comprendo la necessità – ma pare sia un atout di Muti – di inserire Rota in ogni dove: così da evidenziare la pochezza della sua musica – gusti personali, per carità – rispetto a giganti come Shostakovich, Strauss e Verdi…
Pienamente d’ accordo. Senza sminuire il valore di Muti come musicista, si può tranquillamente affermare che il suo Beethoven è insignificante al pari del suo Brahms e del suo Bruckner.
Ridimensionare un’interpretazione ricordandone un’altra, che ci sembra superiore, è una delle attività più futili che si possano immaginare. Anche perché è un pozzo senza fondo. Per quanto una persona sia intelligente, ci sarà sempre chi è più intelligente di lei. Per quanto una donna sia bella, ci sarà sempre una donna più bella di lei. E allora? E’ un parlare vano. Più utile sarebbe definire i caratteri di quella tale interpretazione, senza stilare classifiche tanto sciocche quanto improbabili. Ma questo è un po’ più difficile.
Marco Ninci
Anche perché a furia di “sputare” sul Muti scaligero ci ritroviamo ora con….battistoni Ah! ah! ah!
Io inizierei a distinguere il direttore d’orcherstra dal direttore di teatro. Sono due mestieri diversi che richiedono doti diverse: alcune volte possono coincidere, altre volte no.
A mio umile giudizio con Abbado coincidevano, con Muti no. E numi perdono se ho peccato di Lesa Maestà.
… fermo restando che di canto pure Abbado ha sempre capito il giusto, ossia troppo poco!
Antonio, non faccio nessuna fatica a crederti, ma qui dovrebbe subentrare la capacità di delegare quei settori vitali che non padroneggi alle persone giuste. Bogianckino, ad esempio, lo sapeva fare.
E, veramente, i cast dell’era Abbado non erano migliori di quelli venuti dopo? E le produzioni nel loro assieme? Te lo chiedo in tutta umiltà.
Negli anni in cui Blake era già in piena carriera, Abbado dirigeva il Barbiere in Scala con Araiza, Barbacini e Gimenez. Con tutto il rispetto, si poteva fare di meglio.
E’ anche una questione di scelta di repertorio: Abbado – per i motivi più vari (che possono essere condivisi o meno) – ha sempre diretto solo ciò che sentiva più vicino alla sua sensibilità…ed in particolare un ristretto giro di titoli operistici (con esclusioni importanti, anche se del tutto legittime). Sui cast bisogna intendersi: vero che Blake era già in attività, ma – nonostante i primi sforzi della Rossini Renaissance e di Zedda – l’opera buffa (Barbiere, Cenerentola, Italiana) si fondava ancora sul concetto di centralità della primadonna (più tardi si è riscoperta l’importanza del tenore: e in effetti nel Barbiere, non a caso intitolato l’Almaviva, il vero protagonista è il conte: c’è un interessantissimo studio di Saverio Lamacchia sull’argomento)…tanto che il resto fungeva da contorno (si pensi al travisamento completo della vocalità del Conte, scritto per baritenore e affidato – ancora oggi, nonostante tutto – a evanescenti “zanzarine”). Certo Abbado poteva osare…ma non so quanto sarebbe stato compreso, all’epoca, un Barbiere siffatto. Certo è che come suona l’orchestra di Abbado in Rossini (una leggerezza mai superficiale unita ad eleganza e intelligenza), non suona con nessun altro (men che meno con certi praticoni più o meno blasonati che hanno affrontato e affrontano le sue partiture). A margine devo dire che Blake è un caso piuttosto sfortunato: mai avuta fortuna nella discografia ufficiale.
@ Ninci. Per quanto riguarda il giochino delle classifiche forse non sempre è come dici tu. Ad esempio, nessuna statua è più bella dell’Ermes di Prassitele (ammesso che l’abbia fatta proprio lui) .
Secondo me, il Maestro, visto che aveva a disposizione un’orchestra da pesi massimi, faceva più bella figura proponendo una bella interpretazione di una suite orchestrale di qualche colonna sonora americana, che ne so, un Lawrence d’Arabia o una Star Wars (Pappano l’ha fatto con l’ASC), o magari Miklos Rozsa o Dimitri Tiomkin (li avete presente i grandi kolossal e western della hollywood degli anni d’oro?).
Così, col secondo, di origini russe, si potevano poi costruire facilmente dei ponti relazionali con i compositori sovietici…
Nei concerti è giusto inframezzare alle grandi opere classiche dei brani più “leggeri”, ma, come al solito, sti programmi andrebbero studiati meglio, resi più stuzzicanti… e cosa può permettere ciò? Una vasta, ricca e “curiosa” conoscenza, ma non solo, l’intelligenza di proporla in maniera stimolante! Invece i grandi direttori hanno dei reperotori spesso e volentieri scontatissimi! (vogliamo contare tutte le volte che Muti inserisce il Va’ pensiero? o la sinfonia della Norma? )
D.C.
come sono terribilmente concorde con il commento di Davide….il Maestro Muti diresse nel lontano 1978 in America la sinfonia concertante di Miklos Rozsa. Ora, non mi meraviglio, (a prescindere che il concetto di davide circa alternare i programmi e più circa la film music) che Muti e altri grandi vanno a condurre i grandi della musica classica e quindi magari non trattano i compositori classici minori come Miklos Rozsa, che và dentro rimane uno degli ultimi grandi comunque del 900 sia per la classica e ancor più per la film music; e logico sono della convinzione che cultura vuol dire spaziare, far conosce e ricordare e ciò non vale solo per i grandi padri della classica. Ma il problema non è per me tanto che Muti non conduca Miklos Rozsa, il problema è, chi, in Italia conduce la film Music di Miklos Rozsa ? o la sua classica ? pochi, ben pochi, sono compositori che non sempre vengono considerati, non solo perchè chi decide pensa che Rozsa non rientra in qualcosa che ci appartiene, ma ci sono anche pregiudizi, quello merita, quello non merita