Lotte Lehmann è stata una delle maggiori cantanti non solo d’opera, che abbiamo calcato il palcoscenico. Non solo cantante d’opera, ma anche concertista famosissima. Forse con la Schumann la maggiore della sua generazione e una della grandissime in assoluto.
Nel parlare di questa grande nella trattazione dei soprani pre Callas si impone non una, ma due puntate e la prima, affidata ad un’esperta di lingua tedesca come la nostra Giuditta Pasta è, appunto, dedicata al Lied. – DD
In occasione del recital di lieder che il baritono Thomas Hampson fece alla Scala quasi un anno fa, avevo scritto una recensione in cui ho espresso certe idee, soprattutto sul Fischer-Dieskau liederista in confronto ai liederisti dell’anteguerra, che sono state accolte con applausi freddi e qualche sordo fischio. In questa analisi dedicata a Lotte Lehmann quale interprete di lieder vorrei riprendere l’argomento e trattarlo in un contesto più positivo, cioè discuterlo trattando in maniera affermativa i proposti esempi musicali dell’arte del grandissimo soprano tedesco.
Nel saggio “La grana della voce”, saggio ormai divenuto un classico, di Roland Barthes, il celebre critico letterario, semiologo, linguista, etc., fa un confronto molto perspicace, da un lato, fra le interpretazioni cameristiche dell’antico maestro francese di melodies e lieder, Charles Panzéra, e, d’altronde, l’approccio ai lieder da parte di Dietrich Fischer-Dieskau, nuovissima e onnipresente star discografica ai tempi della composizione del saggio in questione. Il concetto di “grana della voce” serve a Barthes per designare il cuore od il nucleo materiale, carnale di una voce che si manifesta attraverso l’intero processo del canto. La descrizione viene assecondata da un altro concetto, quello di “geno-canto” che definisce tutta la materialità originaria della voce al livello (ancora) estraneo a qualsiasi determinazione teleologica e fenomenale, ossia all’interpretazione, espressione, rappresentazione etc. che, per Barthes, da parte loro costituiscono il livello di feno-canto.
Per Barthes, la differenza tra un Panzéra ed un Fischer-Dieskau consiste nel fatto che le interpretazioni vocali del primo sono sempre accompagnate da quel sottile sopravanzo che è la grana calda e morbida della voce di Panzéra, mentre nel caso di un Fischer-Dieskau la grana non c’è più, perché nell’esecuzione del lied assolutamente tutto viene sottomesso al principio di rappresentazione ed “espressione” fino a fare cancellare qualsiasi traccia di una grana della voce senza fine, oziosa, autosufficiente, generosa per pura generosità musicale.
In un altro saggio, intitolato “Musica, voce, linguaggio”, Barthes si appella ad una distinzione fra “articolazione” e “pronuncia” che gli avrà spiegato il maestro Panzéra in persona quando Barthes lo frequentava per le lezioni di canto. La “pronuncia” designa la fraseologia del linguaggio cantato in cui la grana – il timbro, la vibrazione della materia sonora – è l’unico elemento capace di dare senso musicale al testo cantato. Una parola pronunciata musicalmente è avviluppata e trasfigurata dal suono, mentre “l’articolazione” abusa della sua funzione significativa e rappresentativa e, pensando di servire al senso (del testo), non fa altro che consumare con una “chiarezza parasitica” la grana ed il valore musicale della voce.
Quello che dice Barthes sull’arte di Charles Panzéra può essere integralmente ripetuto riguardo al lavoro liederistico di Lotte Lehmann per cui il repertorio di lieder era sempre stato una parte inalienabile della sua brillante carriera. Basta anche menzionare il fatto che a 63 anni abbia terminato il suo percorso con un ampio recital di lieder.
Siccome stiamo discutendo di un genere musicale in cui la poesia reclama ancora più diritti rispetto alla musica che nella lirica, sarebbe curioso di iniziare con dei brani letti da Lotte Lehmann. Il suo timbro – non più una grana, ma una vera arteria pulsante, piena di sangue e calore – risulta di essere la materia avviluppante non solo nei brani cantati, ma anche nei brani letti, come nella sua lettura delle poesie di Mörike. Si potrà notare che la voce parlata della Lehmann rimane costantemente timbrata ed arricchita per una gestione del fiato che alla fine, come ben sappiamo, è ugualmente cruciale per attori e cantanti.
Pur trattandosi di un testo letto, ci troviamo davanti ad un testo pronunciato nel senso più elevato e barthesiano dell’aggettivo. La limpidezza dell’articolazione verbale è dovuta non ad uno sforzo della “sovrarticolazione” delle parole a spese dell’integrità e dell’autosufficiente generosità musicale del timbro quale timbro, ma all’abile applicazione del fiato che nutre il timbro della voce e le concede la massima libertà nel manovrare.
L’intera architettura dello stile di Lehmann è talmente radicata in una concezione dinamica musicale della poesia che anche alla fine della vita, durante i suoi famosi masterclass, la Lehmann esegue un “Sonntag” di Brahms mezzo-cantato mezzo-declamato che è completamente portato da una visione (o meglio, da un udito) essenzialmente musicale (“musicale” nel senso ben determinato con cui è stato definito nella descrizione della “grana della voce”) del materiale verbale.
Ogni ascolto di lieder eseguiti da Lotte Lehmann smentisce la plausibilità del metodo tedesco dell’immediato dopoguerra che per maggior ampiezza e chiarezza nell’articolazione della lingua tedesca la posizione della voce deve abbassarsi in modo che il canto corrispondesse alle esigenze della fonetica tedesca. Teoria che ha sin dall’inizio scavalcato il ruolo fondamentale del fiato diaframmatico-costale la cui applicazione rende l’emissione massimamente libera e, di conseguenza, contribuisce anche alla massima libertà nell’articolazione. Pur con tutte le particolarità della fonetica tedesca, basta una Lehmann per dimostrare che per avere una buona pronuncia tedesca (se questa è un fine a se stesso, come lo è spesso nello spazio nordico-teutonico, soprattutto dopo la vittoria del modello fischer-dieskauiano) non c’è nessun bisogno di cambiare e disomogeneizzare la posizione della voce. Compariamo l’esecuzione di “Weylas Gesang” eseguito da uno dei primi disastri vocali di stampa tedesca, Martha Mödl, con quella cantata dalla Lehmann:
Questi ascolti non necessitano nessun commento supplementare eccetto la costatazione che con tutta evidenza anche i brani più “adatti” (cioè, più facilmente sacrificabili) al declamato, come una gran parte dei lieder di Wolf, hanno molto più senso (sia musicale che poetico), quando vengono eseguiti con una linea vocale dal legato purissimo ed uno strumento perfettamente timbrato. Esecuzione in cui linea vocale e flusso verbale si trovano in perfetta unione ed in cui né la voce si distacca dalla dinamica poetica del testo stimbrandosi o stonando, né l’articolazione verbale si mangia e distrugge il suono e la linea musicali.
Passiamo al prossimo ascolto in cui ritroviamo la Lehmann alla fine della sua lunga carriera. A più di sessant’anni canta ancora con una voce duttile e dal timbro sempre squillante. Lo strumento abilmente guidato è lì a permetterla pure a 63 anni di modulare il suono a suo piacere, trovare innumerevoli sfumature per le variate sonorità della fonetica tedesca, sempre coinvolgendo nel tessuto di fonazione allo stesso tempo morbido e limpido i suoni piuttosto “duri” del tedesco (soprattutto le innumerevoli terminazioni sulle consonanti che, in specie, nel caso del “ch” – “A-ch!” – rappresentano un problema estetico mal risolto anche per una grandissima come Christa Ludwig).
Una delle qualità più distinte di Lotte Lehmann è la sua sintesi fra un fraseggio istintivamente molto passionale ed un gusto nobilissimo nel contenere questa sua passionalità in una forma sempre chiara grazie al sostegno della sua tecnica. Invece di dissolversi in una pseudo-emozionalità distruttiva, il fraseggio tragico della Lehmann rimane una figura, un gesto estetico sollevato anche nei momenti più caricati, come nel lied “Die Krähe” dalla “Winterreise” o nel “Gretchen am Spinnrade”:
Tenevo molto ad iniziare una discussione sulla Lehmann liederista presentandola nel ruolo dell’oratrice delle poesie in primo luogo per evitare l’impressione che pure nei lieder la Pasta grisina difendesse una qualunque metafisica canora che non sopporta nessun diritto proclamato dal lato verbale e propriamente teatrale-rappresentativo del brano. Seguendo la strada dalla Lotte parlante alla Lotte cantante, abbiamo visto che la grandezza della Lehmann consiste precisamente nell’assoluta attenzione che la maestra porta ovunque alla figurazione e trasfigurazione del testo, dipingendo un numero infinito di sentimenti ed immagini con mille colori ed accenti musicali. Ma, l’articolazione figurativa del testo poetico essendo pure il punto d’orientamento delle sue interpretazioni, bisogna sottolineare che è ancora quella grana della sua voce, quell’idioma strana e straniera che è il timbro ed il dinamismo immanente al canto, aldilà della mera economia e circolazione verbale di significazioni e rappresentazioni, a dare senso e materiale al lavoro artistico-rappresentativo dell’esecuzione di un lied. Un lied eseguito col metodo di tanti specialisti del dopoguerra (fra cui si troverebbe anche il sopramenzionato Hampson e – ci insisto – anche il Padre del declamato, Fischer-Dieskau) rimane un lied parlato anche quando viene cantato. Una poesia detta col metodo che applica la Lehmann lettrice di Mörike è una poesia cantata anche quando Lotte non fa che leggerla. La differenza è nel fare vibrare la grana della voce – tanto estranea alla logica immanente del tessuto significativo della sfera verbale quanto necessaria per farne una poesia.
Segnaliamo il sito della Lotte Lehmann Foundation dove si possono scaricare gratis una grande selezione di lieder ed arie interpretate dalla maestra tedesca: http://voxnovamedia.com/lehmann/sings/index.html
Volevo solo segnalarvi che qui in Germania esiste anche un’ accademia dedicata all’ artista
http://www.lottelehmannakademie.de/index.php/lotte-lehmann-akademie.html
L’ istituto ha sede a Perleberg, cittadina storica situata nel Brandeburg sulle rive della Stepenitz, ed organizza masterclasses, convegni e concerti.
Grazie. Grazie!! GRAZIE!!!!!
Cara Giuditta,
non ho avuto occasione di leggere il tuo articolo su Hampson e l’inevitabile chiamata in causa di Fischer-Dieskau. E mi dispiace molto, perché avrei volentieri espresso tutto il mio sostegno alle tue tesi, qui brevemente riassunte e poi ri-articolate in funzione della descrizione del canto da camera di Lotte Lehmann.
Fischer- Dieskau è sicuramente uno di quei cantanti attraverso i quali si può stabilire un prima e un dopo. Di solito, questa espressione è riservata a innovatori geniali e, comunque, ad apportatori di conquiste positive. Nel caso di FD, invece, mi prendo la libertà di dire serenamente il contrario. Dopo di lui, il canto da camera si è trasformato nel rifugio di dicitori maniacali, di solito piuttosto afonoidi, incapaci di cantare nel senso proprio del termine, insomma, persone convinte che si possa risolvere ogni Liederabend con lo Sprechgesang (più Sprech che Gesang, ovviamente). Recentemente, una nota rivista che pubblica opere in DVD ha dedicato un interessante articolo nel quale si sostiene che oggi il canto da camera, e il repertorio liederistico in particolare, sia appannaggio di cantanti maschi dalla personalità eccezionale: Kaufmann, Goerne, Hampson, Bostridge. Di quest’ultimo si tesse addirittura un elogio sorprendente: se ne elencano tutti i limiti vocali (chi, come me, ha ascoltato in streaming la recente Winterreise romana, sa bene come nemmeno a metà del ciclo il diafano Ian fosse tragicomicamente afono), e poi, facendo finta che non esistano, si esalta il lavoro chirurgico fatto sul testo; quello stesso lavoro che Tu, molto giustamente, dici essere non solo sbagliato ma anche mortificante per il rapporto testo – linea di canto che è fondante nel Lied. Che dire? O tempora, o mores.
L’unica altra cosa che vorrei dire, anche se so che detta qui sembra inutile perché tante volte anche detta da Voi animatori del sito, è che il repertorio da camera una volta era cantato da Lehmann, da Roswaenge, da Tauber, da Voelker, da Kipnis, da Schlusnuss, da Rethberg, da Patzak, da Slezak. da Hotter e via elencando; insomma, da voci, grandi voci che sapevano piegarsi alle esigenze di un canto necessariamente meno magniloquente di quello melodrammatico, ma non per questo liquidabile con vocine smunte, afone e stonate. Oggi il Lied si parla, ché recita sarebbe già dir troppo bene. E questo, sparatemi pure, anche e soprattutto per colpa dell’universale Fischer – Dieskau che ha fatto da spartiacque fra un prima fatto di cantanti e un dopo fatto di parlanti. Con tutto quanto di male ne viene alla musica. Triste, molto triste.
Concordo. Poi sulla spiccata personalità liederistica di Kaufmann magnificata dai venditori di CD, basta conoscere il tedesco per accorgersi che, oltre a cantare come canta, ha una pronuncia approssimativa e con marcate inflessioni dialettali.
E’ il tipico continuo ritorno a cui sono soggetti tutti i “grandi”: dopo Ruffo, che aveva una grande potenza vocale, tutti i baritoni iniziarono ad urlare per emulare la sua potenza; dopo la Callas, con i suoi suoni aspri e disomogenei per natura, i soprani successivi iniziarono a (dis)educare le loro voci facendo i suoni rochi ed abbruttendo la voce; dopo Dieskau, che sinceramente a me dice meno della Lehmann in termini di “spontaneità di emissione” (credo di poter riassumere semplicionamente così quanto di esteso detto da Giuditta) sono venuti appunto i Bostridge che con una tecnica inglese da cantante di stornelli si è cimentato nel repertorio liederistico di ben più solida portanza vocale (una specie di Kirkby al maschile che canta Vivaldi).
Destino di sudditanza della posteriorità, chiaramente dei più! 😉
Concordo con Te sugli incolpevoli grandi cantanti. Incolpevoli, perché in assenza di dolo: sono un po’ come dei “pazienti zero”, che avevano pregi – moltissimi – e difetti – meno, ma assai più facili da imitare – e che hanno dato, loro malgrado, il via a una deleteria pratica imitativa. Io citerei anche Kraus, che, nuovamente suo malgrado, ha scatenato una schiera di imitatori che pensavano che cantare nel naso volesse dire cantare in maschera – ma quanta differenza fra Kraus e, chessò, Sabbatini!! -. E penso anche alla lacrima nella voce di Gigli che si è trasformata nei piagnistei di tanti. Però, caro Misterpapageno, vorrei solo farti notare una cosa a completamento del tuo discorso: tu citi, e io aggiungo all’elenco, cantanti che, a conti fatti, avevano ben più pregi che difettii. Nel caso di Fischer- Dieskau, invece, abbiamo un “paziente zero” che è un coacervo di difetti di fonazione (anzi, secondo me se avesse studiato correttamente sarebbe stato un ottimo tenore). E allora, già è sbagliato imitare le voci altrui, ché con la propria si dovrebbe cantare; ma se poi questa voce è anche la negazione del canto professionale camuffata sotto una dizione artefatta, nevrotica e petulante, siamo a cavallo!!
Buona ennesima piovosa giornata.
Un articolo interessantissimo con bellissimi ascolti: i miei complimenti, Giuditta!
Ho trovato molto interessante la descrizione del rapporto tra Panzéra e Barthes, che mette in luce come i nominali non-addetti-ai-lavori, che parlano di materie non ricadenti negli epiteti spettanti (affibbiati evidentemente da limitati mentali) e “illuminano” queste stesse, non solo si buttino e studino queste materie profondamente, ma si preparino e parlino con cognizione di causa, come un Montale che prima di essere nominalmente poeta era anche uno studente di canto, o come Nietszche che compose anche musica. Qualità che hanno solamente le menti umili, acute ed aperte
ma è bellissima! la Canzone di Margherita è stupenda! si capisce quanto la prese a modello la Schwarzkopf, anche nei primi anni quando il timbro era più lucente, ma senza arrivare a tanto. Fenomenale, davvero (ora anche la mia Ruh ist hin…).
Ora, leggo addirittura che Fischer-Dieskau è la negazione del canto professionale; in altre parole, un povero dilettante. Così non mi parve quando lo ascoltai a Monaco nella parte del Conte nelle Nozze di Figaro mozartiane. Come non parve a me, così non parve a nessuno del pubblico, credo di ricordare. Anzi, se devo essere sincero, mi sembrò un cantante e un attore non grande, ma immenso. Com’era ovvio che fosse.
Marco Ninci
una delle vociaccie più dure, sgraziate, afflitte da tedescaggine nell’emissione che abbia mai udito.
La sua morte di Posa fa male alle orecchie…..una grattugia!!!!….
Chiarisco e argomento, ma per riconfermare quanto scritto. DF è un uomo di grande intelligenza, profonda cultura letteraria e umanistica, anche musicale – suona più che decentemente il pianoforte, cosa comune in ogni caso fra i cantanti di area tedesca -; ha scritto libri sulla musica vocale da camera, alcuni anche monotematici – Schubert, Wolf, Brahms. Libri che a me non hanno schiuso un universo interpretativo illuminante, ma che sicuramente hanno contribuito ad approfondire la conoscenza di un genere che amo moltissimo. Insomma, per farla breve, l’uomo non è uno stupido, anzi: averne di persone così intelligenti e intellettualmente curiose. Il problema è che FD ha esercitato la professione di cantante e in questa specifica professione si è presentato fin da subito con un bagaglio tecnico più che deficitario. Non si tratta solo del manierismo degli ultimi anni – che, per come la vedo io, è anche ben presente nei primi. Si tratta di una voce vuota nella prima ottava e apertissima ai limiti della sguaiataggine nella zona acuta. Si tratta del vezzo di cantare i Lieder in tonalità quasi se non decisamente tenorili per mostrare delle mezze voci in zona acuta che mezze voci non sono, ma falsettini smunti. Si tratta di confondere l’articolazione chiara del testo con un esercizio di irritante sillabazione. E i dischi, dal vivo e in studio, sono lì a testimoniarlo, per chi voglia ascoltarli senza pregiudizi. Mi ricollego a quanto scrive Donna Giulia qui sotto: è vero che Bergonzi iniziò a cantare da baritono, ma nel Don Carlo diretto (un po’ all’acqua di rose) da Solti, a sentirli insieme viene da pensare che anche FD, con un po’ di studio, avrebbe figurato bene come tenore. E non lo dico io, lo dice la cavata della voce. Baritoni chiari ne son sempre esistiti (e io li preferisco alle voci cavernose e catramate tanto care a certi intrattenitori da cabaret che vanno in onda quotidianamente sul programma nazionale): ma quando Galeffi apre bocca, la cavata è quella di un baritono; e così Basiola; e così De Luca; e così Inghilleri. Quando FD apre bocca (e penso a certe sue incisioni di Lieder di Strauss, per non allontanarci dall’argomento dell’articolo, con Sawallisch al pianoforte; insomma, riascoltatevi “Morgen”!!) la voce suona tenorile. Però quando la tessitura si sposta là dove i baritoni che san cantare emettono acuti liberi, pieni, coperti, rotondi, squillanti; e i tenori cominciano a propiziare il passaggio nella zona fra mi-fa-fadiesis-sol, il nostro FD apre sguaiatamente, emettendo suoni bianchi – che è diverso da chiari – privi di vibrazioni, ingolati, faticosi. E tutto ciò anche quando aveva trent’anni. E, nuovamente, i dischi sono lì a testimoniarlo.
Che poi in scena potesse essere coinvolgente non ne dubito. Basta sentire come crolla il teatro alla fine del second’atto della Fedora napoletana con Olivero e Di Stefano, dove quest’ultimo urla in modo folle: eppure il pubblico è tutto per lui. Ma ciò non toglie che il suo canto sia pessimo, come lo è quello di FD nonostante la sua cultura, la sua intelligenza e il suo charme scenico.
Perché, per citare Gavazzeni, puoi avere tutta la cultura che vuoi, ma se non hai il braccio i professori d’orchestra non ti capiranno mai. Ovvero, puoi essere un uomo di fine intelligenza e profondissima cultura, ma se non sai emettere corretamente la voce non sarai mai un cantante, come Donzelli, giustamente fa notare. E io, umilmente, mi associo.
caro ninci la bomba atomica venne scangiata per costringere il regno del sollevante alla resa, ma dovresti sapere che gli effetti si sono riverberati anche nelle orecchie del popolo, che si reputava, eletto e che ha cominciato a pensare che la janovitz fosse come la lemnitz, la baltsa come la klose!
Caro Donzelli, una cosa è pensare che Fischer-Dieskau abbia dei difetti o che nell’ultima fase della sua carriere sia stato prigioniero di un certo manierismo, cosa del tutto legittima, un’altra è pensare che sia un dilettante. Cosa che vale anche per la Janowitz e la Baltsa. A parte il fatto che mettere insieme queste ultime due cantanti non è molto corretto, dal momento che la prima ha una statura artistica immensamente superiore alla seconda.
Marco Ninci
io di struttura artistica non ne vedo punto.in chi tu hai nominato vedo, invece, la inossidabile struttura delle major del disco. Mi tengo le misconociute Ligabue, Cerquetti e pure Gabriella Tucci. Vere voce, vere cantanti, spesso autentiche artiste.
Ora, che la Janowitz sia un’invenzione delle major del disco è un’opinione come un’altra. Un’opinione che, per altro, non collima minimamente con quella del padre nobile di questo blog, Rodolfo Celletti. Il quale dal canto suo aveva di Fischer-Dieskau un’idea ben diversa da quella che qui compare, corredata da una buona dose di improvvisazione. A meno che il Celletti cui qui ci si riferisce non sia Rodolfo bensì Otello Celletti, l’immortale “vigile” interpretato da Sordi nel celebre film di Zampa. E, viste certe affermazioni, sembra proprio questo il caso.
Marco Ninci
Essendo io molto amante del jazz, sulla scorta delle affermazioni del Sig. Ninci continuo a improvvisare. Ma per improvvisare, si sa, ci vuole un tema. E allora, ecco il tema, offertomi, guarda un po’, dal chiamato in causa Rodolfo Celletti, pag. 115 de “Il Canto” ed. Vallardi: “… Specialmente nel recitativo, Fischer-Dieskau illumina ogni parola, come avrebbero potuto fare un Battistini, un Amato, un Galeffi, ma con un rigore d’esecuzione al nostro tempo molto ben più accetto.
Purtroppo Fischer-Dieskau non ha mai saputo che fosse il passaggio di registro e questo compromette tutte le note alte e spiega perché la carriera teatrale d’un simile interprete si sia svolta prevalentemente in Germania e non abbia mai conosciuto palcoscenici italiani. Fischer-Dieskau ignorava già la preparazione del passaggio. (Segue una lunga serie di esempi che non riporto). Ma può anche accadere che su un mi naturale 3 che cade su una O Fischer- Dieskau apra talmente il suono da cambiare la o di “potrò” in una A, alla Di Stefano. … Non di meno l’innata morbidezza e la musicalità trattengono quasi sempre Fischer-Dieskau dall’emettere grida anziché suoni. In alto è proprio un tenore che ignora il passaggio di registro ma non ha poi troppe difficoltà ad emettere un fa e un sol accettabili”.
Ora, in parte ho già improvvisato prima e, comunque, sono disposta ad ammettere di essere stata più tranchant di Celletti. Tuttavia, caro Sig. Ninci, immagino che non faticherà a riconoscere sotto le parole cellettiane da me fedelmente riportate, il nucleo della mia precedente improvvisazione, variazione sul tema distefanesco compresa. Perché io, forse la sorprenderà, prima di parlare o scrivere, leggo e ascolto moltissimo.
Non le sfugga, Sig. Ninci, fra l’altro certa ironia del Celletti: “mai saputo che fosse il passaggio di registro”; “compromette tutte le note alte”; “ignorava già la preparazione del passaggio”; “trattengono QUASI sempre (bellissimo!!) FD dall’emettere grida anziché suoni” e infinie “emettere un fa e un sol ACCETTABILI (se non è ironia questa…)”, senza contare l’accenno al registro tenorile mal gestito.
E allora, da bravi jazzisti, rimbalziamoci l’improvvisazione, Sig. Ninci. Mi permetta di offrirle il tema: fermo restando che anche io, come Celletti e naturalmente si parva componere magnis licet (dove fra i parva, ça va sans dire, sono io), ho accennato alle indiscutibili doti musicali e intellettuali di FD; anche io come Celletti ho evidenziato i limiti di una fonazione difettosa; anche io come Celletti ho evocato il fantasma di Di Stefano, quale esempio di cattiva fonazione; anche io come Celletti, ripeto, sento in FD più un tenore incapace di gestire la propria voce che un baritono; detto tutto questo e attestato il fatto evidente che io non sono Rodolfo Celletti, sarebbe tanto gentile Sig. Ninci da improvvisare per me un bel pezzo sulla strutturale differenza fra la mia opinione e quella dell’ottimo Celletti?
Si può veramente mettere sullo stesso piano la Cerquetti e la Ligabue? Ne dubito. Nulla le accomuna, quanto a voce, fraseggio, sensibilità artistica, espressività e capacità di *interpretazione* attraverso la voce. Io seguo sempre con grande piacere e interesse questo blog, ma a volte resto un po’ di stucco. La seconda avrà (forse) avuto una bella voce; ma poi? Non trovo alcunché di memorabile nella sua Amelia, nella sua Elisabetta, nella sua Elvira e nella sua Francesca. Cerquetti, potenzialmente la voce – e, vorrei dire – l’artista più straordinaria della sua generazione, dopo meno di dieci anni di carriera ha abbandonato, per propria scelta, una strada in cui non si riconosceva più: anche perché, e fu lei stessa ad ammetterlo, la voce non era più quella che lei avrebbe voluto (e a giudicare dalla sua Leonora, ma anche dalla Gioconda in studio, direi che aveva ragione). Le case discografiche c’entrano fin lì.
Indubbiamente, tra Cerquetti e Janowitz scelgo la prima; tra Janowitz e Ligabue, invece, scelgo… una sinfonia di Bruckner. 😀
l’industria del disco ha per forza di cose privilegiato delle personalità molto professionali, serie, preparate, che sapessero comunicare al mondo del dopoguerra un messaggio che veniva da un mondo ormai scomparso. Inevitabilmente, ci fu una mediazione, un filtro, nella maggior parte dei casi. La Schwarzkopf e F.Diskau, oggi, sono più validi in Wolf e Strauss, o ancor più in Mahler, di quanto non lo siano in Mozart e in Schubert. Non è una questione di filologia, ma in effetti di tecnica, perché loro, come la Janowitz, non andarono a fondo alla tecnica quanto alla musica e soprattutto a una tradizione musicale di cui si sentivano portatori (anche con un po’ di spocchia). Erano ineccepibili musicalmente, sapevano stare coi direttori, coi registi maggiori, e certamente anche ferrati tecnicamente, diciamo al 90 %: il registro superiore di Fisher-Diskau non è proprio il risultato di un lavoro maniacale sull’acuto, ma magari lui perdeva mesi e mesi sul contesto letterario di un lied, e così l’ossessione per la maschera della Schwarzkopf ha del discutibile (perché lei non sa cosa è, pare). Insomma risultano più datati loro, che si sentivano terrbilmente moderni, di una Lehmann, che viene prima di loro ma che senza tanti fronzoli intellettualistici sa in prima persona cosa è il canto e cosa è il “suo” canto.
ovviamente i “fronzoli intellettualistici” non sono la “cultura”
Caro lontanodalmondo, per quanto io non conosca approfonditamente Dietrich Fischer Dieskau se non per aver sentito qualche lieder come “Die Forelle” e “An die Musik”, il “Requiem” di Fauré con la De los Angeles e il Don Carlo con Ghiaurov, Tebaldi, Bergonzi e Bumbry, trovo la tua analisi fondata, profonda, libera e critica: è questo il modo di dialogare che a me piace veramente!
Grazie per gli spunti di dialogo che offri e per la curiosità che hai risvegliato in me insieme a Giuditta su questo tema
Grazie a Te per le bellissime parole di stima.
Dico la mia. Ho sentito Dieskau dal vivo una sola volta, alla Scala nel 1980, nel ciclo schubertiano “Winterreise” con Sawallisch al pianoforte. Mi parve una bella esecuzione, ma allora non conoscevo il tedesco e molte cose oggi le giudicherei in maniera diversa. A Celletti piaceva per certe cose, ma il critico romano ne metteva puntualmente in luce anche le vistose carenze tecniche ben riassunte da lontanodalmondo e Fabrizio nei loro interventi, che sottoscrivo pienamente. Ma poi lasciamo perdere il discorso del padre nobile, perchè molte idee di Celletti non sono condivise dagli autori di questo blog ed è giusto d’ altronde che sia così.
Direi che il difetto fondamentale di FD è proprio il voler strafare a livello interpretativo, l’ assoluta mancanza di spontaneità del suo fraseggio. Ascoltatelo nella Schöne Müllerin e poi mettete su Gerhard Hüsch, fantastico liederista non citato ( mi sfugge il perchè) da Giuditta in questo articolo, e avrete immediatamente la misura di come si possa illuminare dall’ interno tutte le sfunature del testo senza perdere un grammo di naturalezza e spontaneità di eloquio. Tronando a FD, trovo assolutamente insopportabile il suo Mozart, affettato e manierato sia dal punto di vista vocale che scenico, come testimonia il celebre video delle Nozze con la regia di Ponnelle nel quale tratteggia un Conte che si rivolge a tutti con quella condiscendenza vagamente schifata che, secondo i racconti dei miei genitori, avevano gli ufficiali delle Wehrmacht nei contatti con la popolazione italiana durante la guerra. Insomma un uomo e un interprete di innegabile intelligenza al quale però Verdi avrebbe senza ombra di dubbio ripetuto le parole che rivolgeva sempre a Victor Maurel: “Pensi di meno e canti di più”.
Saluti
Ho spesso sentito dire che le voci piccole e poco udibili troverebbero una loro collocazione ideale nel Lieder!! mi pare, che l’imponete voce della Lotte Lehmann lo smentisca con evidenza, essendo proprio la grande riserva di potenziale vocale a permetterle l’infinità di colori e sfumature che il genere richiede e che una cosiddetta “liederista” come, ad esempio, la Elly Ameling, non avrebbe mai potuto raggiungere con il suo mezzo.
Grazie Giuditta del bellissimo articolo! e anche a lontanodalmondo per i suoi commenti .
Caro Lontanodal mondo, Le porto questo altro esempio, su FD interprete di Rigoletto (Il teatro d’opera in disco, pp. 1004-1005): “A questi fraseggi, di fronte ai quali la berciante truculenza dei baritoni veristi della scuola del muggitofra una ben trista figura, si aggiungano la tenerezza dei duetti con Gilda e le imploranti effusioni di “Miei Signori”, pagine queste in cui Fischer-Dieskau padroneggia a meraviglia il suono, i fiati, le legature, i portamenti”. Questo è secondo Celletti ciò che Lontanodal mondo definisce canto non professionale. Ciò che, se l’italiano è italiano, significa l’opera di un povero dilettante. Il problema è che qui si apprezza il canto all’italiana, non con quel tipo di canto, accusato di tedescheria. Il che è legittimo ed era condiviso anche da Celletti. Solo che Celletti era un grande critico; sapeva apprezzare ciò che era lontano dalla sua sensibilità; lo criticava, come si vede da ciò che riporta Lontanodal mondo, ma lo apprezzava. E così era per la Janowitz, così era per la Schwarzkopf. Qui invece la mentalità è rigida, legnosa, chiusa; le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Marco Ninci
Detesto tutti o quasi tutti i baritoni del Dopoguerra, Dieskau non fa eccezione, anche se gli va dato atto di una attenzione per la musica e per la parola che invano cercheremmo in altri baritono dell’epoca, o di quelle successive. La voce è brutta, in certe cose non canta affatto male, ma francamente non mi viene mai voglia di ascoltarlo, quel modo di fraseggiare così sofisticato ed intellettualoide, che era anche di Vickers, per me è assolutamente indigesto.
A volte i cantanti hanno un modo di eseguire che distrugge tutte le loro buone intenzioni. Prendete il caso di Tito Gobbi. Riguardo al ruolo di Jago, se leggete la sua autobiografia ne parla in un modo tale che sembra essere il nipote di Shakespeare e il cognato di Verdi: ha capito tutto, di come l’ alfiere debba essere insinuante, galante, civile, raffinato, non alzare mai la voce (Credo a parte), non mostrarsi “vilain” in tutta la sua perversità, sennò pure uno più stupido di Otello lo smaschererebbe all’ istante. Bravo, bravo. Andate poi a sentirlo in qualunque delle sue registrazioni di quel ruolo, e vi chiederete se è la stessa persona. Il solito abbaiatore idrofobo che cacceresti via dopo mezz’ ora per quanto è molesto, altro che onesto Jago. Mah. Si può essere acuti scrivendo e ottusi cantando?
ahahaha!!! Bravo Mozart! Brillante e ficcante come al solito; è vero, le strade dell’inferno canoro sono lastricate di buone intenzioni. Quando si ha una grande tecnica, le più complesse sfaccettature del personaggio emergono facilmente, quando un buon imposto vocale manca, qualsiasi cervellotica buona intenzione naufraga, diventa piatta, monocorde e banale. Celletti nel brano riportato da lontanodal mondo descrive perfettamente i limiti e i pregi di FD. Personalmente la caratteristica di FD che mi ha sempre lasciato perprlesso è il suo modo di essere sempre terribilmente uguale a se stesso, la sua perversa capacita di cantare decine di volte in modo identico lo stesso lieder; una macchina di finti sentimenti. Come se il suo non fosse un reale sentire, un reale esprimere ma un furbo atteggiarsi vocale. Da questo punto di vista un prodotto discografico perfetto! Il concerto diventava un evento di puro marketing del disco; live trovavi esattamente quello che poi potevi comprare in negozio. La quadratura del cerchio del mercato discografico. Per questo ho sempre preferito a FD ( in anni di vacche magre che ci tocca fare….) Hermann Prey, almeno 2 note diverse in due ora di musica potevano capitare.
Poi, caro (o cara?) Lontanodalmondo, il fatto che FD non abbia conosciuto palcoscenici italiani vuol dire ben poco. Warren, molto diverso da FD e ben più di lui versato nel repertorio italiano, li conobbe una volta sola; e fu fischiato. Tucker, anche lui molto diverso da FD e ancora molto versato nel canto italiano, solo negli anni estremi della carriera. E allora? Che cosa significa? Nulla, meno di nulla. E poi…Dici di essere solo un po’ più tranchant (o tranchante? Chi può dirlo? Ormai questa ossessiva difesa della privacy ha portato a distinguere le persone come si distinguono le onde del mare sulla spiaggia in un giorno di assoluta bonaccia) di Celletti. Non direi. Dai del dilettante al nostro FD. Altro che tranchant o tranchante! Credo che Celletti sarebbe semplicemente inorridito.
Ciao, chiunque tu sia
Marco Ninci
1) a marco intimo di non addentrarsi in considerazioni del tipo “Celletti sarebbe inorridito” per il fatto che non può sapere cosa Celletti avrebbe risposto. Peraltro, Lontanodalmondo espone quel che pensa con un giudizio tecnico esperto e puro senso della realtà, portando un suo parere fondatissimo diverso dalle scopiazzature lecchine di Celletti che fanno comodo come quelle proposte: di seguito
2) Lontanodalmondo, da vero dialogatore, ha portato un resoconto generale azzeccato sulla tecnica di FD secondo Celletti, ben applicabile al caso in questione ossia alla liederistica, differentemente dal riottoso e cerca-zizzania marco che ha estrapolato a casaccio una recensione in merito ad un brano operistico: mi si deve spiegare cosa c’entri con l’argomento!
Intimare, addirittura…Ma la mia non è una “scopiazzatura lecchina”, è molto semplicemente una citazione letterale. Lontanodalmondo poi faceva un esame generale della tecnica della figura di cantante di Fischer-Dieskau, definendolo letteralmente un non professionista; in generale, non soltanto sulla liederistica. Tant’è che su questo argomento non ha avuto nulla da dire. Ora, su una simile definizione io ho il dovere di esprimermi. Basta. Finisce qui. Consiglio a Misterpapageno di darsi una calmata con le sue intimazioni, in bilico fra la crisi isterica e il delirio di onnipotenza…
Marco Ninci
Chiedo venia del ritardo nel rispondere. Tendenzialmente non sono troppo presente alle discussioni, di questi tempi – e il mio nick name non è un caso.
Ma cerchiamo di procedere con ordine: allora, per prima cosa mi scuso nuovamente per l’errore ortografico: sì, avrei dovuto scrivere “tranchante”, corretto per il mio sesso; a mia parziale discolpa invoco il fatto che a volte ci si distrae e anche rileggendo un brano più volte prima di premere il fatale “commento all’articolo”, qualche errore di battitura può scappare.
Ciò detto, un plauso a Mozart per il suo “Si può essere acuti scrivendo e ottusi cantando?”. Dico senza vergogna che avrei voluto scriverla io una frase tanto brillante.
Poi che altro? Oh già, la disamina della vocalità di FD. Necessariamente, caro Ninci, ho scritto dell’emissione di FD a prescindere dal repertorio, perché sono convinta che un cantante modifichi lo stile, cambiando repertorio, non la fonazione. Così come un pianista modifica, nuovamente, l’approcio stilistico, non certo il suo modo di mettere le mani sulla tastiera. Faccio un esempio che spero chiarisca il mio pensiero: per sua stessa affermazione, il grandissimo Claudio Arrau non suonò alcun brano di Mozart in pubblico per diversi anni perché non riusciva a trovare quella che definiva “una sonorità adatta”. Ora, già so che l’obiezione è dietro l’angolo: mi si dirà che se Arrau parlava di sonorità chiamava in causa la tecnica prima ancora dello stile. Mi prendo la libertà di dire che questa sarebbe una falsa obiezione, ché lo stile non può che discendere dalla tecnica. E allora a cosa alludeva Arrau? Dal momento che il suo Beethoven ha una personalità “sonora” perfettamente distinguibile dal suo Chopin, dal suo Schumann, dal suo Debussy o dal suo Liszt, tutti l’uno giustamente diverso dall’altro sotto le dita del grande cileno, direi che Arrau parlava di scelte stilistiche, dando la tecnica, beato lui, per acquisita.
E qui torno a ripetermi: la tecnica di FD è difettosa, e Celletti non la pensa diversamente. Poi è vero, come da altri sottolineato, che Celletti apprezzava e molto la fantasia di FD interprete. Mi sembra di aver scritto che l’uomo è colto e intelligente e ciò, va da sé, si riverbera sul suo modo di porgere le frasi. E allora, mi si chiederà, dove sta il problema? A mio avviso il problema sta nel fatto che una tecnica difettosa, prima o poi – e nuovamente un plauso a Mozart per l’eccellente riferimento a Tito Gobbi, altro uomo intelligente e colto – inficia anche le idee interpretative migliori. Parlando di Rigoletto, visto che lei ne parla, caro Ninci, ci sono frasi nelle quali Verdi perseguiva un “effetto” (lo metto tra virgolette perché è una parola tipicamente verdiana) che è tale solo se la voce è correttamente emessa e proiettata. E non mi riferisco solo alle note acute – scritte e non – ma anche a certi passaggi come “Moria, moria, le foglie coprano lievi quel capo amato” oppure “Angiol caro, mi guarda, m’ascolta”, nelle quali la voce non si spinge mai oltre un mi bequadro (se mi sbaglio chiedo venia; non ho lo spartito sotto mano) ma che in bocca a FD suonano tenorili nella cavata e affettate nella dizione. A scopo di confronto, se non si fida del mio gusto – come è giusto che sia, ma ammesso e non concesso che di gusto si tratti -, ascolti i brani incisi da Giuseppe Danise; poi, se vuole, ne riparliamo.
L’accenno alla scarsa frequentazione dei palcoscenici italiani è cellettiano, non mio; ambasciator non porta pena (a meno che lei non la pensi come il Conte Attilio), e, so di sorprenderla, concordo con la sua obiezione sulla scarsa rilevanza dell’informazione. C’è una legione di cantanti sovietici che, per ovvi motivi, non hanno mai visto un palcoscenico italiano e che, comunque, cantavano divinamente. Non credo che il cantare in Italia possa essere considerato come una sorta di diploma di merito. D’altra parte penso, come gli animatori di questo sito, che cantare secondo l’ottima scuola italiana a cavallo fra i secoli decimonono e ventesimo sia auspicabile per chiunque voglia fregiarsi del titolo di cantante. E qui torniamo alla questione del professionista e del dilettante. Io non ho mai scritto che FD è un dilettante; ho scritto che la sua fonazione non è professionale e la prego, caro Ninci, di non dirmi che questo è un sofisma perché farebbe insulto più alla sua intelligenza che alla mia. Torniamo ai pianisti: se un pianista, ogni volta che esegue un arpeggio, si perde le note per strada, è impreciso, non è sciolto e leggero ebbene, la sua tecnica è difettosa. Poi chissà, magari quando c’è da suonare una melodia accompagnata da accordi ribattuti (chessò, l’andante del concerto K 467 di Mozart) è in grado di fare miracoli di fraseggio; però non sa mai, e questo mai è importante, centrare un arpeggio. Posso prendermi la libertà di dire che la sua tecnica non è professionale, poiché manchevole, poiché difettosa? Sì, posso. Allo stesso modo, un FD che non sa emettere correttamente un acuto ha una tecnica difettosa. Ora, so già che lei potrebbe obiettarmi, sulla scorta di un altro articolo e cioè quello sulle considerazioni di Lazaro sul trillo, che i cantanti con tecnica difettosa sono più di quelli perfettamente rifiniti. Chissà, forse è vero. Ma è certamente vero che ci sono mancanze più gravi di altre. E allora un Mattia Battistini che non trilla mai ma che canta “Vieni meco sol di rose” tutto a fior di labbro e con una disinvoltura impressionante nelle continue salite al fa acuto è sicuramente più professionale di un FD che quando deve cantare piano spoggia e quando deve cantare forte, in zona acuta, grida.
Le faccio un ultimo esempio, poi basta che sto venendo a noia a me stessa: io il più bel “Ah sei tu! Ben venga!” da “Pagliacci” lo sentito da José Carreras alla scala: una frase da far saltare sulla poltrona, un zampata autentica da vero fuoriclasse. Peccato che per tutto il resto dell’opera, quando la tessitura di una parte pure piuttosto centrale come quella di Canio si faceva scomoda, il buon José avesse urlato senza tregua, parzialmente salvato solo dalla bellezza della sua voce.
Ciò detto, temo che non ci troveremo mai d’accordo, caro Ninci. Ma va bene così. Solo non mi faccia dire cose che non dico e non prenda le mie opinioni su cantanti che lei stima come offese mortali a lei prima ancora che a detti cantanti.
Per finire, ascolti un po’ di Schubert cantato da Patzak: un cantante che più colto, musicalmente preparato (prima di intraprendere la carriera canora si era preparato per quella di direttore d’orchestra; e sì, lo so che anche il nostro FD ha diretto, venendo in soccorso al povero Klemperer che si era dato fuoco a letto) e nordeuropeo non si può. Ma quale differenza con FD.
Chiedo perdono agli animatori del sito per essermi dilungata. Buon lavoro e buon primo maggio a tutti.
Caro lontanodalmondo, leggerti è semplicemente soggiogante e rimango incantato dalla tua disquisizione di risposta: pulita, critica e profonda. E’ un vero piacere leggerti e da parte mia una vera possibilità di approfondimento! Concordo peraltro su tutto quello che dici