Ricordare Veriano Luchetti è un sacrosanto dovere per il Corriere della Grisi. Non solo per il cantante, ma per le riflessioni, che un cantante ed una carriera come quella di Luchetti, impongono, oggi in occasione della Sua scomparsa.
Sono riflessioni che superano la dovuta e sentita commemorazione e servono, come è giusto nel mondo del teatro dove sempre e comunque si deve andare in scena, a pensare.
Luchetti ha cantato per una trentina d’anni nei maggiori palcoscenici italiani con qualche puntata in terra straniera: Stati Uniti, Covent Garden di Londra, Opera di Parigi e Staatsoper di Vienna. Cominciò come tenore lirico in ruoli come l’Alfredo di Traviata, il des Grieux di Massenet e Rodolfo (e credo che in una produzione di Boheme avesse conosciuto la moglie Mietta Sighele, allora già in carriera internazionale), poi progressivamente ampliò il repertorio grazie ad una voce che, se non bellissima ( non dimentichiamo che i suoi coetanei si chiamavano Jaime Aragall e Luciano Pavarotti che quanto a qualità dello strumento poca concorrenza potevano soffrire) era, comunque in grado di reggere le tessiture e l’accento del primo Verdi, affrontare ruoli desueti di vocalità difficile come il Vasco de Gama di Africana, proposta a Firenze sotto la guida di Riccardo Muti nel 1971 e di portare a termine con onore e facilità assoluta (maggiore di qualsiasi altro tenore) l’impervia parte di Arrigo dei Vespri. Altro spettacolo del Maggio mutiano, quando istituzione e maestro avevano, artisticamente parlando, qualche cosa da dire ancora.
Nel primo Verdi che non richiede acuti estremi squillanti, ma resistenza e saldezza nella zona del cosidetto passaggio di registro Luchetti è stato davvero esemplare coniugando con la qualità vocale, la dizione scolpita (tipica dei cantanti di scuola romana) l’ampiezza di fraseggio e la nobiltà d’accento. Siccome, ed anche questo va detto non brillava per varietà di accento, il carattere non certo forte di un Foresto piuttosto che di un Macduff si addicevano anche all’interprete. L’accento del tardo Verdi veramente infuocato ed iperbolico, come si conviene alla retorica di fine ‘800, non si addicevano sino in fondo alle doti interpretative di Luchetti, ma anche a quelle canore. Un conto è lo slancio di Foresto ed altro quello di don Alvaro e Radames (ruolo credo affrontato una sola volta in fine carriera, come pure il Manrico di Trovatore). In fondo, come scriveva Rodolfo Celletti, Veriano Luchetti era un fiorettista, che tirava di spada. Ed a riprova sia il fatto che una delle sue migliori performance verdiane è proprio don Carlos, che, per molti versi, è un anti eroe ad onta della linea vocale da grand- opéra.
Ho anche l’impressione che al repertorio pesante in un’epoca in cui i veri spadisti (per continuare ad utilizzare la metafora cellettiana) cominciavano a mancare Luchetti abbia sacrificato a favore dell’accento stentoreo e del passo epico duttilità e morbidezza di emissione, che all’inizio di carriera non difettavano affatto.
Questo l’artista, che per motivi ignoti non ha avuto la carriera da star internazionale, che gli sarebbe stata propria. A noi la riflessione che, oggi a distanza di pochi lustri dall’apogeo di Luchetti, non disponiamo di un valido erede di Veriano Luchetti, che per andare a fatti e misfatti recenti risolverebbe tanti e tanti problemi in certi titoli pucciniani come Tosca o nel primo Verdi, che stolida volontà di celebrare ad oltranza un bicentenario, costringe, noi poveri ascoltatori a veder malamente rappresentato per la carenza di artisti di ogni corda vocale, degni di quelle difficoltà. Vocali ed interpretative.
Gli ascolti
Bizet – Carmen
Atto II – La fleur que tu m’avais jetée (dir. Placido Domingo – 1988)
Meyerbeer – L’Africaine
Atto II – Combien tu m’es chère (con Jessye Norman, dir. Riccardo Muti – 1971)
Atto IV – Pays merveilleux…O paradis (dir. Riccardo Muti – 1971)
Puccini – La Rondine
Atto III – Amore mio! Mia madre(con Mietta Sighele – 1989)
Verdi – Attila
Prologo – Ella in poter del barbaro (dir. Giuseppe Patané – 1975)
Verdi – Jerusalem
Atto II – L’émir auprès de lui m’appelle…Je veux encore entendre (dir. Donato Renzetti – 1985)
Verdi – I Vespri siciliani
Atto IV – E’ di Monforte il cenno…Giorno di pianto (dir. Riccardo Muti – 1978)
Verdi – Don Carlos
Atto I – Fontainebleau! Foresta immensa…Io la vidi (dir. Georges Pretre – 1973)
Atto V – E’ dessa! (con Katia Ricciarelli, dir. Georges Pretre – 1973)
Verdi – Simon Boccanegra
Atto III – O inferno!…Sento avvampar nell’anima…Cielo pietoso (dir. Claudio Abbado – 1976)
Verdi – Requiem
Ingemisco (dir. Carlo Maria Giulini – 1979)
Quando scompaiono cantanti che hanno lasciato un segno, o dei quali il suddetto segno resta ancora da scoprire per i più, come forse nel caso di Luchetti, non si sa mai che cosa dire. Per quanto mi riguarda mi manca, oggi, una voce rovente come la sua, corrusca come un tizzone e adattissima al repertorio che ha fatto. Una voce difficile da gestire, che rendeva evidente tutto l’impegno riversato nel giro del fiato e per raggiungere l’intonazione degli acuti più estremi (vedi la registrazione dei Vespri), laddove la pasta timbrica dei succitati Pavarotti e Aragall avevano una funzione naturalmente “cosmetica” nel rendere omogenea la voce sopra, sotto e sul secondo passaggio. Ciononostante, la voce di uno che aveva dimostrato dia ver capito cosa volesse dire cantare e i cui limiti lo rendevano semplicemente “umano”. Un buon interprete, insomma: uno degli ultimi che ci siano stati.
Domanda fuori luogo, perché dici “secondo” passaggio? A me risulta essercene uno di passaggio…
Anche secondo me . Però siccome mi pare che qui si fosse sostenuta la tesi – se non ricordo male a commento di una delle lezioni di Lazaro – del fatto che i passaggi sarebbero due (per “primo passaggio” se non ricordo male si intendeva quello dal grave al centro), ho scritto così solo per essere più chiaro.
Che ci sia un cambio di registro tra note gravi e centro della voce può anche essere una cosa percepibile dal cantante (anche se a mio avviso dovrebbe percepirlo il meno possibile, per non dire mai). Tuttavia, eccezion fatta per le nostre preferenze circa “tutti i baritoni del secondo dopoguerra” 😀 , sul versante tecnico siamo quasi sempre d’accordo e, come te, penso che di passaggio uno solo ve ne sia.
Nelle voci femminili, che a differenza di quelle maschili utilizzano per buona parte della gamma il registro cosiddetto “di testa”, possiamo dire che i passaggi siano due, il primo, quello vero e proprio, dal registro di petto al medium, e il secondo dal medium alla testa, ma nelle voci maschili, la cui estensione canonica non supera il do4, il passaggio è uno soltanto, ed è quello dal registro di petto al registro acuto!
… e infatti la mia maestra ricordo mi avesse parlato, molto tempo fa, in particolare dei due passaggi del mezzosoprano. Non ricordo quale fu l’occasione, devo chiederle migliori lumi!
Beh, lo stesso vale anche i soprani, i registri sono gli stessi. Chiaramente la situazione ideale è quella in cui i passaggi siano completamente annullati attraverso una fusione perfetta dei registri. Se il passaggio si sente, la qualità del canto ne risente negativamente…
Mancini secondo te quali sono i cantanti dove non si sente il passaggio,o per lo meno è talmente perfetto che non si percepisce
Schipa, la Toti… ora chiudiamo la parentesi che siam fuori tema.
Ho ascoltato Veriano Luchetti per la prima volta a Venezia nel 1973, nel Don Carlo. La sua interpretazione del ruolo rimane una delle migliori in assoluto, insieme a quelle di Macduff e Adorno nei celebri allestimenti scaligeri diretti da Abbado. Un cantante che ha raccolto meno di quanto meritasse anche per merito della mafia discografica, di una critica incanaglita e di una pubblicistica ruffiana, cose che purtroppo esistono non da ieri e non solo in Italia.
Grazie Maestro Luchetti!
Per mio personalissimo sentire, credo che ciò che dà motivi di riflessione e tristezza nella morte di un cantate come Veriano Luchetti è che, appunto, era un cantante, un professionista del canto, uno che, se richiesto di nominare la sua professione, avrebbe risposto con giusto orgoglio “cantante d’opera” e nessuno, ma proprio nessuno avrebbe potuto smentirlo. E questo sua indiscutibile professionalità è cosa che oggi sembra essersi completamente smarrita, ahimè.
Non voglio dilungarmi, ché la voce sua è quello che ci vuole per ricordarlo; ma solo per fare un esempio “dammi la morte, dammi la morte, il ciglio a te non oso alzar” come lo cantava lui, salendo al si bemolle con uno slancio e una generosità commovente, io ancora aspetto di risentirlo.
Già!
http://www.youtube.com/watch?v=PnzdgzchsTk
saldezza vocale, fermezza di suono, slancio ed accento. non sarà stato uno stilista o un´interprete ispiratissimo – cantava un pò Puccini e Meyerbeer come cantava Verdi – MA… cantava la musica e la cantava benissimo – già molto per oggi. E non solo quanto riguarda i tenori italiani (dove sono!?!?!?). Al suo tempo molti lo consideravano di “seconda fila”. Se avessimo un tale tenore italiano oggi nella prima!
Bravi ad averlo ricordato! Vi fa onore! Riascoltando oggi il suo “O paradiso” e l’aria di Macduff mi sono fatto una semplicissima domanda: sarebbe forse Kaufmann o Alagna o….chi…l’erede di questo tipo di vocalità? Luchetti diventa un Dio, con tutti i suoi limiti, al solo paragone. Ho avuto la fortuna di conoscerlo bene e di frequentarlo, per un certo periodo, abitando vicino casa mia: era una persona amabilissima e di simpatia contagiosa.E in fatto di tecnica sapeva il fatto suo, eccome! Aveva una eccezionale facilità nell’uso del falsettone rinforzato, per esempio: gli sentii cantare, in prova, un “Celeste Aida” da antologìa, con tanto di si bemolle “in morendo”. Gli dissi: “Veriano, lo farai così in Arena?” e lui “Ma che sei matto? Mi fischiano! Li’ devo farlo forte…”. E quando lo faceva in fortissimo non era mai bello quanto quello eseguito in prova…I suoi aneddoti su personaggi del mondo dell’Opera e colleghi erano incredibilmente comici, quello sì che sarebbe stato un libro eccezionale.
Nessuno oggi di quelli più “blasonati” oggi può dirsi l’erede di questa vocalità, se per vocalità non intendiamo solo il peso della voce. Se invece guardiamo solo a quello, qualcuno ci sarebbe anche. Solo che, a differenza di Luchetti, questi qualcuno non sanno cantare; e non solo quanto a tecnica, che già sarebbe oggi un miracolo.
Va ricordato anche il suo eccellente Don Alvaro, da me ascoltato in Arena nel 1978. Forse la migiliore interpretazione moderna del ruolo dopo quella di Bergonzi.
voglio ricordare uno dei momenti più difficili della vocalità verdiana, il quartetto del carcere dei Vespri. Nessuno dei praticanti odierni di quel repertorio è in grado di uscire di lì con la voce avanti, squillante e l’accento del suo Arrigo. Riascoltare per ricordare
grazie per gli ascolti di questo grande artista emozionante il
Pays merveilleux…O paradis (dir. Riccardo Muti – 1971)
Non posso aggiungere alcun commento. Avete detto tutto… Avendolo sentito tante volte, concordo. (sospiro…)
Uno dei tenori più ingiustamente sottovalutati di sempre. Confronto amaramente il lascito discografico di Luchetti con quello di José Carreras.
Faccio la stessa cosa, ma con Domingo.
Salve signori!
Sono molto contento e commosso della vostra dedica a questo grande artista, ma sono un poco sorpreso del fatto che non avete dedicato nulla al baritoni Giangiacomo guelfi scomparso l’8 Febbraio di quest’anno.
Un saluto
Nicola della Ripa
Personalmente desidero ricordare anche Rita Gorr.