Il primo passo di questo non breve percorso tra le nove sinfonie di Beethoven, comincia – almeno cronologicamente – dall’ultima tappa, ossia dalle più recenti e chiacchierate edizioni discografiche del ciclo sinfonico: Christian Thielemann, Riccardo Chailly e Philippe Herreweghe. Questo per due ragioni: sono d’attualità (ed è importante fare il punto sullo “stato” dell’odierna interpretazione beethoveniana) e le tre edizioni confrontate, rappresentano – o intendono rappresentare – le possibili strade interpretative che il moderno esecutore o ascoltatore si trova davanti nell’accingersi ad affrontare il ciclo integrale. Tre edizioni, tre direttori diversi per cultura musicale ed esperienza, tre approcci antitetici basati su presupposti assai differenti (a cominciare dal testo scelto). Ma procedo con ordine. L’integrale di Chailly è stato evento largamente annunciato e sponsorizzato, attraverso un’esposizione mediatica decisamente inconsueta, in rapporto al genere musicale e ai tempi correnti: vero è che il direttore milanese gode di un sovrabbondante apparato pubblicitario in grado di tramutare in “evento” tutto ciò che lo riguarda (basti pensare il suo Gershwin col jazzista Bollani: un’edizione decisamente convenzionale, ma presentata come “straordinaria”). Tant’è. Chailly, da quando “regna” incontrastato sul trono della Gewandhausorchester di Lipsia – compagine straordinaria per qualità di suono e tradizioni musicali – ci ha abituato a letture originale e singolari dei grandi capolavori classici, a cominciare proprio dall’autore “di casa”: il suo Bach (Brandeburghesi, Oratorio di Natale e Passione secondo Matteo), ha segnato, effettivamente, una nuova e stimolante via nell’interpretazione bachiana, alternativa al revival tardo romantico (fuori tempo massimo) e alle letture specialistiche. Allo stesso modo vuole essere presentato il suo Beethoven. Per la sua “prima volta” (da tempo si attendeva una sua integrale sinfonica), Chailly si propone di seguire rigorosamente le indicazioni metronomiche d’autore. Il metronomo di Beethoven è vexata quaestio filologica: lo strumento “inventato” nel 1816 dall’amico Mälzel esercitò, sin da subito, un fascino particolare sul compositore, tanto che, non solo lo usò per la Nona sinfonia, le sonate a partire dall’Op. 106 e gli ultimi quartetti (ossia la maggior parte delle composizioni a partire dal 1817), ma fissò le indicazioni metronomiche anche per alcune opere precedenti, tra cui le sinfonie. Molto si è scritto su queste revisioni a posteriori (c’è chi ha pure sostenuto che Beethoven si fosse sbagliato o che a causa della sordità non si rendesse bene conto di quel che segnasse…), ma sino a prova contraria – difficile da ottenere, credo – esse rispecchiano perfettamente il tempo “sentito” da Beethoven. Inutile dire che, generalmente, è assai più veloce di quanto la tradizione esecutiva ha fissato in via consuetudinaria, tanto da apparire – in taluni casi – alla soglia dell’ineseguibilità. Aldilà del dato storico e dell’interesse filologico, tuttavia, non si possono ritenere “vincolanti” tali indicazioni: ne verrebbe, altrimenti, sminuito il ruolo dell’interprete che non è mai mero esecutore testamentario delle volontà autoriali, ma soggetto che attraverso la propria sensibilità propone una certa visione della musica che offre all’ascoltatore. Chailly, ben consapevole di questo, non pretende di aver trovato una qualche “versione corretta e autentica” delle sinfonie di Beethoven (in tal senso si distacca nettamente dal dogmatismo di chi impone il frutto delle proprie legittime convinzioni in merito alla prassi esecutiva come unica e sola modalità per eseguire determinati generi musicali), ma ci offre un punto di partenza, uno spunto di riflessione: un gioco intellettuale su come, nella mente del compositore, suonassero quelle sinfonie (almeno nel momento in cui decise di segnare le indicazioni metronomiche). Operazione interessante e molto affascinante, ma che, passato lo sconcerto iniziale per taluni brani di tutt’altra familiarità, non si pone certamente come particolarmente originale. Anche dal punto di vista metronomico – con alcune eccezioni (finale della Seconda e della Quarta, Settima e Sesta) – le scelte di Chailly non sono inconsuete o rivoluzionarie (già altri direttori hanno imposto tempi più spediti e concisi). La lettura, a parte una maggior speditezza, è decisamente ancorata alla tradizione classica: non vi sono mutamenti di prospettive, radicali ripensamenti di organico, interventi su certi timbri: un Beethoven più asciutto di certa maniera (anche per le intrinseche caratteristiche della compagine di Lipisa) e ottimamente suonato, ma che non apre nuove strade interpretative. Un’operazione, dunque, assai differente dalle precedenti esecuzioni bachiane. Comunque una lettura assai gradevole e di facile ascolto. Molto più deludente l’integrale diretta da Thielemann con i Wiener Philarmoniker (a tratti irriconoscibili). Il direttore tedesco parte da lontano, ben oltre i vari Furtwängler, Schuricht o Klemplerer (che pure vanta come padri spirituali), sino alle origini stesse della gloriosa orchestra viennese e al suo primo direttore e fondatore: Otto Nicolai. E come sempre, nell’ansia di apparire “epigono” (di tradizioni e scuole storiche), Thielemann inciampa: ben diversamente da quando si “dimentica” di dover giocare a fare il nuovo Furtwängler e mette la sua altissima capacità tecnica al servizio della musica (come il concerto n. 1 di Brahms inciso recentemente con Pollini). Il suo Beethoven resta quello codificato dalla tradizione romantica: assoluto, gonfio, ricco di contrasti e dal suono pieno. Tutti i topoi romantici individuati da Hoffmann (tra i primi colpevoli della forzata romanticizzazione di Beethoven) vengono ripercorsi e riproposti, come non si faceva più da anni. Ma il gioco questa volta non riesce. Non riesce perché Thielemann, forse per “strafare” fallisce il confronto coi grandi a cui si propone di rassomigliare. La sua, a conti fatti, non è la riproposizione del classicismo viennese in chiave romantica, ma una mera parodia. Una parodia polverosa e maldestra. In ciò le sinfonie che maggiormente “soffrono” questa lettura stanca e slabbrata, sono proprio le più “tipiche” del Beethoven romanticizzato (le sinfonie, cioè, da grande superstar del podio): la Nona, la Settima, la Quinta e la Terza. Thielemann ripropone il solito esercito di archi che tutto sovrasta e stempera e impone generalmente tempi lenti o lentissimi, secondo uno schema abbastanza elementare: “si accelera quando si suona forte; si rallenta quando si suona piano”, ed è implacabile nell’applicazione di questo metodo, così da rendere ogni adagio un’estenuante tour de force tra slentamenti e irritanti rallentandi e rubati (in realtà frenate brusche tanto sono accentuati), e ogni allegro una saltellante sarabanda dai volumi sonori fuori controllo. Pessima la Nona – dove pure quella macchina sonora perfetta che sono, solitamente, i Wiener, non risparmia imprecisioni e inciampi, forse spiazzati dalla mancanza di unitarietà della bacchetta – priva di coerenza interna e funestata da scelte testuali discutibili (Thielemann, come in altre sinfonie del ciclo, taglia alcune ripetizioni – in modo inorganico e senza alcun apparente criterio – come si faceva negli anni ’50 e rispolvera una brutta pausa, eliminata dallo stesso Beethoven, alla fine della marcia nell’ultimo movimento). Eppure è la stessa orchestra che reggeva con una tensione costante la smisurata versione di Karl Böhm (incisa nell’81: forse la più lenta esecuzione della Corale di cui si abbia testimonianza discografica). Ancora peggio la Quinta: chiassosa e slentata (in particolare l’ultimo movimento: volgarissimo e pesante). Migliori le sinfonie “pari”, a parte l’Ottava che viene interpretata come una curiosità rococò e quindi resa con superficialità e distrazione (al pari dei modelli a cui vuole costantemente rapportarsi). Al contrario meritevole d’attenzione la Quarta (la più mozartiana delle sinfonie beethoveniane) e, soprattutto, la Sesta. La Pastorale è il punto più alto dell’integrale di Thielemann dove, forse dimenticandosi il confronto con gli illustri predecessori, il direttore tedesco finalmente fa musica e, aiutato da un’orchestra in stato di grazia (il legato dei violini e il velluto dei fiati), crea un’opera d’arte di grande e “patetica” suggestione: i movimenti si incalzano e le sezioni interne si ripetono con una morbidezza difficile da riscontrare. Peccato che sia un’eccezione in un’integrale nel complesso poca riuscita: non certo per il recupero di un approccio “storico” (legittimo esattamente come altri, seppur inevitabilmente superato e programmaticamente deja vu), ma per il senso sgradevole di parodia che lo caratterizza…un serioso “vorrei, ma non posso” che rende poco onore al direttore, all’orchestra (che, salvo eccezioni, segna qui uno dei suoi peggiori risultati) e alla musica di Beethoven che annoia e stanca. Tutt’altra cosa l’integrale di Herreweghe (che tra le tre presentate è quella che prediligo) essendo diversi – direi opposti – i presupposti esecutivi. Herreweghe, giustamente, non si propone di riportare in auge ciò che altri hanno già esposto con chiarezza, approfondimento e ineguagliabile competenza: non si picca di riportare indietro gli orologi e riproporre un Beethoven “romantico” e titanico, ma cerca di sfruttare al meglio le conoscenze attuali e l’esperienza maturata sul campo nella sua lunga carriera di interprete specializzato nella musica barocca secondo criteri filologici. Come molti direttori rimasti ai margini dello star system, Herreweghe predilige orchestre non blasonate, ma da plasmare nel corso di un rapporto continuo, attraverso prove e comune ricerca di suono e tempi: in questo caso sceglie la versatile Royal Flemish Philarmonic. Orchestra strepitosa e di grande virtuosismo tecnico. Strumenti moderni, ma consapevoli della prassi d’epoca (ossia uso moderato del vibrato in funzione espressiva), riequilibrio interno con consistente riduzione degli archi a favore dei fiati (vero motore della sinfonia beethoveniana), spiccato senso del ritmo, trasparenza d’architettura e utilizzo di ottoni naturali e timpani d’epoca per dare una tinta timbrica più marcata. E’ la stessa operazione condotta da Chailly per Bach, ma con una consapevolezza maggiore. Un Beethoven nuovo, stimolante, diverso che non rimane chiuso nelle gabbie ristrette di un inattuale e limitante rispetto della tradizione (che vuol dire tutto e niente), ma neppure si lancia in sperimentalismi di cattivo gusto con l’ostentazione di brutte sonorità. Un Beethoven che non nasconde le sue origini (Mozart e Haydn), e che non è l’epigono di un romanticismo posticcio e costruito. Nella lettura di Herreweghe (grande interprete bachiano) emerge con tutta evidenza il fondamento classico e illuminista del compositore nonché la centralità – nei suoi orizzonti estetici – dell’opera di Händel (non a caso i contrappunti appaiono come elemento centrale nell’architettura sinfonica). Ciò che impressiona è l’unità di concezione pure nella libertà dello sviluppo dei movimenti interni: la Quinta (o la Settima) lo esemplificano attraverso una costruzione trasparente, ma ricca di corpo e di tensione. Non c’è un attimo di stanchezza nel Beethoven di Herreweghe e non ha bisogno di utilizzare tempi velocissimi (rifacendosi ai metronomi “originali” …per quel che vuol dire). Menzione speciale la meritano la Quarta e l’Ottava, esempi tra i più sfuggenti dell’arte beethoveniana, inafferrabili in un’ottica limitata e romantica (e per questo i direttori storici sono così a disagio con tali opere: e falliscono quasi tutti), ma perfettamente inseriti in una lettura che enfatizza gli elementi ritmici e il graduale superamento dell’estetica classica. In questo senso il ciclo inciso da Herreweghe (sulla scia di quello di Zinman e di Abbado II) segna il futuro prossimo dell’interpretazione di Beethoven, che non può e non deve rimanere ancorato alle parodie firmate da Thielemann (o assai più dilettantescamente da Barenboim e dai suoi cloni), ma, come si evince dalla straordinaria lettura di Paavo Jarvi (una delle ultime integrali disponibili sul mercato), deve parlarci con un diverso linguaggio. Un ultimo cenno sulle edizioni adottate, mentre Thielemann, con una certa ostentata ottusità, utilizza le vecchie Peters con i tagli di tradizione e senza porsi molte domande sugli errori riportati dal testo (rivendicando la supremazia della tradizione sul testo corretto) ed Herreweghe si rifà alle nuove Bärenreiter (l’edizione critica curata da Johnatan Del Mar, che corregge molti errori e imprecisioni dovuti alle incrostazioni del testo), Chailly compie una scelta differente e molto interessante: dopo aver studiato la nuova edizione critica prende la vecchia Peters e la confronta con gli autografi e con le edizioni annotate da Markevitch, Szell, Mahler e Toscanini per arrivare a riconcertare le sinfonie in una versione personale, frutto di studio e meditazione. Con la prossima puntata si tornerà indietro nel tempo per riscoprire i “grandi classici” che, ugualmente hanno mostrato diverse vie interpretative: Mengelberg, Furtwängler e Walter.
Gli ascolti:
Beethoven/Liszt: Sinfonia n. 6, V movimento – Glenn Gould
Forse un commento simile si puo’ fare anche per la missa solemnis diretta da Herreweghe che ho ascoltato a Siena nell’estate del 2010
davvero un ciclo interessante, Beethoven è in assoluto il compositore sinfonico che amo di più. Complimenti Duprez, seguirò gli appuntamenti con gande interesse.
L’ eccellente articolo di Duprez, al quale faccio i miei più sinceri complimenti, mi ispira una riflessione. Come mai nel campo della sinfonica abbiamo interpretazioni odierne che possono essere confrontate con quelle dei grandi del passato e invece col canto questo non è più possibile?
Saluti e scusate per l’ off topic.
Duprez ottimo articolo
Molto interessante, grazie!
Attendo il seguito.