Verdi Edission: Stiffelio

Ci sono opere destinate a sopravvivere per la forza della loro inventiva musicale e teatrale; altre, invece, ad essere ricordate in quanto documenti rilevanti sul piano della storia, perché consentono di ricostruire, come lo Stiffelio verdiano, parte del percorso intellettuale di un musicista. L’oblìo in cui l’opera cadde dal 1857 sino alla ripresa parmigiana del 1968 ( secondo alcune fonti spagnole l’opera sarebbe stata rappresentata nella penisola iberica per sei – sette produzioni in varie città tra il ’57 ed ’62, ma si tratta di informazioni da verificare..), nonostante il remake di Aroldo approntato nel ’54 con Piave, è la prova della sua scarsa riuscita e dello scarso apprezzamento riscossi da subito nel pubblico. Il tempo, del resto, ha condannato al silenzio certe opere o perché ineseguibili, o perché legate ad un gusto o ad una moda poi superate, o perché malriuscite, e Stiffelio pare rientrare in quest’ultima tipologia. La storiografia musicale, invece, ha spesso finalità diverse nei suoi percorsi conoscitivi, anche al di là del gioco filologico della ricostruzione dello spartito originario, in questo caso perduto sotto “le grattate” autografe sull’autografo ( non a caso! ) compiute da Verdi durate la revisione dell’opera. La filologia è solita cercare in tutto ciò che fa da background ad una composizione le tappe di un percorso intellettuale o l’anamnesi di un obbiettivo artistico, magari anche fallito; soppesa l’influsso di ogni possibile suggestione esterna ai compositori ed ogni possibile condizionamento materiale, tanto che in molti casi sono proprio i momenti meno geniali dei “geni” ad essere i più indagati, in quanto intaccano pericolosamente l’aura sacra che il tempo ha costruito attorno a loro.
La ricomparsa di Stiffelio sulle scene coincide con la storia moderna degli studi verdiani, dal ritrovamento di un paio di copie dello spartito che si credeva perduto al Conservatorio miniera di San Pietro a Majella, (uno addirittura de”l Guglielmo di Wellingrode,” versione fiorentina censurata di Stiffelio ), con le quali Rubino Profeta preparò la prima ripresa moderna del 1968 a Parma; quindi di una copia più integra a Vienna, qualche anno dopo, che diede luogo alla nuova edizione critica curata da Giovanni Morelli per la ripresa della Fenice di Venezia del 1985; quindi l’ultima edizione critica redatta, su input di L. Petrobelli e P. Gossett, utilizzando l’autografo “grattato” di Stiffelio-Aroldo ed il corpus degli schizzi esistenti alla villa di S. Agata, per la nuova produzione andata in scena al Met nel 1993, protagonista P. Domingo. L’opera è tornata sulle scene moderne, ma nemmeno la popolarità di alcuni protagonisti celeberrimi, come Domingo, appunto, o Carreras, le ha permesso di entrare in repertorio.
Vi è in primo luogo un soggetto difficile, quello del tradimento coniugale della moglie di un pastore protestante. Tradimento cui segue, per virtù religiosa, il perdono, che è un perdono cristiano, sinteticamente dispensato dal pulpito nella scena finale dell’opera. La piéce teatrale di E. Souvestre ed E. Bourgeoises, Le Pasteur, ou L’Évangile et le Foyer (10 febbraio 1849) nata per i teatri di boulevard ma da subito tradotta e nota anche in Italia, rappresentava un dramma contemporaneo fatto di debolezze umane e cristiane virtù, la caduta ed  il riscatto dei protagonisti, contrapposto al comportamento convenzionale ed ipocrita del colonnello Stankar, padre della protagonista, che mentre da un lato pensa ad occultare l’adulterio a Stiffelio, dall’altro vuole punire l’ex amante della figlia adultera Lina. Un soggetto ben più complesso ed articolato di quanto poi venne effettivamente trasfuso da Piave nel libretto. Come già in tanta altra letteratura francese del tempo, incentrato sulla critica sociale, Le pasteur intendeva essere un soggetto altamente morale anche se a lieto fine, ossia senza la catartica conclusione tragica. Lo sfondo scelto per l’azione era quello austero di un gruppo di protestanti asseveriani di cui Stiffelio è ministro, nella “Germania” neogotica ( le rive dello Salzbach..) e un po’ cupa degli inizi del XIX secolo. Dalla Bretagna dei calvaires di Souvestre al clichè letterario della cornice architettonica neomedioevale di Stiffelio il passo era breve: un‘ambientazione frequente dal periodo Stuermer in poi attorno alla non-azione di un dramma famigliare, intrecciato ad un sentimento religioso connaturato ai movimenti del gothic revival. Un intreccio che, per esigenze librettistiche, finì malamente ridotto da Piave, che approntò una trama amputata in alcuni dei suoi aspetti chiave, primo fra tutti la serie di circostanze che giustificano in parte l’adulterio di Lina nel dramma teatrale di Souvestre.
La “commedia umana” aveva attratto Verdi durante i suoi soggiorni parigini, perché in quel filone tutto francese cui appartenevano certi grandi testi di Dumas o Balzac o dello stesso Hugo o tanti lavori di genere “melò romantico” da teatro di boulevard erano disponibili numerosi soggetti in grado di stimolare la ricerca di un compositore che intendeva dare al teatro d’opera la sua personale dimensione drammaturgica, quella che era solito indicare sinteticamente come  “parola scenica”. Alphonsine Duplessis era già alle porte del percorso drammaturgico di Verdi, con il realismo della sua vita perduta, i salotti equivoci parigini da sfondo e le colpe da redimere morendo. Non si sa esattamente se nelle sue abituali frequentazioni di quei teatri  Verdi avesse assistito anche alle prima produzione di Le Pasteur al teatro di Porte Saint Martin, che era solito frequentare proprio nel periodo in cui era a Parigi per la Jerusalem. Si sa che amava il genere, un teatro di soggetti popolari, recitati con l’accompagnamento di “colonne sonore” appositamente scritte, composte da brani orchestrali, assoli e talora anche cori. Il melò lo attraeva più delle serate all’Operà, di cui non apprezzava né i cantanti né l’orchestra e nemmeno troppo i compositori. Del resto anche l’Operà in quella fase non apprezzava troppo Verdi, la cui Jerusalem era stata subito sostituita, dopo alcune recite, da una ripresa di Robert le Diable. Stiffelio fu la prima esperienza verdiana di ambientazione contemporanea, ed il soggetto incentrato sull’adulterio, anche se pregresso all’azione scenica, fu trovato scandaloso, tanto che il setaccio della censura intaccò in più punti il libretto della prima triestina. L’introspezione psicologica del protagonista fu il vero upgrade verdiano all’opera, data la sbiadita personalità di Lina, come pure di Stankar e degli altri. Il melodramma di Piave, del resto, costa di alcune scene chiave, la sortita del protagonista, l’aria in apertura del secondo atto di Lina, il grande duetto all’atto terzo, con Stiffelio che ripudia la moglie e la maledice, quindi la scena finale in chiesa con l’organo, come accadeva nella piéce teatrale di Souvestre, libero spunto ripreso in forma di teatro popolare dalla monumentale scena dell’Incoronazione del Prophéte di Meyerbeer. Una selezione troppo sintetica, dunque, poco teatrale ed altrettanto povera di sfaccettature psicologiche per un’azione troppo statica per poter catturare lo spettatore alla vicenda del ministro di Dio e della moglie adultera. Il teatro di Stiffelio sta nel clima goticheggiante, nel cimitero ove Lina si reca a pregare sulla tomba della madre, nel duetto in cuiStiffelio ripudia la moglie e nel finale in chiesa, riuscito però solo in parte. Verdi aveva certamente visto in scena l’organo nella Juìve di Halevy, nella scena del Concilio di Costanza, ma anche nel Robert le Diable, strumento suggestivo cui di lì a poco Gounod avrebbe dato ampio spazio nella scena della chiesa di Faust. Verdi pensava però ad un teatro diverso, a misura d’uomo: allo statuario e ieratico profeta del Gran Operà francese sostituì la cifra tutta italiana del semplice e mistico pastore protestante, più modesta e meno magniloquente versione dell’uomo di chiesa, solo in parte riuscita. Caso non ultimo, dato che gli accadrà di lì a poco, ma in maniera più fortunata, con l’Azucena di Trovatore di cui vi abbiamo già parlato nella puntata della Verdi Edission dedicata a quest’opera. Ascendenti negati o, comunque, mai dichiarati apertamente da Verdi, che la storia  ci ripropone ed affianca nel gioco delle analogie e delle fonti di ispirazione più o meno casuali, a proposito dei grandi topoi del melodramma in voga all’epoca. La dimensione del Gran Operà non appartiene al Verdi di questa fase, alla ricerca della verità dei sentimenti e delle psicologie sfaccettate, del verisimile umano. Il realismo dei protagonisti era il grande obbiettivo da raggiungere superando le formule dell’era del belcanto ed in Stiffelio l’obbiettivo venne raggiunto solo a tratti, senza continuità drammaturgica e vera inventiva musicale, anche a causa della difficoltà del soggetto. Il finale, con il perdono in pochi versi da parte di Stiffelio, senza clangori o alcunché di altisonante e retorico, da un lato dimostra in quale misura Verdi fosse interessato al verisimile ma anche l’impraticabilità dell’obbiettivo teatrale per tale soggetto, dato che la vicenda si chiude in modo incompiuto e irrisolto.
Sul piano della vocalità non si ritrova in questo titolo alcunché di particolarmente innovativo o interessante. Il primo interprete fu Fraschini, il tenore famoso per le invettive, che già aveva interpretato per primo il Corrado del Corsaro e l’Arrigo della Battaglia di Legnano. Si trattava di un cantante che aveva quali prerogative lo slancio e lo squillo, tanto che Verdi gli concesse il suo topos di maledizione nella stretta del duetto con Lina ( “Ah si, voliamo al tempio…Ai seduttori esempio..”); gli erano propri, però,  anche la morbidezza del canto legato, quindi la scrittura risulta centralizzante, alternando momenti lirici ad altri agitati dalla sofferenza e dall’ira scatenata dal tradimento. La prima Lina fu, invece, la pugnace Marietta Cazzaniga, celebre Odabella e già prima Luisa della Miller, per cui Verdi approntò l’ennesima parte di soprano spinto, dai passi spesso ostici. La sua grande scena del cimitero all’inizio del II atto richiama nel largo “Ah dagli scanni eterei” il “Fuggente nuvolo “ di Odabella, analoga scena di evocazione-ricordo, mentre la cabaletta, “Dunque perdere volete”, per la quale Verdi approntò più di una soluzione ( tra cui il “Caro nome” di lì a poco inserito nel Rigoletto), ha il vigore ed il mordente di quelle scritte sempre per Odabella, ma anche per Giselda. Anche il ruolo di Stankar non decampa dal profilo già consolidato del baritono verdiano prima maniera, come già erano stati Miller ed Ezio dell’Attila.

Gli ascolti

Giuseppe Verdi

Stiffelio

Stiffelio – Gastone Limarilli
Lina – Angeles Gulín
Stankar – Walter Alberti
Raffaele – Beniamino Prior
Jorg – Antonio Zerbini
Federico – Mario Carlin
Dorotea – Lina Gastaldi

Orchestra e Coro del Teatro Regio di Parma

Direttore d’orchestra : Peter Maag

Teatro Regio di Parma, 29 Dicembre 1968.

Atto I

Atto II e Atto III



9 pensieri su “Verdi Edission: Stiffelio

  1. Addirittura l’ opera completa…che munificenta, Giulia!
    Secondo me si tratta di un’ opera che vale più di quanto pensi tu. La concentrazione drammaturgica intensa e serrata del secondo atto sfiora a tratti il capolavoro e vi sono soluzioni strumentali e vocali di grande originalità come i clarinetti sotto la frase di Stankar “S’ ora invano t’ ha guidato” e tutta la parte vocale del protagonista nella scena finale, con la voce chiamata a un declamato caratterizzato da ampi intervalli, due volte addirittura salti di nona.
    Anche la conclusione, col la modulazione in maggiore sotto la parola “Perdonata”, è un effetto teatrale di prima forza.
    Ma forse il mio giudizio pecca di parzialità, perchè al lavoro di ricostruzione della partitura compiuto da Giovanni Morelli, che fu mio insegnante all’ Università di Ca’ Foscari, ho preso parte anch’ io.
    Ti rubo ancora una riga per un ricordo di questa grande figura di studioso, prematuramente scomparso nel luglio dell’ anno scorso. Io e tutti coloro che hanno avuto l’ onore di essere suoi allievi non dimenticheremo mai la qualità del suo insegnamento e le sue grandi doti umane.
    Scusate la digressione.

    • Nel concordare con Mozart che questa è un’opera meravigliosa, che meriterebbe molto di più (adesso c’è n’è una versione a Parma, che dopo l’Aida mi rifiuto di andare a vedere), faccio i complimenti a te e agli altri autori per questi magnifici articoli, molto interessanti, e sempre una lezione di musica e cultura per tutti. Speriamo che almeno nell’anno del bicentenario i teatri portino in scena anche le sue opere “minori”, per evitare di produrre una stagione composta solo dalle sue composizioni più celebri. Io mi aspetto che bicentenario significhi non un businnes, ma un periodo per far conoscere (si spera in maniera decente) anche l’altra faccia di Verdi. A presto!

  2. Secondo me, dentro qualsiasi opera di Verdi si trovano delle cose interessantissime. Ogni opera è un passo avanti verso il suo futuro operistico..
    Concordo anch’io con quanto detto da Mozart.
    Complimenti SEMPRE per gl aritcoli interessantissimi. Non sono molto presente per una serie di impegni pressantissimi, ma vi ammiro e vi seguo.

  3. Io invece sono completamente d’accordo con Giulia. Premesso che non è certo irrispettoso constatare la riuscita o meno di un titolo operistico (anche se firmato da un grande compositore) e che, ovviamente, spunti interessanti ve ne sono (altrimenti non sarebbe Verdi), credo che il problema maggiore stia (come in Alzira o Masnadieri), nel libretto. Una vicenda privata e quotidiana priva, cioè, di quella problematica ideale che tanto stimolava l’ispirazione verdiana, dovrebbe essere risolta in una scrittura diversa: in quel canto di conversazione (fatto di microcellule musicali) che Verdi padroneggerà solo con Falstaff… Ovvio che, lontano dal suo orizzonte estetico, il dramma non prende il volo, la musica non coinvolge, il canto risulta artefatto e innaturale. E le cose non migliorano con la trasformazione in Aroldo, dove quella che è una banale vicenda di corna (e di scemenza maritale), viene peggiorata e resa ancor più incredibile (e involontariamente comica) con una posticcia ambientazione all’epoca delle crociate che non può non richiamare alla mente certi film di serie B della commedia all’italiana (tipo “Alle dame del castello piace fare solo quello”). Evidentemente la commedia borghese non era nelle corde di Verdi.

  4. Ho scritto sinceramente la mia impressione, senza velleità musicologiche, perchè non è il mio mestiere.
    Ho un repertorio di titoli abbastanaza ampio nella mia mente, ma se devo ascoltare qualcosa lo Stiffelio non lo contemplo, mentre ho le giornate in cui un bell’Attila o un po’ di Lombardi mi ispirano. Con la musicologia, invece, non mi trovo quando critica i Vespri, che trovo un ‘opera straordinaria, bella, monumentale, affascinanante, con personaggi statuari ma assi più vivi e sfaccettati di questi di Stiffelio.
    Non mi allargo a dire quelli che sono ultimamamente i miei pensieri su Verdi ( e cioè che secondo me le cose migliori sono quelle scritte quando si è dimenticato delle sue idee e si è ricordato o della tradizione precedente, o del Gran Operà o di Wagner, sennò mi ritrovo tutta Parma sotto casa con i forconi. Mi sento sempre più figlia dell’estetica di Rossini che di quella verdiana in cui tutti come melomani siamo nati…..certe cose di Verdi mi fanno rabbrividire..), però una lancia pro Verdi la spezzo così: l’altra sera ho riascoltato Bergonzi nella scena di Macduff del Macbeth, scena che i tenori sempre tirano là solfeggiando alla comevieneviene. Bergonzi fa di quella scena un must mai sentito, anche con gli acuti calanti, trasformando l’aria in un pezzo patetico struggente, “detto” a fior di labbro come è la parola cantanta del grande tenorismo dei dischi antichi. Non ho potuto fare a meno di pensare che Stiffelio forse affidato a chi fraseggiava con lo stile esatto di Verdi, quella misurata aulicità e nobiltà del commendatore, l’attenzione alla parola.. sarebbe stato assai diverso da quella sbobba insopportabile che i re del generico Domingo e Carreras, o gli ignobili come Cura, ci hanno modernamente restituito. C’è un sapore antico nel canto di Bergonzi che dà un senso superiore al canto di Verdi, mi ripeto, il fraseggio nello STILE del tempo, che conferiscono alla scrittura vocale sapore, sfumature..insomma una vita diverse. Oggi, ahinoi, solo gridoni cresciuti all’estetica della canzonetta, pure senza tecnica……ma quali Stiffeli vogliamo mai riproporre????? senza il mediumdel grande inteprete l’opera già zoppa di suo che vita può avere e quale ideadel testo ci viene restituita?…..

    • Io, invece, ho fatto un percorso opposto: trovo sempre meno interessante l’estetica di Rossini e la sua scrittura orchestrale e vocale (a parte le opere francesi)…ma non voglio, anch’io, esporre il mio pensiero per evitare i forconi (dei rossiniani stavolta). :)
      Circa Verdi: proprio i suoi grand-opéra non mi convincono (li trovo deboli e confusionari: dello stesso Don Carlo trovo infinitamente superiore la versione in 4 atti scritta per la Scala) e mi paiono molto goffi i tentativi (evidentemente poco convinti) di ripercorrere tradizioni superate, dall’opera buffa fuori tempo massimo (Un giorno di Regno) alle concessioni divistiche (la parte di Amalia nei Masnadieri, o le bruttissime arie alternative per Ernani e Foscari su richiesta di un Rossini ormai sopravvissuto a sé stesso).
      Stiffelio non mi convince perché è, come dici giustamente, partitura zoppa, incerta, che dovrebbe utilizzare un certo linguaggio lontanissimo dall’estetica verdiana (il canto di conversazione di cui Puccini sarà maestro). E poi è cupa e grigia, vittima di un brutto soggetto e di un brutto libretto.
      Hai ragione: per rendere interessante tutto questo occorre un interprete vero (che non si limiti certo ad eseguire bene le note scritte) capace di dare un senso ad una materia intrinsecamente debole.

  5. Devo concordare con la divina Giulia, Stiffelio non è certo opera riuscita, drammaturgicamente bolsa, viziata da un libretto infelice di ispirazione molto altalenante e spesso piuttosto bassa; non manca certo di buone pagine, ma credo che il difetto più grande sia proprio il finale che arriva troppo veloce e insulso dopo due ore di dramma. Ogni volta che la riascolto (non molto spesso in verità) non riesco a non domandarmi dopo tanti tormenti, “beh? tutto qua?”. Musicalmente molto meglio Aroldo ancorché l’ambientazione al tempo delle crociate ridicolizzi il tutto. Verdi con il senno del poi, tagliò e aggiunse a buon proposito. Poi è sacrosanto che un opera già di per se mediocre se non è affidata a grandi interpreti non decolla certo.

  6. Ho riascoltato di recente l’edizione discografica di Gardelli. Che dire? Mi sembra che il migliore sia il bistrattato Matteo Manuguerra, crocifisso per qualche nasalità ma ancora in possesso di un registro acuto di tutto rispetto. Gli altri, Carreras e Sass compresa, mi sembrano ambedue un po’ deludenti, per diverse ragioni.

Lascia un commento